Su tempus de sos comunistas
Il paese portatile – Jogli ‘e Ledda, il comunista che credeva nel Dio dei poveri
di Natalino Piras
A sonu de carcanzos, solo il rumore dei passi sui lastroni in granito del corso, il corteo procedeva verso il camposanto. Era inverno a Bitti. Giorgio Deledda (1924-24 febbraio 1962), 38 anni appena, figlio di Antoni Maria, juvagliu e inzateri, e di Maria Grazia Doneddu, veniva accompagnato all’ultima dimora senza prete, nessuna croce, nessun tocco di campana, né preghiere né canti. Apriva il corteo Sepereddu, di professione banditore, sventolando con fierezza la bandiera rossa dei comunisti. Mai prima di allora un funerale così. Passerà del tempo prima che la bandiera rossa dei socialisti aprisse affiancata al Crocifisso la lunga fila di paesani, tutta Bitti e Gorofai, per i funerali di mastru Ciriaco Scanu.
Diversi i tempi di Jogli ‘e Ledda. Erano gli anni che il maestro Albino Bernardini, amico e compagno di battaglie, insegnava ai suoi alunni come combattere la scuola nemica, contrapposta alla scuola impropria dell’ovile, de su campu, de sa tzappa, del lavoro come bisogno e come fatica.
Erano i tempi della guerra fredda tra blocco del Patto Atlantico e blocco comunista, rappresentato dall’Unione sovietica e i loro paesi satelliti, la cortina di ferro, dove in nome dell’avanzata e del trionfo del comunismo (ci fu la rivolta di Budapest cui seguì sanguinaria repressione, nel 1956) Dio era stato messo al bando, perseguitati i cristiani, processati, fucilati e impiccati come nemici e traditori.
In Italia, alle elezioni politiche del 1948 per il rinnovo dei due rami del Parlamento, la Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi, alleata con monarchici e missini, ottenne la maggioranza assoluta. Il blocco conservatore in Sardegna rappresentato da anacronistici printzipales e molti loro tzeraccos, un vastissima riserva di voti, aveva sbaragliato il Fronte Popolare costituito principalmente dal Partito Comunista e dal Partito Socialista. Era il tempo che i Comitati Civici di Gedda e Lombardi funzionavano da braccio secolare della Chiesa che scomunicava i comunisti. Una guerra dura, senza esclusione di colpi, fatta oltre che di comizi con la gente che andava a sentire oratori di fama, pure di scioperi, di repressione poliziesca. Ci furono morti sulle barricate e nelle strade, nelle terre occupate, anche in Sardegna.
In tutto questo Bitti era oasi e insieme stasi, forte il dominio, economico e spirituale, demograticos che facevano tutt’uno chin sos crejasticos. Dicevano con disprezzo che sos comunistas erano il partito di Jogli ‘e Ledda e di Sepereddu, del siciliano Fortunato e di Bassile «chi canno picamus nois su potere, su primu chi ucchidimus est a De Gasperi e iffattu Minikeddu ‘e sos Pireddas», fratello di Munnanu tzilleraiu, di fanatica fede religiosa ma pure di suadente favella. E altri erano sos comunistas, braccianti e tzorronateris de sa pala e de su piccu, Antoni Iscanu che fabbricava mattonelle e vaschette di cemento per lavare i panni. Il poeta Giovanni Dettori racconterà in versi di quando lui e altri maudits, studenti ma pure scapestrati di paese, si ubriacavano dentro la sezione del PCI, segretario Jogli ‘e Ledda, e giravano faccia al muro il ritratto di Gramsci perché non vedesse a quale grado di abbandono si riducevano.
Jogli ‘e Ledda visse appieno quel tempo. Diplomato alle magistrali dopo qualche anno al liceo classico “Giorgio Asproni” di Nuoro, insegnava alle scuole professionali, a Bitti ma pure in altri paesi della provincia. Lo ricordano con molto affetto a Tresnuraghes. Era di salute cagionevole, consumato dal mal sottile e dallo zelo politico. Era consigliere comunale e in tempo di campagna elettorale «canno annaian a votare, Jogli, izzolu de Vizzente Mossa, vascista, tratteniat su nonnu chin sa propaganda sua». Va da sé che era un forte lettore e diffusore dell’Unità. «Era comunista con la C maiuscola e io ricordo i suoi comizi insieme a Vera Batignani, a Piatzedda ‘e Leone». Così mi dice al telefono Nennedda Pirino, 83 anni, vedova di Preteddu, fratello piccolo di Jogli. «Una volta a Nuoro, quando erano entrambi studenti, Jogli e Preteddu li arrestarono per diffusione di stampa clandestina». I due fratelli, seppur di differenti idee politiche, coltivavano l’arte di volersi bene tra di loro. Preteddu fu sempre vicino a Jogli nei ricoveri al Fornarini di Roma e poi allo Zonchello di Nuoro.
Jogli ‘e Ledda ebbe lo stare con gli ultimi come romanzo di formazione e di piena maturità politica e umana. Lo rivela la sua amicizia con segnos Tomas Calvisi, sacerdote di forte carisma. Quando questi morì, Jogli ‘e Ledda mandò dal sanatorio di Nuoro una lettera, datata 26 aprile 1953, al parroco di Bitti, Sebastiano Respano, molte volte suo fiero oppositore. «Egregio Pievano, troppo in ritardo ho saputo la triste notizia della morte del segnos Tomas. Con signor Tomas è un altro della “Bitti vecchia” che scompare, mi creda ne sono molto dolente; perciò anche se in ritardo voglio esprimergli le mie più sentite condoglianze. Sono pienamente convinto che è mancata una delle persone più stimate del nostro paese. Perché il povero segnos Tomas fu il missionario che da decenni si recava di casa in casa, per portare una parola di conforto e di coraggio a tutti coloro, che infermi, giacevano nel loro letto. Non c’è ombra di dubbio che tutta la cittadinanza sarà rimasta scossa e dolente per la morte del caro Sacerdote».
Una volta Jogli ‘e Ledda si mise in testa a un corteo che passava davanti all’abitazione di don Tomeddu, anche con questo nome conoscevano don Calvisi, non lontano dal corso, quasi attaccata alle case di Conconedda e di Tzinuariu. Passava il corteo dei rossi e segnos Tomas, affacciandosi sulla bicocca, ne prevenne le grida. Fece ricorso alle voci classiche dei venditori ambulanti: «E trudddas e tazzeris e palas de vorru». Una beffa che avrebbe scatenato le ire della gente del corteo se a zittire in quella maniera fosse stata un’altra persona. Ma con l’uomo di pace Tomeddu non si poteva. Disse Jogli ‘e Ledda in risposta alla provocazione: «Tziu Tò, a bois non bos toccamus, vois setzis che a nois». Come un lascito.
Natalino Piras, in L’Ortobene 13 giugno 2021 – n. 22, pagina 7
Immagini: Nico Orunesu