Storie parallele del Nicaragua

Dal 1946 alle proteste del 2018.

di Bái Qiú’ēn

Ho iniziato a scrivere biografie per rendere un favore agli altri, ma poi ho continuato l’opera anche per me, servendomi della storia come di uno specchio (Plutarco).

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre (Primo Levi).

Incipit

Nel 1946 i gringos Irving Fields e Albert Gams avevano composto una allegra e orecchiabile canzonetta dedicata a Managua, che la dice lunga sugli interessi che Washington aveva in Nicaragua: Managua, Nicaragua, is a beautiful town, you buy a hacienda for a few pesos down. Managua, Nicaragua, è una bella città, puoi acquistare una proprietà con una manciata di pesos.

La Managua di oggi non è certamente quella di allora, dopo il terremoto del 23 dicembre 1972. Neppure il Nicaragua è lo stesso: la Rivoluzione popolare sandinista è stata l’ultima della generazione alla quale apparteniamo, quella che cantava nelle strade «se il vento fischiava, ora fischia più forte», sognava sogni impensabili nel Sessantotto e gli pareva di poterli toccare con la mano un decennio dopo: la milpa está reventando y es tiempo de cosechar. Però…

I.

Il capostipite della dinastia, Anastasio Somoza García, un bel giorno decise di fondare la Universidad Central e la inaugurò con bombo y platillo il 15 settembre 1941, nel pieno della guerra mondiale.

La storia narra che tre anni dopo, nel 1944, Tacho stesse cercando il modo per eliminare la proibizione costituzionale della rielezione alla presidenza della Repubblica. Nei mesi di giugno e luglio, sui muri della università iniziarono a comparire alcune scritte: «Prima che la dittatura metta fine alla tua testa, devi mettere fine alla dittatura», «Disgraziato quel Paese nel quale gli studenti non fanno tremare il mondo», «Si aguanta el macho, pasaremos por Tacho» e via contestando. Un bel giorno, sventolando la bandiera nazionale, dall’Alma Mater i ragazzi cominciarono a uscire. Erano duecento, forse più. La maggioranza alzava i pugni in alto, gridando: «Non ci lasceremo fregare un’altra volta».

Il corteo si avviò in direzione del lago. Di fronte all’edificio Trajes Gómez, a tre o quattro cuadras dai Laboratori Solka, c’era un rivenditore di ricambi per auto, l’Agenzia Dodge. Un ragazzo entrò, tirò fuori un barile vuoto e, salendoci sopra, cominciò ad arringare alla folla: «Tacho è un tiranno. Dobbiamo farla finita con lui. ¡Ahoritita!» Alcuni gli consigliarono di moderare il linguaggio, ma lui alzò il tono: «Non è un Presidente! Si crede padrone del nostro destino. Non possiamo continuare a permetterglielo. Da troppi anni è al potere e neppure lontanamente pensa di passare la mano».

Dopo, sull’improvvisato palco salì un altro universitario: «Hermanos, il giorno tanto atteso doveva arrivare ed è giunto. Noi studenti, oggi diciamo basta! Basta con la dittatura di Tacho! ¡Hoy es el día! A partire da adesso, ci dichiariamo in ribellione permanente. Sin quando rinuncerà, sin quando se ne andrà».

Parlò pure il ventenne studente di Giurisprudenza Pedro Joaquín Chamorro, figlio del proprietario de La Prensa, usando termini come «sciacallo di Tiscapa» nei confronti del Generale. Decisamente poco lusinghiero per le orecchie del tiranno.

Il corteo si diresse in Plaza de la República (poi Plaza de la Revolución e dal 26 febbraio 2022 Plaza de la Soberanía Nacional), davanti alla cattedrale e al Palacio Nacional. Quando giunse al lato Sud-Est del Parco Centrale (oggi inesistente), comparve la Guardia Nacional a cavallo, con fucili e baionette innestate. Le culatte colpivano con violenza le spalle dei ragazzi. Cadevano al suolo, ma si rialzavano, sollevando il pugno in alto, in segno di sfida: in ogni moltitudine, affermano i sociologi e gli psicologi, v’è un infiammabile odio originario contro i rappresentanti dell’ordine costituito. Iniziò un pandemonio, però i militari non spararono.

