Sulla poesia sarda. Le acque, le migrazioni

di Natalino Piras

Nico Orunesu_olio, gesso sabbia su tela, cm 30×40

 

Sas benennidas siadas, rundinas, a domo mia! Siate le benvenute, rondini, nella mia dimora.

Così Paolo, Pauliccu  Mossa (1818-1892), bonorvese, poeta, grande poeta, delle sofferenze e degli incanti d’amore.

Le rondini portano il senso dell’avvento ma anche del migrare, condizione storica la seconda, specie nel Novecento, di molta gente sarda.

Come cantare questa condizione? Come poetare?

Il Novecento sono i cent’anni dove più intenso si avverte il passaggio dall’oralità alla scrittura. In questo passare, un fantasma agita la poesia. È la questione della lingua. Ha lasciato scritto Michelangelo Pira (1928-1980), antropologo di scuola impropria, in Sos sinnos: “Jeo appo duas limbas e duas animas. Io ho due lingue e due anime, la sarda e l’italiana, e quando parlo in sardo rinnego la metà di quello che sono, l’italiana; e invece quando parlo in italiano rinnego la metà sarda, di modo che non sono mai un uomo intero se non quando nel parlare mischio cose di una lingua e cose dell’altra come se insieme l’italiano e il sardo fossero per me una lingua sola”. È un dilemma, una lacerazione. È una condizione.

Anche Sebastiano Satta (1867-1914), avvocato-poeta di ascendenza carducciana e di spirito socialisteggiante, deve a questa appartenenza.

Le sue poesie in sardo  nuorese sono  l’intera tramatura dei “Canti”, in italiano barbarico, dà identità, lessico e suono.

Esempio significativo è quello della poesia “Sa ferrovia” , senza tempo preciso di composizione se non quello, annota Gonario Pinna nella “Antologia dei poeti dialettali nuoresi” da lui curata, “in cui fattori esterni di progresso già penetrano nella compattezza immobile e secolare della società sarda quali primi elementi di rottura”.

In questo poetare, sempre si avverte l’immanenza delle duas limbas-due lingue. Canta uno dei più significativi poeti della sarditudine, Francesco, o Cicito o Frantziscu Masala (1916 – 2007): “Sa terra nostra est custa disisperada nurra de montes e nuraghe” , la nostra terra è questo disperato mucchio di monti di basalto e di nuraghi neri. Il refrain masaliano passa in molti altri poeti, molto nel  nuorese Romano Ruju (1935-1974) che a sua volta incentra il discorso supra su  connottu-conosciuto e, per contrari, sulla usurpazione di questo connottu. I prinzipales mangiano, consumano, spolpano e niente lasciano a sos  laribiancos, i labbra-bianche dalla fame: è l’ossessione di Masala, il suo fare poesia e racconto e romanzo.

Nel codice bilingue della “poesia politica” che si confronta con l’amato-odiato se stesso sono pure Leonardo Sole, glottologo, drammaturgo, adattatore nel campo della sarditudine di “Fuente Ovejuna” di Lope de Vega, Franco Cocco (“LimbaLimbas – Apologia della mandorla gemina” dove ragiona  su Placido Cherchi, intellettuale locale-globale alla luce delle “Ceneri di Gramsci” di Pasolini), poeta di intonazioni ritmiche dentro la petrosità, e i navigatori per oscuranze di luce, ossimorici, Ignazio Delogu e Giommaria Cerchi. Poetano di sé e traducono “la poesia di l’althri“, la poesia degli altri. Sono  collocabili in quella cosmografia che Salvatore Tola chiama  “la poesia dei poveri”.

Custa inoke est sa terra“, questa è qui la terra. Significativa l’insistenza sull’aggettivo dimostrativo “custa” e sul sostantivo “terra”. Sono elemento portante, base d’appoggio, luogo di partenze e di ripartenze. “Kusta, inoke, es’ sa terra“, sostiene la pena di Antonio Mura (1926-1975),” restu pedrosu de tottu s’inkunquassu de prima essu su dillùviu“.

Antonio Mura, figlio di Predu-Pietro (1901-1966), “operaiu di luke soliana“ per sua stessa definizione, è poeta bilingue. Poeta figlio di poeta, conoscitori entrambi del rame e delle terre fredde. Predu Mura fece il ramaio girovago, migratore interno, e il soldato nell’Africa orientale prima di stabilirsi definitivamente a Nuoro, in una officina non troppo discosta dalla cattedrale.

L’officina del rame e il laboratorio di poesia coincidevano come luogo. “Donzi corfu ‘e marteddu allughio unu sole“ dice il poeta. Lo stesso sole che manca nell’esperienza di migratore di Antonio, incatenato alla fabbrica, come tanti altri sardi, in sas terras vrittas de su nord Europa.

