su Dacca: primo post
si possono leggere in rete le considerazioni di Ugo Rosa, che danno un altro punto di vista sugli omicidi di Dacca, eccole qui:
“Speriamo a questo punto di non sentir dire ancora una volta che “la religione non c’entra” e che “i terroristi non sono veri musulmani”, perché, anche se è vero che solo una ridotta minoranza di musulmani aderisce al terrorismo islamista, è la religione a fornire ideologia unificante e linguaggi, oltre che a configurare una micidiale rete entro la quale prendono corpo alleanze e sinergie sul piano operativo. E poi, come si fa a dire che la religione non c’entra quando i macellai di Dacca hanno selezionato le vittime da uccidere con i machete chiedendo agli ostaggi di recitare il Corano?” (Roberto Toscano, La Repubblica 03.07.2016). Queste righe sintetizzano il pensare medio (illuminista quanto basta a un candelabro) che impazza sui giornali per bene. Vediamo. Se non dobbiamo dire che la religione non c’entra e che i terroristi non sono veri musulmani, allora ci toccherebbe dire il contrario. Ma chi scrive quelle righe non vuole dirlo, anche se è chiaro che lo pensa (paso doble classico dell’illuminista da abat jour). Difatti cala subito la briscola:“anche se è vero che solo una ridotta minoranza di musulmani aderisce al terrorismo è la religione a fornire ideologia unificante e linguaggi”. La prima parte della frase è in contraddizione con la seconda; ma passi. Facciamo che per il nostro logico da terza pagina valga la seconda e non la prima. Allora bisogna chiedersi con lui: come si fa a sostenere, dal momento che l’Inghilterra fornisce agli hooligans un linguaggio comune e una “Ideologia unificante” (qualunque cosa significhi) che il principe Carlo non sia responsabile dei rutti allo stadio? E come si fa a dire che Elisabetta e l’Inghilterra non c’entrano, dal momento che il drappello di hooligans, sgozzando il tifoso straniero, cantava “God save the Queen” e ha costretto anche la vittima a cantarlo? Questa la logica nebbiosa che agita il cervello degli illuministi da abat-jour, il cui enlightenment non graffia la notte fonda della loro intelligenza. Il 24 aprile di tre anni fa (non ai tempi della regina Vittoria) a Dacca sono morti 1129 lavoratori tessili, per la maggioranza donne e bambine, nel crollo del Rana Plaza: una fogna per schiavi di nove piani creata per produrre profitti alle industrie tessili europee, tra cui la Benetton. Chiedersi ora cosa ci facessero a Dacca degli imprenditori tessili italiani è, più che impopolare, un tabù tribale. Io però me lo chiedo lo stesso e umilmente sospetto che anche Voltaire e Diderot l’avrebbero fatto. Magari solo per concludere che sono miseria, disperazione e sfruttamento a costituire il bacino da cui il terrore attinge e che la religione è solo quello che è sempre stata: una bandiera colorata per portare i disperati in prima linea. Perfino un cretino onesto potrebbe capirlo. Ma l’intelligenza non conviene. Né a chi fonda i suoi sporchi affari sullo sfruttamento altrui né a chi gioca a fare l’illuminista laico sui giornali, nelle librerie e sui social forum.
NOTA REDAZIONALE
Questo è il primo post – un secondo e un terzo seguiranno in giornata – di una serie che in “bottega” vorremmo continuare per chiarire qualcosa sulla tragedia di Dacca, sulle sue radici lontane e vicine ma anche per ricordare le tante vittime non italiane – ma di italiani – in Bangladesh. La quantità di ignoranza, di consapevoli bugie, di censure, di omissioni, di stupida retorica che anche stavolta i massmedia italiani (con rare eccezioni) hanno scatenato, parlando del Bangladesh, è impressionante: non vengono forniti elementi utili a capire i perché, non poossono lenire dolori, tanto meno aiutano a trovare una strategia contro il terrorismo. Coincidenza vuole che, pochi giorni prima della strage di Dacca, il settimanale «Internazionale», per la precisione il numero 1160 datato 1 luglio, abbia tradotto un lungo reportage di Simon Perry, con foto di Larry Towell, intitolato «Bangladesh: ancora schiave». Il sottotitolo spiegava: «Dopo il disastro del Rana Plaza nel 2013, in cui morirono 1138 persone, le operaie bangladesi continuano essere sfruttate dalle grandi aziende occidentali di abbigliamento». Nell’articolo si nominano H & M, Primark, Benetton e Walmart e altre ditte occidentali del tessile chiarendo che, dopo la strage, «solo 7 delle 1660 fabbriche che producono per aziende occidentali hanno adottato nuove misure» per garantire la sicurezza di chi lavora. Con ogni evidenza non ha senso parlare del Bangladesh senza fornire anche queste informazioni. Se di tutto questo nulla sapete… vuol dire che la vostra principale fonte di informazione restano quei grandi media che “non possono” parlare delle tante “pulite” stragi di Dacca perché fra i loro proprietari e/o sponsor ci sono appunto le grandi aziende tessili. Invece “in bottega” abbiamo dato spazio alla campagna ABITI PULITI: guardate a esempio qui Che Benetton paghi i risarcimenti alle vittime del Rana Plaza oppure qui Campagna «Pay Up!»: Tazreen due anni dopo… Se bisogna piangere tutte le vittime, e non solo quelle occidentali o nate in Italia, forse sarebbe il caso di chiedersi, una volta per tutte, quanto razzismo ci sia nell’informazione quotidiana. (db)