Quel 27 giugno 1944 è la data del primo scontro tra il potere del tiranno e gli studenti universitari del Nicaragua. Una sessantina di loro fu arrestata, processata e condannata al carcere, al confino a Corn Island o all’esilio. Quattordici docenti furono destituiti dall’insegnamento.

Due anni dopo, il 2 luglio 1946, Tacho emanò il decreto esecutivo di chiusura della università, in quanto gli studenti avevano agito per sovvertire l’ordine pubblico: «Ho avuto due figlie nella mia amministrazione governativa: l’Accademia Militare e l’Università Centrale. Le consideravo come le pupille dei miei occhi… pero la segunda me salió puta».

II.

Nell’aprile del 2018 gli studenti di alcune università iniziarono la protesta contro la riforma pensionistica, in solidarietà con gli anziani che manifestavano pacificamente contro il taglio delle loro magre pensioni ed erano aggrediti da gruppi di scalmanati filo-governativi. In breve tempo, la protesta si era trasformata in opposizione frontale contro il sistema politico retto da Daniel e Rosario, con tutta la loro corte di feudatari.

Al termine delle proteste, quando il Paese fu normalizzato, molti studenti erano in carcere, altri espulsi dalle rispettive università e un buon numero optò per l’esilio.

Quattro anni dopo, nel febbraio di questo 2022, con motivazioni assolutamente risibili riguardanti questioni di contabilità, su richiesta della presidenza della Repubblica, la Asamblea Nacional ha deciso la drastica chiusura e la immediata confisca di una quindicina di università private, registrate come ONG. Nelle quali studiavano circa diciottomila ragazzi e ragazze. Cominciando dalla UPOLI (Universidad politécnica), dalla quale era partita la protesta studentesca.

Per quanto concerne «Le Università e i Centri di Alta Formazione Tecnica», l’articolo 125 della Costituzione sancisce che «Le loro proprietà e patrimoni non possono essere oggetto di intervento, esproprio o sequestro». Ma tant’è…

Sebbene non crediamo che la storia si ripeta, la analogia con il 1946 è più che evidente. E a poco serve che alcune di queste siano ufficialmente diventate proprietà statale, con nuove denominazioni e nuovi rettori, affini al governo. Non sappiamo se pure i docenti sono stati o saranno sostituiti, il che sarebbe un ribaltamento totale della autonomia dell’insegnamento e delle attività universitarie, stabilito nella legislazione vigente.

In ogni caso, ci poniamo un paio di domande. La prima: dopo quasi quattro anni, quanti tra gli studenti che avevano protestato restavano in quelle aule universitarie? Poiché non è pensabile che i ragazzi attuali siano tutti figli di papà, la seconda è: quanti tra coloro che non sanno più se e come potranno terminare i loro studi, provengono da famiglie sandiniste o simpatizzanti? Di conseguenza, cosa penseranno quei genitori della decisione di Daniel e di Rosario?

Alle volte, ci pare che le loro scelte politiche somiglino a quella del boscaiolo che taglia il ramo dell’albero sul quale è seduto. Sarà solo una impressione pessimista… della ragione.

III.

Un giorno, gli abitanti della città di Masaya e soprattutto del barrio indigeno di Monimbó si svegliarono sotto lo stato d’assedio, con i blindati della Guardia Nacional che presidiavano le strade. Era il 7 febbraio 1978, meno di un mese dopo l’assassinio a Managua di Pedro Joaquín Chamorro, quello studente che a venti anni protestava contro Tacho, e i monimboseños avevano manifestato in varie occasioni il loro disprezzo per la dittatura.

Nonostante lo stato d’assedio e il coprifuoco, ormai stanca di soprusi e di vessazioni, il 19 febbraio la popolazione del barrio impugnò le armi. Con il sostegno del Frente Sandinista.

