Spacconate, rancori, vittorie e segreti di AG
recensione al romanzo «Il carro di Tespi» di Savina Dolores Massa. (*) Visto che librerie e distributori riaprono… seguite il mio consiglio: prendete questo libro
«Rilassatevi la cervicale: non siete in un romanzo di suspence. Se state cercando il brivido mettetevi fra le natiche un asciugacapelli con spina inserita alla presa, premete il bottone e smettete di leggermi». Così Savina Dolores Massa. Stile rude, dialogo diretto, come si usa nel teatro popolare: «senza gli altri si è un deserto».
Con il Maestrale, si sa, arrivano gli incendi: veri – a volte dolosi purtroppo – ma anche quelli simbolici. Stavolta il Maestrale, nel senso della casa editrice, accende un fuoco di inganni, confessioni e parole cesellate pubblicando «Il carro di Tespi», quarto romanzo della scrittrice oristanese.
I carri di Tespi erano teatri di strada; storia interessante (**) ma qui l’espressione è usata solo come allegoria pur se il protagonista assoluto è un bottegaio e teatrante, quinto di sette figli legittimi, nato nel 1907. Noi lo conosceremo solo con la sigla AG anzi «gli innumerevoli AG», quasi tutti imbroglioni, egocentrici, talmente ossessionati dal vero e dal falso da non distinguerli più e volutamente mescolati fra loro. I molti AG decidono, a 80 anni, di fare i conti con la vita: sono pieni di ricordi, di spacconate, di rancori, di vittorie, di segreti e… di penne per riordinare tutto questo su fogli caotici. «Nelle presenti memorie ho deciso di non raccontare sempre il vero. Una specie di ultima commedia, mettiamola così».
Tutto si svolge ad Aristànis: indietro nel tempo e dunque passando anche per l’Onda grande – lo straripamento del Tirso il 9 dicembre 1860 – e avanti, con AG a fissare giorno, mese e anno della sua morte. Rispetto ad altri romanzi o ai racconti, più corali, della scrittrice sarda, qui la trama appare e scompare, si incatena su AG ma anche intorno alla scrittura, ai continui giochi di parole, pensieri. Non a caso tra i più sbeffeggiati c’è Freud. Incrociamo antiche filastrocche blasfeme, l’amico Sesetto che più amato/odiato non si può, spiriti che non passano per i muri (usano le maniglie invece), una suora che sa tutto non per magia ma perché in confessionale spesso si arriva senza maschere. In un cantuccio una moglie, è molto se ha un nome… o così sembra ma poi a volte AG cambia idea. E c’è Rosalia, la pazza, lasciata su una ruota come per secoli usò per liberarsi dei figli scomodi: «mi era sorella, lo supponevo senza prove certe».
Nel finale de «Il carro di Tespi» scoppiettano i colpi di scena per ridere o piangere nel giro di poche pagine: non è un giallo ma antico, buon teatro popolare.
Se chi legge ama perdersi nei «pensamèntus», ritrovarsi tra gechi e formiche, «imparare a essere uteri di se stessi», cercare verità come «spillone nella coscienza», allora in questo romanzo “tela di ragno” brucerà dalla frase iniziale – dal primo pipistrello, anzi – alle ultime parole che si scoloriscono, perché l’inchiostro sta finendo. AG sa «dove trovare la giugulare dei giorni» e raccomanda a chi legge, per tutto il libro i lettori/spettatori verranno corteggiati e offesi a seconda degli umori, «chiudete voi il sipario».
Non è facile scriver da maschio senza esserlo, difficile far centro su un ottantenne («mi avvilisce fare il vecchio») se non lo si è: Savina Dolores Massa ci riesce, come nel romanzo d’esordio riuscì a trasformarsi in 11 senegalesi su una barca alla deriva.
E’ talmente ovvio prevedere che la scrittrice oristanese fra un po’ di anni sarà considerata una delle più importanti scrittrici europee da farsi una strana domanda: perché non lo si ammette già ora? Forse i critici sono lenti o distratti. In più Savina Dolores Massa paga due antichi pegni: esser donna e abitare nell’Isola.
(*) Questa mia recensione è uscita – al solito: parola più, parola meno – qualche giorno fa sul quotidiano «L’unione sarda». Dei precedenti libri di SDM, cioè Savina Dolores Massa, si è parlato qui con recensioni mie e di Christiana De Caldas Brito. A volte SDM ha scritto qualcosa per la “bottega”.
(*) I carri – o padiglioni – di Tespi erano teatri viaggianti, cioè carrozzoni di legno che venivano adibiti a palco, usati dal teatro nomade popolare italiano, del genere comico per lo più, a partire dal tardo Ottocento. Il loro nome rimanda al mitico teatrante Tespi d’Icaria, descritta da Orazio nell’«Ars poetica». Dal 1929 il regime fascista si servì di questa esperienza per i suoi fini: teatro popolare, non sempre pro-regime ma comunque ancorato ai valori tradizionali su cui Mussolini cercava di costruire una identità nazionale.
ahò, sto cacchio debbarbieri te fàntrigà de quello che consija, eppoi a copertina è popo maggicaa!! macc’onvinto, moocompro…