Straub: cinema non riconciliato
di Giuseppe Callegari e Giovanni Giovannetti (*)
L’8 gennaio 1933 nasce a Metz (Francia, ma all’epoca era ancora Germania) il regista Jean Marie Straub.
La prima domanda, a Danièle e Jean-Marie, prende spunto da un’opinione estremamente diffusa secondo la quale i loro film non potranno mai aspirare ad avere un pubblico di massa.
JEAN-MARIE: Questo è un ragionamento assolutamente privo di fondamenta perché prima di fare queste affermazioni bisognerebbe che tutti i film partissero dalla stessa posizione, che fossero “uguali in diritto”. Mi spiego meglio: chi fa conoscere i film commerciali? Tutti ne parlano, dal giornale dei medici e degli avvocati ai grandi quotidiani, alla stampa femminile. Sono questi gli ingredienti che fanno il successo di uno spettacolo, che convogliano gli spettatori a vedere il film. Non è solamente attraverso un articolo su l’Unita che si può aspirare ad essere conosciuti dal grande pubblico.
DANIÈLE: É chiaro inoltre che, sempre teoricamente, molte persone, per esperienze personali o per appartenenza di classe, potrebbero essere interessate a vedere le nostre opere. Certo che fino a quando non sapranno della loro esistenza ogni discussione è inutile.
La logica, secondo la quale lo spettatore viene convinto a vedere un film commerciale è chiaramente spiegata da Baudrillard, il quale afferma che uno dei meccanismi fondamentali sui quali si basa la società capitalistica è rappresentato dall’illusione dell’individuo di migliorare la propria posizione sociale in base alla capacità di acquistare beni materiali e culturali. Tuttavia, se questa e la situazione, per i film di autore può esistere solo la morte.
JEAN-MARIE: No, alcune alternative esistono e sono rappresentate in primo luogo da alcuni canali non ancora adeguatamente sfruttati; ad esempio, in Germania esistono delle sale cinematografiche comunali, organizzate dalle amministrazioni locali, nelle quali autori diversi possono presentare i loro film.
Ma la Germania non è un paese particolarmente progressista…
JEAN-MARIE: Prima di tutto bisogna chiarire che la socialdemocrazia tedesca è molto dura sulle cose in cui è in gioco la sua sopravvivenza, ma su altre diventa più permissiva, molto di più, ad esempio, della Francia e della stessa Italia. In Germania un film non sicuramente tenero sulla situazione tedesca come Non Riconciliati è passato addirittura due volte in televisione. Poi occorre dire che il tedesco, nonostante un luogo comune erroneamente diffuso, è dotato di una forte autonomia personale: i giornalisti, ad esempio, riescono in alcuni casi a far passare notizie in contrasto con i voleri della direzione. Questi atteggiamenti, soprattutto a causa dell’intervento dei grandi inserzionisti, successivamente “rientrano”. Rimane comunque importante il principio.
DANIÈLE: Un film come “Othon” ha avuto su “Le Monde”, il giornale liberale per eccellenza, un brevissimo trafiletto, mentre alcuni quotidiani tedeschi gli hanno dedicato anche mezza pagina.
JEAN-MARIE: In Germania probabilmente la violenza a molto più dichiarata e cinica e in alcuni casi esplode, non è comunque mai passivamente accettata dalla popolazione. I tedeschi, nonostante l’unanime accusa di essere dei mostri, hanno preso coscienza e riflettuto sui mali del nazismo, questa cosa non è avvenuta né in Italia né in Francia, dove pure il fascismo ha giocato un ruolo importante.
Questo entrare nelle contraddizioni del sistema, che cosa significa?
JEAN-MARIE: Innanzitutto, come dicevamo prima, occorre approfittare degli spazi che ci possono venire dalle amministrazioni locali, in secondo luogo bisogna andare in giro “a livello militante”, ma per farsi conoscere dal grosso pubblico occorre battere la strada della televisione.
La televisione sembra fatta apposta per trasmettere film ridondanti, adatti alla famiglia che non sceglie di andare al cinema, ma se lo ritrova in casa. In questo caso il film tende a ripetere una serie di elementi per cui, anche non seguendo con attenzione lo svolgersi dell’azione, il messaggio riesce a raggiungere lo spettatore. Non pensate che in una situazione del genere i vostri film rischiano di non avere senso?