A tutti gli effetti, l’artiglieria e i blindati della Guardia Nacional non riuscivano a controllare militarmente l’area, per cui Tachito fece intervenire gli elicotteri che sparavano lacrimogeni e pallottole sulla popolazione. Gli insorti, a loro volta, iniziarono a lanciare artigianali bombas de contacto contro le abitazioni dei somozisti e contro i tanques della Guardia Nacional: una miscela di alluminio nero, zolfo e antimonio, con l’aggiunta di ghiaia fine. Una specie di castagnole, però grandi come una palla da baseball, para la revolución. Anche grazie a questa invenzione della famiglia García, specializzata in fuochi d’artificio, i militari della dittatura furono sconfitti.

Nell’anniversario dell’assassinio di A.C. Sandino, il 21 successivo, nel barrio furono erette numerose barricate, utilizzando gli adoquines della pavimentazione stradale. Quei sampietrini di cemento, parecchio più grandi dei nostri, che avevano contribuito all’arricchimento della famiglia Somoza, proprietaria della unica fabbrica che li produceva, si erano trasformati in uno strumento essenziale di resistenza e di lotta contro il tiranno.

Nel corso di uno dei numerosi scontri con la Guardia Nacional, il 26 febbraio caddero in combattimento i dirigenti sandinisti Moisés Rivera Maltez, Arnoldo Quant Ponce e Camilo Ortega Saavedra.

IV.

Nel suo discorso di insediamento nel gennaio del 2007, Daniel affermò che le proprietà privatizzate nei precedenti sedici anni di sfrenato neoliberismo sarebbero ritornate al popolo, al Pueblo Presidente. Se nel corso di un quindicennio qualche impresa è tornata a essere pubblica, non si può dire altrettanto per la fabbrica di adoquines, espropriata e statalizzata dalla Rivoluzione negli anni Ottanta.

Nessun governo neoliberista aveva pensato di privatizzarla, per quanto Arnoldo Alemán si fece rimodellare gratuitamente le pavimentazioni esterne di varie sue proprietà. Per un importo superiore ai 100mila dollari, a carico dello Stato e sulle spalle dei lavoratori.

Quando Daniel assunse il potere, la Mayco (Materiales y Construcción   S.A.) era una impresa statale al 35%, con il 65% delle azioni in proprietà dei lavoratori. A tutti gli effetti, i sindacati sandinisti e il governo di Violeta Barrios de Chamorro trasformarono questa e altre imprese statali in proprietà dei lavoratori (i più increduli possono sempre ricercare la notizia in Barricada del 16 ottobre 1992).

Però, il 27 maggio 2008 fu assorbita dalla impresa edile Tecnosa, cambiò denominazione e divenne Mayco-Tecnosa (Matecsa), passando totalmente in mani private. Inutile dire che i clienti restavano gli stessi: le Alcaldías e lo Stato. Ossia, il settore pubblico nel suo complesso.

A quanto pare i lavoratori-proprietari della Mayco non facevano parte del retorico Pueblo Presidente.

È assai probabile che i lettori mai abbiano sentito parlare dell’imprenditore milionario José Francisco López Centeno, detto Chico. Erano sue le mani private che entrarono in possesso della fabbrica di adoquines. Proprietario di una ventina di imprese edili e di società immobiliari, con un perfetto gioco sindoniano di scatole cinesi (Tecnología Electromecánica, Viviendas Económicas de Nicaragua, Tecnología y Sistemas de Tartastán ecc. ecc.). A quanto pare, costui era a tutti gli effetti il Pueblo Presidente.

Per la cronaca, la Tecnosa fu costituita il 26 febbraio 1996 con un irrisorio capitale di US$ 3.703, ufficialmente proprietà delle casalinghe Milagros Amalia e Yolanda Cristina López Centeno, sorelle dell’ingegnere Chico.

