Sul mito dell’immortalità letteraria
di Julio Monteiro Martins
dall’ultimo numero di «Sagarana» (*)
Agli scrittori eletti all’Académie Française è concesso il titolo di «immortels», così come nelle istituzioni congeneri di altri Paesi. Si tratta di un titolo un po’ grottesco,
considerando l’età media avanzata con cui gli “immortali” sono prescelti. L’intenzione di fondo, mi sembra, è soddisfare, anche se solo simbolicamente, una presunta aspirazione all’immortalità letteraria, attraverso il lascito di un’opera che dovrebbe crescere in importanza e in visibilità appena fosse postuma, dando inizio a una spirale crescente di apprezzamento e di notorietà per i secoli a venire. L’idea sarebbe questa: per gli “immortali” la memoria pubblica è giusta e infallibile, e l’oblio non è nemmeno una possibilità.
Che uomini e donne considerati fra i più saggi, sorretti da antiche e solide istituzioni, credano, o almeno collaborino attivamente alla custodia di questa favola, di una così infantile e autoconsolatoria illusione, è davvero sorprendente. Dimostra che la vanità può prendere negli intellettuali di una certa età forme metafisiche e che la capacità di autoconvincimento, dello wishful thinking, non ha limiti.
Tutto questo ci porta a una domanda: quanto è importante che un’opera letteraria continui a dare frutti in abbondanza dopo la morte del suo autore perché possa essere considerata importante? C’è un consenso piuttosto diffuso intorno a questa idea, come se i secoli fossero la vera cartina di tornasole dei meriti degli scrittori, gli unici, nelle parole di Elias Canetti, «che fissano appuntamenti per discutere delle loro opere duecento anni dopo, quando da molto non saranno più vivi».
Sarà vero? O saranno sempre i contemporanei di ogni epoca a confrontarsi sulla validità e sull’attualità delle interpretazioni di quei vecchi testi formulate da loro stessi secondo i canoni e i valori di ciascun periodo storico? Ogni generazione fa la sua lettura critica e l’ethos di ogni periodo fa emergere o riemergere alcuni autori del passato da molto dimenticati, mentre altri “sbiadiscono” a poco a poco, si atrofizzano e non di rado scompaiono sotto uno spesso strato di polvere. La potente rinascita dell’opera di Petronio, di Cervantes, di Shakespeare e di Machiavelli dopo secoli di oblio sembra suggerirci una sorta di letargo, di attesa della comparizione di una futura nuovissima sensibilità che finalmente le accolga.
Molto si potrebbe dire e speculare sul rapporto fra lo scrittore e il tempo e fra lo scrittore e la morte. Per esempio che un writer’s writer, uno scrittore che ha avuto una forte influenza sugli autori del suo tempo anche se non ha mai raggiunto il grande pubblico, non avrà bisogno che la sua opera individuale lo oltrepassi, poiché le opere degli altri e dei suoi seguaci saranno comunque impregnate del suo spirito, anche se firmate da tanti altri nomi, probabilmente inconsapevoli della portata della sua influenza generatrice.
Oppure che il lucido avvicinamento alla morte è fertile per la creazione letteraria; conduce a una voglia di compiutezza, di senso complessivo della propria scrittura e produce molto spesso bei testi di congedo dalla letteratura e dalla vita.
Ma la letteratura a volte non vuole congedarsi, vuole perdurare e mettere radici, mentre la vita esaurita diventa storia o semplicemente scompare.
(*) Dal numero 55 della rivista Sagarana (la trovate qui: www.sagarana.net) presentato ieri in blog.