JEAN-MARIE: È vero che si corrono dei rischi, ma non sarei così catastrofico. Alcuni anni fa, la terza rete della televisione tedesca ci chiese di commentare visivamente un brano di Schönberg. Noi, sulla musica di Schönberg, abbiamo costruito il nostro film più politicamente terroristico, proprio perché sapevano che a quell’ora il pubblico di quel canale si attendeva solamente film musicali e disimpegnati. Non so dire quale sia stata la reazione, tuttavia per un altro nostro film trasmesso in TV, “Lezioni di Storia”, sono arrivate molte lettere da gente che non avendo letto il libro o addirittura non conoscendo il nome di Brecht chiedeva il nome dell’autore di questo testo e dove si poteva trovare il testo stesso.
Nei vostri film non ci sono mai attori professionisti. È una scelta a priori oppure dettata da necessità contingenti?
JEAN-MARIE: In linea di massima tendiamo a rifiutare attori professionisti perché non hanno più una radice sociale, costituiscono una casta a sé. Questo è il motivo fondamentale per cui non li riteniamo adatti alle problematiche da noi affrontate. In secondo luogo il pubblico li identifica con i personaggi precedentemente interpretati ed anche questo non ci va bene.
DANIÈLE: C’è tanta gente interessante per la strada che non sentiamo assolutamente l’esigenza di cercare “divi”.
Quindi all’interno della industria culturale non può esistere opposizione interna, chi entra nell’ingranaggio deve per forza produrre cose funzionali?
JEAN-MARIE: Questo non sempre è vero, anche se negli ultimi anni la produzione cinematografica è notevolmente peggiorata, da un lato perché è divenuta qualcosa di mastodontico e quindi si è ridotta sempre di più ad ingranaggio industriale e, dall’altro, per il fatto che le nuove generazioni del cinema italiano hanno veramente poche cose da dire: e mi riferisco ai Bertolucci ed ai Taviani in particolare. Ma abbiamo esempi di registi che sono riusciti a mantenere una loro identità precisa, portando avanti un discorso diverso anche all’interno del sistema: Visconti e Pasolini mi sembrano due nomi significativi. Altri si sono persi per strada. Bellocchio ha fatto un buon primo film, poi però è arrivato a presentare cose come “Marcia Trionfale”, con Franco Nero e una musica che sembra fatta apposta per “ammazzarti”. Mi sono domandato che senso abbia avuto il suo girovagare per l’Italia documentandosi sulla vita in caserma, forse per scoprire che il comportamento di un ufficiale è legato a sadismo e frustrazioni?
DANIÈLE: In Italia, buoni libri, proprio per l’incapacità dei registi, sono trasformati in pessimi film. Prendi ad esempio “Padre Padrone” che, più di un film, ha la struttura della campagna pubblicitaria.
JEAN-MARIE: Sembra la réclame di un carosello. In certi momenti si ha l’impressione di essere in una stazione ferroviaria e leggere cartelloni del tipo” Vieni nella polizia che troverai il tuo futuro”. Ma il fatto più grave di questi registi, cosiddetti “impegnati” e di sinistra, è rappresentato dalla loro insistenza sui rapporti interpersonali in modo tale che alla fine, come nel caso di “Padre Padrone”, lo spettatore esce dalla sala cinematografica con la convinzione che la causa dei mali di Gavino sia da ricercarsi nell’atteggiamento del padre. Di questa casta di registi quello più pericoloso è sicuramente Rosi, che passando per un regista impegnato riesce a fare film come “Cristo si è fermato ad Eboli”, organicamente funzionale al sistema. In fondo, e questo mi sembra un fatto estremamente importante, all’interno della cinematografia italiana è molto più deleterio un Rosi di un Fellini, che è figlio del potere in modo dichiarato ed esplicito.
I registi italiani che cosa dicono di voi?
JEAN MARIE: Per vie indirette abbiamo saputo che i Taviani sostengono che Straub e un regista interessante, ma da non presentare al pubblico. L’unica nostra funzione, secondo loro, è quella di fare l’aggiornamento registi. Ogni persona in grado di pensare può dare un giudizio preciso su queste affermazioni.