Nello stesso 2008 Chico López fu nominato direttore della succursale nicaraguense della spagnola Unión Fenosa, all’epoca comunemente denominata Unión Penosa, la quale aveva la gestione della energia elettrica di tutto il Paese (oggi Disnorte e Dissur). Fin dal 2007 era il vicepresidente di Albanisa, società a capitale pubblico ma con una gestione totalmente privata, la quale maneggiava i milioni che il Venezuela regalava al Nicaragua (nessun rendiconto è mai stato reso pubblico). Aveva pure incarichi direttivi in altri enti pubblici, come la Empresa Nicaragüense de Minas (Eniminas) della quale era il presidente, forse per semplici questioni affettive, essendo nato nel 1950 nella località mineraria di Santo Tomás, in Chontales.

Tra i vari ruoli contemporanei di questo Nembo Kid con l’evidente dono della ubiquità e con giornate di 72 ore: dirigente del Banco Corporativo (Bancorp) e presidente del consiglio esecutivo di Petronic (l’impresa petrolifera statale) con la relativa rete di una settantina di stazioni di servizio sparse nel Paese (DNP). Per la cronaca, nel corso di parecchi anni, la gerente generale di Petronic è stata Katherine Argeñal López, del tutto casualmente moglie di Carlos Enrique Tino Ortega Murillo. Invece, la direttrice di DNP era Yadira Julieta Leets Marín, figlia dell’allora ambasciatore a Caracas e, sempre casualmente, moglie di Rafael Antonio Payo Ortega Murillo. Per la cronaca, DNP è stata nazionalizzata solo nel dicembre del 2019, dopo le sanzioni da parte di Washington.

Nello stesso 2008, esattamente in gennaio, la impresa di Chico López Tecnologías y Sistemas S.A. (Tecnosa) ricevette un lauto prestito da parte dell’INSS per la costruzione delle quasi novecento «Casas para el Pueblo» (mq 48; US$80 mensili di mutuo fisso per ventotto anni, per un totale di US$ 26.880). A parte che non fu indetta alcuna gara d’appalto per la realizzazione di questo progetto, le casse dell’istituto pensionistico non rividero mai quel milione e duecentomila dollari… esattamente come per altri numerosi prestiti che svuotarono le sue casse e resero necessaria una riforma. Eppure, ogni anno le 900 famiglie versano quasi 960mila dollari di rate: se qualche lettore vuole fare il conto di quanto ha guadagnato Chico López dal 2009 a oggi… quel prestito poteva essere restituito abbondantemente negli anni successivi, con tanto di interessi composti.

Per dovere di cronaca, il 27 ottobre 2008 Daniel dichiarò che ogni singola casetta costava mediamente US$ 8.500, senza contare il valore del terreno che era donato dallo Stato.

Se aggiungessimo che la legge istitutiva dell’INSS (n. 539 del 12 maggio 2005) afferma che i soldi in cassa servono esclusivamente per pagare le prestazioni pensionistiche e assistenziali, qualche lettore avrebbe ancora dei dubbi sul non rispetto della legislazione vigente da parte delle istituzioni?

Nel 2012 fu inaugurato il progetto «Calles para el pueblo», del quale non esiste alcun rendiconto pubblico, ma gli adoquines erano fabbricati dalla Matecsa.

Essendo appassionato oltre che di sombreros pure di animali esotici, nella sua proprietà terriera al km 37 della Carretera Vieja a León denominata «La Sobriedad» (neo-lingua orwelliana), si è costruito un piccolo zoo, nel quale vi sono alcune tigri del Bengala (peraltro a rischio di estinzione). Chissà perché, ci viene in mente la famiglia Somoza… forse perché nel vecchio palazzo presidenziale sulla Loma de Tiscapa avevano un recinto con alcuni leoni. Ma le vere bestie feroci, all’epoca, erano altre…

Come ciliegina sulla torta, Chico López era ed è tuttora l’amministratore del Frente Sandinista. E le malelingue dicono che è pure l’amministratore del patrimonio della famiglia Ortega-Murillo.

