Calcio e sceicchi: i nuovi campionati dei ricconi
Il calcio tra geopolitica, affari e dinamiche colonialiste.
di Valerio Moggia (*)
In questo momento sarebbe facile dire che il 2023 è stato un anno di svolta, nella storia del calcio. Nei mesi che hanno seguito il primo Mondiale arabo, si è chiusa un’epoca, con il tramonto definitivo dell’era del dualismo tra Messi e Ronaldo: due giocatori che hanno trascorso la loro intera carriera in Europa ora si ritrovano per la prima volta in due continenti differenti, con l’argentino negli Stati Uniti e il portoghese in Arabia Saudita. Eppure la loro legacy pare destinata a spostarsi nettamente dal campo da gioco a quello politico-commerciale: Messi diventerà probabilmente il volto dei Mondiali del 2026, mentre Ronaldo potrebbe esserlo di quelli del 2030. Nel frattempo, proprio l’Arabia Saudita pare intenzionata a mettere in piedi il campionato più ricco e spettacolare al mondo, provando quasi a rivaleggiare con l’Europa in termini di appeal e potere economico. Un’ambizione che non è figlia esclusiva dei sogni di Mohammad bin Salman, ma che in realtà è un tratto ricorrente della storia del pallone.
Il calcio nasce come un affare tra Europa e Sudmerica, com’è noto. O, se vogliamo essere più precisi, come un affare tra l’Europa occidentale e una parte del Sudamerica, quella che comprende Argentina, Brasile e Uruguay. E da quando questa dicotomia ha iniziato a emergere, all’inizio del Novecento con i primi campionati professionistici, c’è stato qualche altro soggetto che, a suon di milioni, ha provato a sovvertirne gli equilibri, inserendosi nella sfida intercontinentale. Ognuno di questi tentativi ha portato con sé ambizioni politiche più o meno evidenti: il controllo del football (dei suoi tifosi e del suo business) è un’allegoria del controllo della geopolitica globale, della necessità di affermazione del proprio stato-nazione. I primi a provarci furono gli Stati Uniti, che sono anche il paese che più volte ha provato a seguire questa strada. La prima volta avvenne negli anni Venti, quando i ricchi proprietari dei club della Major League di baseball decisero di investire nel soccer, creando un campionato professionistico e strappando all’Europa giocatori come Harold Brittan del Chelsea e Tom Gillespie del Preston North End, ma anche noti calciatori austriaci e ungheresi come Max Grünwald, József Eisenhoffer, Viktor Hierländer e pure Béla Guttmann.
L’espansione dell’American Soccer League era dovuta inizialmente a ragioni commeciali: il crescente numero di immigrati europei aveva creato una solida base da sfruttare in termini di pubblico per il nuovo sport, che sicuramente conoscevano meglio e apprezzavano più del baseball. Ma allo stesso tempo la nascita di un ricco campionato statunitense era influenzata anche dal clima dell’epoca. L’intervento degli Stati Uniti nella Grande Guerra aveva interrotto una lunga politica isolazionista e, sebbene ancora ci fossero ancora resistenze in tal senso che sarebbero cadute solo con il successivo conflitto mondiale, l’idea che gli USA si dovessero porre come paese egemone in Occidente era abbastanza diffusa. Strappare il dominio del calcio all’Europa non era certamente parte dei piani del governo, ma anche il mondo della finanza americana percepiva probabilmente quella “volontà di potenza” per cui gli Stati Uniti non dovessero essere secondi a nessuno nemmeno nel calcio. Questa avventura collassò sotto il peso della crisi economica partita dal 1929, che assestò un duro colpo alle ambizioni dell’imperialismo economico americano per un decennio.
