Su «La bancarotta del capitale e la nuova società»
di Gian Marco Martignoni
Lungi dal credere alla favola relativa alla fine della lotta di classe, poiché semmai in questo trentennio di restaurazione capitalistica la lotta di classe «è stata scatenata dal capitale contro il lavoro», l’ultimo libro di Paolo Ciofi «La bancarotta del capitale e la nuova società» – Editori Riuniti university press (pagg. 182, euro 15) – nel confermare la bontà dell’analisi marxista rispetto alle crisi ricorrenti che attanagliano il modo di produzione capitalistico, ha il pregio di misurarsi anche con un percorso di riscatto politico e sociale per la nuova classe lavoratrice del XXI secolo. Senza il quale saremmo confinati nella pura e semplice impotenza politica, a fronte di una globalizzazione capitalistica che mira alla completa subordinazione della forza lavoro, attraverso la messa in discussione in Italia dell’autonomia dell’organizzazione sindacale Cgil e la cancellazione di una qualsiasi antitetica rappresentanza politica. Pertanto, lo sforzo di Ciofi è volto a comprendere come e perché si siano deteriorati così in profondità i rapporti di forza tra le classi, indagando dettagliatamente quanto è accaduto sul piano internazionale, europeo e nazionale, con una chiarezza espositiva davvero impressionante. Stante che le crisi si sviluppano dalla sovrapproduzione di merci e dalla conseguente sovraccumulazione di capitali, l’obiettivo perseguito e raggiunto dall’ideologia neoliberale è stato rispondere alla stagnazione economica dell’Occidente capitalistico piegando l’intervento degli Stati alle esigenze del “libero mercato”, nonché delocalizzando e frantumando i processi produttivi, con una scomposizione devastante del blocco sociale del lavoro dipendente . Queste direttive hanno quindi comportato sia la progressiva deregolamentazione dei rapporti di lavoro, con la moltiplicazione delle figure lavorative precarie e la crescita dell’esercito dei disoccupati, sia la tendenziale privatizzazione di tutte quelle funzioni statuali afferenti alla produzione e l’erogazione di quella sfera dei diritti sociali conquistati nel trentennio glorioso del compromesso fordista. Contando sulla subalternità culturale delle sinistre riformiste, che avevano accreditato l’infondata tesi della regolazione dei mercati. Fra l’altro l’esplosione della grande crisi a partire dal biennio 2007-2008 ha scaricato sull’insieme delle classi popolari la socializzazione delle perdite del sistema bancario, mediante l’arma ideologica del debito pubblico, con un ulteriore accrescimento del ventaglio delle disuguaglianze sociali. Altresì la finanziarizzazione dell’economia ha esaltato il processo di concentrazione dei capitali, sicché una pletora di investitori istituzionali sono andati configurandosi come «i nuovi proprietari universali», originando una nuova classe capitalista internazionale con un’ideologia che ambisce addirittura a un consenso subliminale e, conseguentemente, un potere oligarchico che ritiene intollerabile e confliggente la democrazia sociale di stampo novecentesco. Che poi l’annichilimento delle procedure democratiche e delle sovranità popolari avvenga tramite «la moltiplicazione di tecnocrazie» insediate nei gangli vitali degli organismi sovranazionali, fa il paio con quella svalorizzazione del lavoro e della natura necessaria per contrastare «la distruzione delle condizioni della riproduzione» del capitale. Ma l’accentuazione delle dinamiche autoritarie si scontra inevitabilmente con precisi e determinati limiti sociali e ambientali, producendo resistenze e movimenti che evidenziano e denunciano l’insostenibilità antropologica, sociale e ambientale del «turbocapitalismo», giunto – per dirla con Samir Amin – a uno stato avanzato di “senilità”. Al contempo, se l’Europa manifesta sempre più un andamento divergente a due velocità, mentre la tenuta dell’euro nello scontro fra aree valutarie è garantita dalla svalutazione competitiva dei salari, il nostro Paese – decaduto a subfornitore dell’industria tedesca – paga il prezzo di una nuova borghesia proprietaria che, pur avendo acquisito il nocciolo delle imprese pubbliche, scaricando i debiti furbescamente sulla collettività, si dimostra incapace nell’assolvere la funzione di classe dirigente. Allora, proprio per contrastare la somma di queste tendenze, per Ciofi è auspicabile la costruzione di una soggettività politica in grado di sostenere dialetticamente, non solo nell’arena parlamentare, il ruolo che da troppo tempo la Cgil esercita nel conflitto sociale in corso nel nostro Paese. Riprendendo le tesi avanzate nel precedente volume «Il lavoro senza rappresentanza» (manifesto libri, 2004), Ciofi è impietoso nell’evidenziare i guasti per la democrazia provocati dalla separazione di politico e sociale, denunciando come la condotta dei Ds e di Rifondazione, oscillante fra politicismo e movimentismo, abbia sostanzialmente privato il mondo del lavoro di una rappresentanza effettiva sul piano ideale e soprattutto pratico. Non è perciò casuale che il libro si concluda “gramscianamente” con l’appello a «unirsi e organizzarsi», superando ogni personalismo di sorta, perché «il partito che fa asse sul lavoro non esiste come forza politica efficiente se non costruisce a tutti i livelli gruppi dirigenti che ne formano il tessuto connettivo».
Libro davvero lucido e interessante…