Poiché dal 2008 i lavoratori della Mayco non sono più proprietari di nulla, se non della loro forza-lavoro, cinquanta anni dopo l’insurrezione di Monimbó, gli adoquines di questo impresario servirono per erigere i tranques degli oppositori.

Per ciò che concerne l’inventore delle bombas de contacto utilizzate nel 1978, Julio García López, più noto come Julián el Monimboseño, a 74 anni il 6 ottobre 2018 ha visto la propria abitazione e quella del fratello perquisite da uno squadrone di antimotines. Nel precedente mese di febbraio, quarantesimo anniversario della insurrezione di Monimbó, la rivista Visión Sandinista aveva dedicato due pagine a questa famiglia che da sempre vende polvere da sparo e fuochi artificiali («Yo inventé la bomba de contacto»). Il 26 dello stesso mese, pure il portale ufficiale El 19 Digital scrisse che «El ingenio de García, contribuyó a alcanzar la victoria del pueblo».

Sei componenti della famiglia furono arrestati, compreso suo fratello José Lázaro di 72 anni, detto Comején e combattente storico del FSLN. Pochi mesi prima, il Governo lo aveva dichiarato «símbolo de dignidad y lucha de los nicaragüenses». Accusato di «golpismo e terrorismo», per aver venduto polvere da sparo ai protestantes, restò in carcere quasi cinque mesi, quando alla fine del febbraio 2019 gli furono concessi i domiciliari.

Il 19 luglio seguente, nel quarantesimo anniversario della Rivoluzione popolare sandinista, in Plaza de la Fe risuonarono le note e si udirono le parole di Vivirás Monimbó: «Julián el Monimboseño tiene manos milagrosas…». Con quale coerenza lo sa solo Dio.

V.

Un altro giorno dei tanti che arrivano e passano, il 20 luglio 1979, la popolazione di Managua abbatté la statua equestre di Tacho Somoza, eretta nel 1954 davanti alla entrata dello stadio nazionale di baseball. Posta su un alto piedistallo, era un vero e proprio simbolo del potere del fondatore della dinastia (allora vivente). O, come recitava la propaganda dell’epoca, «Forgiatore del Nuovo Nicaragua».

All’inizio del 1948 la impresa edile Cardenal Lacayo & Fiallos iniziò la costruzione dello stadio, con una capacità di trentamila spettatori, facendo lavorare a turno ben 850 muratori sulle 24 ore del giorno. A tempo di record e con un costo di quattro milioni di córdobas, fu inaugurato il 20 novembre dello stesso anno con un torneo internazionale.

Nel 1950 un gruppo di sostenitori del tiranno costituì un apposito comitato per erigere il monumento equestre, riuscendo a raccattare i soldi necessari, soprattutto tra gli impiegati pubblici. Realizzata da uno scultore italiano, la leggenda narra che in realtà fosse una statua bronzea di Mussolini, alla quale fu solo sostituita la testa.

Con una altezza complessiva di quindici metri (otto il piedistallo e sette la statua) fu battezzata il 18 febbraio 1954 con la rottura di una bottiglia di champagne e installata il successivo 27 maggio, compleanno di Salvadora Debayle, moglie di Tacho.

Sulle pagine de La Prensa, lo stesso giorno si leggeva: «Oggi alle 5 p.m. si terrà la inaugurazione del monumento al Presidente Somoza, eretto davanti allo Stadio nazionale. Tutti i dettagli del monumento erano già completati, anche se il progetto iniziale di realizzare una volta sopra la statua non è stato realizzato. Il presidente Somoza terrà un discorso subito dopo la inaugurazione».

Con il terremoto del 1972, la zampa destra si ruppe, ma il monumento celebrativo restò in piedi.

Il 19 luglio 2009, nel trentesimo anniversario del trionfo della Rivoluzione Popolare Sandinista, Daniel ricordò: «in quel momento, in quello stesso istante, quando cadde la statua del cavallo di Somoza, dove lo stesso tiranno l’aveva eretta, quando cadde la statua del tiranno Somoza, caddero anche le forze genocide».