Pedru Mura, che farà del nuorese la sua lingua di comunicazione poetica, proviene dal Sarcidano, la terra di Benvenuto Lobina (1914-1993), certamente una delle voci più alte e intense. Nella sua poesia il duro di “kusta terra” vivifica la memoria dell’acqua, un’altra delle costanti del Novecento poetico sardo: l’acqua e la sua assenza, le vie fluviali e la salinità del mare. “Terra lontana, a sera, le tue coste, si allungano sul cuore”, canta una Giovanna Markus. Ciascun poeta della sarditudine vede le acque con colori diversi. C’è una maniera elegiaco-sentimentale, con pulsioni erotiche, come nel gallurese Franco Fresi (1940-2023). C’è il mare londoniano, arca abissale di morte per acqua, nel cagliaritano Sergio Atzeni (1952-1995). Il mare come veicolo di migrazioni e il mare che riporta, facendosi nuovamente acqua dolce, alle terre di mezzo e a quelle dell’interno. “O Flumendosa”, canta Benvenuto Lobina, “quando mai, ti potrò dimenticare, anche se il sole ed il vento, delle strade del mondo hanno asciugato i miei panni, intrisi della tua acqua?”

Tante le strade del mondo diramate e attraversate dalla sarditudine come cosa a sé stante ed elemento universale.

“Ci sono glorie triangolari, oltre le mura dei re”, intona il lussurgese Giovanni Corona (1914-1987), svolgendo il tema Paride-Elena-Menelao. Gloria e tutto intorno “buche di trincee”, ”il vuoto della morte”.

La guerra è un’altra delle costanti della sarditudine. Per quanto possa apparire paradossale è nelle trincee del Carso, è durante il macello che fu “la grande guerra” del ’15-’18 che i sardi si riconobbero tra di loro e scoprirono che il nemico non era il vicino di paese ma un altro, di una più vasta nazione. Il sentimento del dolore privato si fa sentimento universale, in un cosmopolitismo non di maniera.

In duas limbas, Francesco Masala dà voce all’indignazione, “subra sa losa“, sopra la tomba di Salvador Allende, “ucciso” dai “terratenientes di Antofagasta”. Modula il verso su quelli del conterraneo, di terra e d’acqua, Sergio Manca di Mores (1922-1958), prima ancora che su Neruda. “Non credi?”, così nella poesia di Manca “l’uomo” parla in sogno con un favoloso “gallo blu” di una e tante infanzie. “Sono come il marinaio, che ha fumato la pipa in ogni porto, in questo mondo senza paralleli, alla ventura; che torna all’approdo, dell’isola a vedere un pezzo d’orto”.

Partenze e ritorni. Migratziones. Le canta il poeta-operaio Antonio Sini e, nei suoi “fuochi di paglia”, sulla soglia dei cent’anni, Efis Caria (1903-2005). Migrazioni e carene, corpo e anima di emigranti. Nel segno della continuità poetica di due lingue-due anime, Michelangelo Pira scrive in sardo un testo, “S’emigranzia”, di forte impatto, chiamandosi Miali de Crapinu, Michele figlio di Crapinu, soprannome del padre.

Nel codice bilingue, dove il sardo fa da lingua di base, simulato e dissimulato, è Giovanni Dettori (1936). Mari, fiumi, coro de iscuricore, cuore di tenebra. C’è il fuoco nella poesia in lingua sarda, ci sono  le acque. Il Flumendosa lobiniano alimenta il Tirso di tante altre metafore, la parte navigabile e quella lutulenta. Tra oralità e scrittura, Dettori è poeta delle scarnificazioni: il dolore che più tremendo non si può di “Canto per un capro” (1986), dolore del disterro, che vuol dire lontano dalla terra, e dolore della perdita irrecuperabile. Altrove, in Dettori è il luogo-tempo del ritorno a farsi sentire, successivo alla desertificazione e alla discesa agli inferi. Ma non si tratta di una risalita. Quanto piuttosto della perdita della sofferenza dentro le correnti e i colori del vento.

Ne viene fuori un tempo non immemore delle case, delle strade, dei riti-miti dell’infanzia. La memoria del sé bambino a sua volta si intera con quella universale di altri luoghi-tempo. Questi possono essere ancora Bitti e per comparazione il sertão di Guimaraes Rosa, le sezioni di partito oppure le vie di Torino, città fatta a squadra e scalpello, dove nessuno dei passanti riesce a sapere e capire “la disperazione di un poeta meridionale”, la sua abbagliante cupezza. Il tutto lavorato da parole insieme di sabbia e diamante, rima petrosa a valenza scarnificata e scarnificante.

Tutto è avvenuto, tutto continua ad avvenire all’insegna delle migrazioni, nel dualismo linguistico. Lo rilevava ancora Michelangelo Pira nel dare avvio alla collana dei più grandi poeti in lingua sarda.

Acqua e ancora migrazioni.

E poi nuovamente  terra. Su campu, s’ortu: il campo, l’ orto. “Intratu nch’est su rivu e m’at distruttu s’ortu”  recita un attitu, che è lamento funebre.

In pieno Novecento, Antoninu Mura Ena (1908-1994) sostiene con il suo “Jeo no ‘ippo torero“, un canto totale. Io non ero torero mette s’attitu, canto funebre delle prefiche, con le suggestioni del “Lamento per Ignacio” di Garcìa Lorca. Il “particulare” dà voce e volto alla stagione totale.

Rivela il sentimento di una lingua, la sua durata nel tempo, la sua capacità di tessere il qui e ora, il passato e i giorni a venire. Poi ancora migrazioni e acque.

Natalino Piras, 16 novembre 2023

https://www.facebook.com/natalino.piras

Immagini: Nico Orunesu

 

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