Un altro tentativo di creare un nuovo polo di attrazione dei grandi calciatori internazionali avvenne alla fine degli anni Quaranta in Colombia, un paese sudamericano ma fuori dal giro delle grandi potenze del calcio continentale. La Dimayor, debitamente finanziata dal governo locale, sfruttò lo sciopero dei giocatori in Argentina e la crisi post-bellica dell’Europa per portare nei propri stadi giocatori come Adolfo Pedernera e Alfredo Di Stéfano, ma anche Charlie Mitten, Neil Franklin e Gyula Zsengellér. In questo caso, il governo conservatore colombiano era interessato sia a pacificare la popolazione di un paese sull’orlo della guerra civile, sia ad affermare la Colombia come un paese ricco, moderno e appetibile per gli investimenti stranieri, alla pari se non migliore delle nazioni limitrofe. Seppure su scala ridotta, anche l’El Dorado fu dunque un tentativo di usare ricchi investimenti nel calcio per attirare campioni stranieri e imporre uno stato all’attenzione internazionale. Nel giro di un lustro, le pressioni della FIFA e anche un mutamento nel clima politico nazionale portarono al tramonto anche di questa esperienza.
Di nuovo, negli anni Settanta toccò agli Stati Uniti a cercare di imporsi come polo del calcio globale, attraverso la NASL, la cui epoca è simboleggiata in particolare dal periodo trascorso qui da Pelé. Per tutta la loro storia, gli USA non hanno più smesso di cercare di conquistare il calcio, in un modo o nell’altro: ottenendo l’organizzazione dei Mondiali (1994, 2026) o spendendo grosse cifre per portare nel proprio campionato, oggi noto come MLS, grandi stelle internazionali. Nel 2007 con David Beckham, nel 2018 con Zlatan Ibrahimović, e adesso con Leo Messi. Ma a rilanciare il trend di queste super-leghe extra-europee era stato, a partire dal 2003, il Qatar, che venne a fare spesa in Europa regalandosi Frank de Boer, Pep Guardiola, Marcel Desailly e Gabriel Omar Batistuta. Il caso qatariota è ovviamente il più emblematico di un nuovo modo di intendere i rapporti tra calcio e politica: l’arricchimento della Qatar Stars League era stato foraggiato dalla Federcalcio di Doha con un fondo di 10 milioni di dollari per ogni club della massima serie, e faceva parte di un piano del massimo dirigente del football locale, Mohammed bin Hammam, per imporre il Qatar come punto di riferimento a livello sportivo. Bin Hammam e la famiglia Al Thani intendevano usare il calcio come strumento di affermazione di questo stato piccolo e sconosciuto sullo scacchiere diplomatico mondiale, e l’arrivo delle stelle del calcio europeo doveva servire anche come biglietto da visita per la prossima candidatura del paese a ospitare la Coppa del Mondo.
Un discorso simile può essere fatto nei confronti della Chinese Super League, che nel corso degli anni Dieci del Duemila si è imposta all’attenzione generale come nuova ricchissima meta dei campioni del football. La particolarità del calcio cinese è rappresentata dal fatto che, invece di puntare solamente giocatori noti ma ormai sul viale del tramonto, è stato l’unico campionato in grado di andare a strappare all’Europa anche importanti giocatori nel fiore degli anni: nel 2016 i brasiliani Oscar del Chelsea e Hulk dello Zenit San Pietroburgo, all’epoca entrambi giocatori della Seleção, e poi nel 2018 il belga Yannick Ferreira Carrasco dell’Atlético Madrid. Il boom del campionato cinese era inoltre andato di pari passo con una serie di grossi investimenti di imprenditori locali nei club europei, come Wolverhampton e Inter. E tutto partiva dal nuovo corso politico aperto, nel 2012, con l’ascesa di Xi Jinping ai vertici del potere: la sua idea era all’epoca quella di una Cina altamente presente nell’economia (e quindi anche nella diplomazia) a livello internazionale, definendo lo steccato di una forma di “capitalismo socialista” attraverso il quale Pechino voleva porsi alla pari delle grandi potenze occidentali pur mantenendo il proprio ruolo di alternativa a Europa e Stati Uniti.