VI.

Molti commentatori, nei giorni delle proteste del 2018, paragonarono l’abbattimento del «cavallo di Somoza» con quello dei cosiddetti «alberi della vita», fatti installare da Rosario Murillo in vari punti della capitale e di altre città, a partire dal luglio 2013. Ritenuti, a ragione o a torto, i simboli del potere della famiglia Ortega-Murillo. Il 18 dicembre 2013 il quotidiano spagnolo El País pubblicò un articolo titolato «El nuevo símbolo del poder en Nicaragua»: «nel frattempo sua moglie impiantava nella capitale il nuovo simbolo di quel potere: i suoi alberi della vita».

I primi ammassi di ferraglia dipinta con colori sgargianti e lampadine altrettanto colorate che restavano accese tutta la notte furono piantati con lo scopo ufficiale di abbellire la capitale, trasformandola in un enorme luna park. Sempre pronta alla battuta, la popolazione li aveva battezzati chayopalos o arbolatas.

Qualcuno, sorridendo con ironia, paragonava Rosario a Willy Wonka, il misterioso capo di una mega-corporazione che mantiene un carattere familiare e non esce mai dalla sua fabbrica di cioccolato, la più grande del mondo, però inonda il mondo con i suoi dolciumi: «E che formidabile e meravigliosa fabbrica di cioccolato era quella! L’ingresso era sbarrato da enormi cancelli di ferro e tutta la fabbrica era circondata da un altissimo muro di cinta».

La ditta incaricata della realizzazione di queste opere appartenenti alla Kunstwissenshaft di Rosario, fu la statale ENATREL (Empresa Nacional de Transmisión Eléctrica), costituita nel 2008 e riformata il 7 giugno 2012 con la Legge n. 583. In base all’art. 5 «avrà come scopo principale l’attività di trasmissione elettrica e altre attività correlate». Non si fa alcun cenno alla realizzazione di strutture più o meno estetiche né di altro tipo.

Comunque, il costo era circa di 20mila dollari ciascuno, a seconda della altezza e ne furono installati ben 170 nella sola capitale. Per fare un semplice confronto: costruire una casetta più che decente, compreso l’acquisto del terreno, non superava i 40mila dollari.

L’illuminazione costava circa un milione di dollari all’anno.

A queste cifre occorre aggiungere la manutenzione e il sistema di protezione notturna, per evitare che qualcuno si fregasse le lampadine di quel delirio di luci in un Paese soggetto a continui black-out, più o meno prolungati. Fu incaricata la ditta di vigilantes El Goliath. Un Umpa-Lumpa ogni struttura, 24 ore al giorno, a turno.

Secondo alcuni, dietro lo schermo di un testaferro (l’onnipresente prestanome José Jorge Mojica Mejía), il vero proprietario di El Goliath sarebbe Rafael Antonio Ortega Murillo, detto Payo. In realtà, figlio della sola Rosario e di Jorge Narváez Parajón, ma riconosciuto da Daniel. Fratello della reproba Zoilamérica…

Manco a dirlo, tutti i costi erano e sono a carico dello Stato e della Alcaldía di Managua. Ossia, del retorico Pueblo Presidente, più correttamente definibile Pantalone. Per soddisfare un capriccio estetico del cioccolatiere strambo ed eccentrico Willy Wonka… pardon, di Rosario.

VII.

Il 26 febbraio 1948 il generale liberale Anastasio Somoza García e il capo dei conservatori Carlos Cuarda Pasos sottoscrissero un accordo che dava al partito di opposizione una quota di potere nelle varie istituzioni del Paese, comprese le banche. Ufficialmente noto come Patto di riconciliazione nazionale.