Pensate di riuscire a coinvolgere il pubblico anche senza far leva in modo continuativo, sull’armamentario ottico e sugli artifici cinematografici?
JEAN-MARIE: Voglio sottolineare che non è tanto il nostro cinema ad essere difficile, quanto la realtà stessa. Per questo cerchiamo di provocare nello spettatore emozioni non momentanee e di scarica, ma propositive. I film commerciali sono completamente privi di emozioni, nel senso che queste situazioni cinematografiche, anche quando presentano problemi legati alla realtà, non hanno mai la possibilità di concretizzarsi negli stessi termini all’interno della quotidianità e quindi svolgono un ruolo funzionale al sistema capitalistico perché tendono solamente a far dimenticare la realtà.
Nei vostri film, parlate spesso del passato: è una scelta che avete mutuato da Brecht?
JEAN-MARIE: Usiamo molto spesso il passato perché abbiamo la convinzione che il sistema capitalistico tenda ad incatenare le persone al presente: il passato è brutto e anche il futuro non potrà essere migliore e si è invitati a “iper-vivere” il presente.
Per quanta riguarda il nostro incontro con Brecht e con lo stesso Marx, occorre dire che li abbiamo scoperti quando già avevamo fatto le nostre esperienze, quando già da noi stessi avevamo scoperto la lotta di classe. Questa mi sembra una cosa sostanzialmente diversa da una lettura puramente teorica.
“Dalla nube alla resistenza”, il vostro secondo film italiano, affronta problematiche tipiche del nostro paese, partendo dagli scritti di Cesare Pavese. Avete avuto delle difficolta?
JEAN MARIE: Difficolta ne abbiamo avute sia prima di iniziare la lavorazione, sia adesso, a film terminato, pronto per essere distribuito. In Germania questa pellicola e già uscita, ma il nostro lavoro non avrebbe senso se non riuscissimo a presentarlo in Italia.
DANIÈLE: Una cosa che disturba molto i signori dell’industria cinematografica è quella di mettere in bocca a personaggi della vita quotidiana testi letterari; queste persone, si sa, possono essere utilizzate solamente in un’ottica di ridicolizzazione.
JEAN MARIE: Nel film recitano un vecchio cestaio, un giovane pendolare. un postino, un operaio della Piaggio, un contadino delle Langhe, insomma un gruppo di persone che leggono Pavese cosi come lo vivono e non secondo un copione prestabilito. Penso valga la pena di raccontare la storia di questo film.
Un anno prima di girare siamo andati all’Ente Gestione Cinema e abbiamo presentato il copione, secondo prassi normale, a tre critici che l’hanno giudicato: due, in termini estremamente positivi (il critico dell’Unita e quello dell’Osservatore Romano) ed un terzo, pur non apprezzando la nostra poetica, si diceva convinto della validità dell’opera. Lo stesso vice-presidente dell’Italnoleggio era entusiasta del nostro progetto. Tuttavia avevamo fatto i conti senza “l’uomo della moquette”, l’individuo che durante il nostro colloquio all’Italnoleggio stava seduto, in silenzio, sul pavimento. Ebbene questo democristiano di destra è riuscito a boicottarci il progetto ad un livello tale che l’Italnoleggio non ci ha dato un soldo. Questo nonostante abbiamo girato il film con capitali francesi, inglesi e tedeschi, ottenendo inoltre un finanziamento da parte della seconda rete televisiva di 25 milioni, contro i 40 promessi. Per coprire le spese rimanevano una trentina di milioni che sono caduti come debiti sulle nostre spalle. Adesso il film è pronto, ma l’Italnoleggio fa di tutto per ritardare la sua messa in circolazione.
DANIÉLE: Quanto detto mi sembra comunque sufficiente per dimostrare inequivocabilmente una cosa: nell’ambito culturale italiano Cesare Pavese non ha nessun senso, è come non fosse mai esistito.
(*) L’intervista fu pubblicata dal quotidiano “Lotta Continua” il 7 gennaio 1980. Le foto di Giovanni Giovannetti furono scattate durante l’intervista.
MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.
Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.
La redazione – abbastanza ballerina – della bottega