Anche in questo caso, l’esperimento ha avuto vita breve e non è realmente riuscito a imporre la Chinese Super League tra i maggiori campionati del mondo. I motivi sono molteplici, dalla crisi economica cinese alle conseguenze della pandemia, fino ovviamente all’incapacità di creare una larga base di pubblico in grado di sostenere le alte spese per gli stipendi dei giocatori. Come in Qatar, l’arrivo dei grandi campioni del calcio internazionale non è servita a sviluppare il settore locale, e dopo qualche anno la bolla si è sgonfiata (le stelle del campionato qatariota, oggi, sono Javier Pastore, Steven Nzonzi e Santi Cazorla, per farsi un’idea). L’Arabia Saudita vuole imparare da tutti questi fallimenti del passato per costruire un campionato veramente competitivo, sfruttando un potenziale economico su cui nessuno, nemmeno il Qatar, ha mai potuto fare affidamento. E può anche contare su una fanbase molto più solida rispetto ai suoi predecessori: in questo paese di quasi 36 milioni di abitanti, con una nazionale che è tra le migliori d’Asia dal 1984 e che partecipa ai Mondiali quasi ininterrottamente dal 1994, l’ultima stagione della Saudi Pro League ha visto quattro club avere una media spettatori superiore ai 10.000. L’Al-Ittihād campionate nazionale, dove dall’anno prossimo militeranno Benzema e Kanté, ha superato i 40.000 spettatori a partita, vale a dire più di Juventus e Fiorentina.
D’altronde, proprio qui nel 1978 era arrivata la stella del Brasile Roberto Rivellino, primo campione del calcio globale a trasferirsi a giocare in un paese arabo. Ma oggi il piano saudita per il calcio è molto più strutturato, e asseconda le ambizioni politiche del principe Mohammad bin Salman, il vero deus ex-machina dell’Arabia Saudita del presente, e soprattutto del futuro. Erede al trono, Primo Ministro e presidente del fondo sovrano PIF, attraverso il quale ha acquistato il Newcastle e solo lunedì scorso ha annunciato un piano d’investimenti che porterà la società ad acquistare il 75% delle quote di quattro diversi club del campionato locale (Al-Ittihād, Al-Nassr, Al-Hilal e Al-Ahli). Di fatto, quattro squadre finiranno sotto controllo dello stato e potranno usufruire di una quantità di fondi quasi illimitata (il PIF è il fondo sovrano più ricco al mondo) per rinforzarsi, allineandosi così al piano Vision 2030, con cui Bin Salman intende imporre l’Arabia Saudita come una potenza finanziaria e diplomatica globale. E ovviamente, di questo progetto fa parte anche la possibilità di ospitare una Coppa del Mondo, preferenzialmente quella del 2030.
La questione geopolitica, che è quella più importante, non può che preoccupare: il nuovo probabile polo della diplomazia mondiale rischia di essere un altro regime assoluto e liberticida, uno tra i meno democratici e tra i più retrogradi al mondo. Ma, mettendo per un attimo da parte questo aspetto, a livello calcistico la prospettiva potrebbe quasi dirsi intrigante. Specialmente se consideriamo che negli ultimi vent’anni l’Europa ha frantumato il Sudamerica sul piano della competitività tecnica ed economica, con i club argentini e brasiliani che spesso si indebitano anche solo per pagare gli stipendi a scarti delle leghe del Vecchio Continente (si pensi al caso di Gabigol). L’emergere di un nuovo ricco campionato in grado di fronteggiare, almeno in parte, lo strapotere del club europei potrebbe essere una buona notizia per tutto il movimento calcistico, che ancora risente del peso delle dinamiche colonialiste.
(*) Link all’articolo originale (da cui sono state riprese anche le fotografie): https://pallonateinfaccia.com/2023/06/11/storia-dei-campionati-dei-ricconi/#more-7742
pallonateinfaccia.com è un sito web che racconta il calcio in maniera altra. Grazie anche al sito web curato da Valerio Moggia, in occasione dei Mondiali di calcio del dicembre scorso in Qatar, in Bottega, ogni giorno, abbiamo denunciato i tanti aspetti controversi della competizione evidenziando gli aspetti perversi del rapporto tra calcio e capitalismo.