Il 3 aprile 1950 lo stesso Tacho e il generale conservatore Emiliano Chamorro Vargas sottoscrissero un successivo accordo che, tuttora, è popolarmente denominato «Patto dei generali». Il quale prevedeva la instaurazione di uno schema politico bipolare, con la eliminazione di qualsiasi altro partito. Soprattutto del Partito Liberale Indipendente (PLI), nato nei mesi delle proteste studentesche del 1944 con una scissione da quello somozista. Il dittatore concedeva, bontà sua, il 30% dei seggi parlamentari ai conservatori, qualunque fosse il risultato elettorale. La stessa quota di potere era assicurata alla pseudo-opposizione in tutti gli organi istituzionali.

Il 28 marzo 1971 Anastasio Somoza Debayle e il leader conservatore Fernando Agüero (uno degli studenti della protesta universitaria del 1944) sottoscrissero un nuovo accordo, in pratica la riedizione del precedente, con la sola differenza che il partito di opposizione avrebbe avuto sempre e comunque il 40%. Popolarmente venne denominato «Kupia kumi», che in lingua mískita significa «Un solo cuore».

Per dovere di informazione storica, la politica di Tacho Somoza si riassumeva nelle cosiddette «Tre P»: Plata a los amigos, palos a los indiferentes, plomo a los enemigos. Denaro agli amici, legnate agli indifferenti, piombo ai nemici.

VIII.

Nell’aprile del 1997, mentre il Paese era in buona parte bloccato dalle cento barricate (tranques) organizzate dai sandinisti con morteros caseros in spalla, il presidente in carica Arnoldo Alemán e il leader della opposizione Daniel Ortega iniziarono un dialogo per la pacificazione. Nello stesso periodo la locale Corte dei Conti stava indagando sulla corruzione del presidente. Dall’aprile del 1996, a capo della Contraloría general de la República v’era l’indipendente Agustín Jarquín Anaya.

Nel 1998, nella località fredda e spesso nebbiosa di El Crucero, a una ventina di chilometri da Managua, si riunirono i delegati del Partito Liberale Costituzionalista (PLC) e del Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN) per sottoscrivere un vero e proprio accordo di spartizione del potere. Oltre a ciò, servì egregiamente per salvare sia Alemán da una dura condanna per corruzione sia Daniel da una infamante accusa di tutt’altro genere.

Grazie al Patto di spartizione, la Contraloría fu trasformata in un organo collegiale di cinque membri: tre del Partido Liberal Constitucionalista e due del Frente Sandinista de Liberación Nacional. Nel 2000 Jarquín si dimise e fu sostituito dall’orteguista Luis Montenegro, che restò in carica fino al maggio del 2019.

Inutile dire che questo Patto è vigente e operante. Tanto che nell’aprile del 2014 la Asamblea Nacional nominò come membro effettivo di questa istituzione di controllo sui conti pubblici e sulla corruzione María Dolores Alemán Cardenal, tuttora in carica. Indovinare di chi è figlia. Troppo facile, vero?

D’altro canto, la ex seconda moglie di Alemán, María Fernanda Flores Lanzas, non volendo più stare al gioco di una finta opposizione, fu destituita da deputata nel novembre del 2020 e posta agli arresti domiciliari il 21 giugno 2021. Il 9 febbraio 2022 è stata condannata a otto anni di carcere per «tradimento alla Patria». Plata a los amigos, palos a los indiferentes, plomo a los enemigos.

A quanto pare, troppo spesso in Nicaragua i concetti di Patto e di Patria sono sinonimi e intercambiabili a piacimento.

IX.

Negli anni immediatamente successivi alle lotte studentesche contro Tacho, un suo cugino, dissoluto e spesso ubriaco fradicio, scorrazzava in moto per le vie della capitale, giorno e notte.

La vicenda, che qualcuno potrebbe ritenere semplice cronaca nera, risale al settembre 1950 e si svolge nel barrio Santo Domingo. Agustín Bolaños Osorno rientrò a Managua dopo un periodo di lavoro in Venezuela. Fruto, il figlio di diciannove anni, si era arruolato tempo prima nei marines e si trovava negli Yunais. La figlia quattordicenne Luisa Elena viveva con il padre e la matrigna. Passarono le settimane e Agustín capì che qualcosa non andava. Sempre più chiusa in se stessa, era del tutto scomparso il suo carattere allegro e chiacchierone. Decise pertanto di scoprire la causa dell’evidente mutamento. Nel maggio precedente, la ragazzina andò a trovare uno zio e quando uscì dalla abitazione del parente, un uomo con la uniforme della Guardia Nacional iniziò a seguirla sull’auto. Nel momento in cui la ragazzina attraversò un luogo isolato, come ce ne erano tanti nella Managua di quel tempo, la obbligò a salire a bordo e abusò di lei.

Agustín scoprì che lo stupratore era René Somoza, tenente della Guardia Nacional. Lo disse alla seconda moglie, Violeta, la quale, chissà come, riuscì a parlare con Tacho nel suo ufficio alla Casa Presidencial sulla Loma de Tiscapa. Le raccontò la orribile vicenda, chiedendogli di fare qualcosa nei confronti dell’uomo che aveva rovinato per sempre l’onore di una bambina. «Señora, se le gambe restano chiuse, nessuno è in grado di entrare». Chiamò un subalterno e gli chiese la baionetta che portava in cintura, come da regolamento. Il dittatore sfilò la lama dalla guaina e, stringendola con forza, provò varie volte a rimetterla dentro. «Si rende conto, señora? Se la guaina non vuole, la baionetta non può. Semplice, no?».

Il successivo 1° febbraio nacque una bambina, della quale non siamo riusciti a scoprire il nome. Però, sappiamo che lo stesso giorno era il compleanno di Tacho.

X.

Zoilamérica Narváez Murillo, nata nel 1967 e orfana di padre a due anni di età, il 2 marzo 1998 denunciò pubblicamente il patrigno che aveva ripetutamente abusato di lei da quando aveva nove anni. Fin dal periodo della runga, la lotta contro la tirannia somozista, quando usava il nome di battaglia «Enrique». Dal momento stesso in cui la madre biologica divenne la sua compagna, nel corso dell’esilio di entrambi in Costa Rica. Il successivo 27 maggio 1998 presentò la denuncia formale alle autorità giudiziarie, con tutti i crismi previsti dalla normativa.

In parte grazie alla immunità parlamentare e al Patto con Alemán, ma soprattutto per la presa di posizione della madre biologica che testimoniò in favore del marito (per quanto sposati ufficialmente solo nel settembre del 2005), nessuna inchiesta e nessun procedimento penale si è mai svolto. In varie occasioni, oltre a ripudiare la primogenita sostenendo che «è confusa e manipolata», la ha definita «malagradecida», ingrata. Il patrigno, a sua volta, aveva parlato di cospirazione da parte di non meglio specificati avversari politici, in vista del secondo Congresso del FSLN il cui svolgimento era previsto per il 23 e 24 maggio. Giulio Girardi, del tutto insospettabile di essere un anti-sandinista, denunciò il fatto senza mezzi termini come «sconfitta morale del FSLN». E, al contempo biasimò tutti «coloro che pensano che la fede rivoluzionaria si possa difendere con i metodi della santa inquisizione, condannando e scomunicando gli eretici» («Opzione per gli oppressi come soggetto e fedeltà alla rivoluzione popolare sandinista ieri e oggi», Latinoamerica n. 71, settembre-dicembre 1999).

Da allora, Zoilamérica vive e lavora in Costa Rica come docente universitaria di sociologia, sostanzialmente esiliata.

Essendo garantisti, non condanniamo né assolviamo. Semplicemente, registriamo e ricordiamo, mentre in troppi supposti rivoluzionari hanno messo questa vicenda nel dimenticatoio, considerandola come un semplice chisme (pettegolezzo). E non aggiungiamo altro, se non che, da quel momento, abbiamo il sospetto che Daniel, il più grande statista vivente secondo alcuni propagandisti affetti da un patologico culto della personalità, esté amarrado a mecate corto. Sia al guinzaglio di Rosario, la co-presidenta.

Redazione
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