Sull’apartheid sessuale e il presunto diritto etero di fare concessioni
(*) di Valeria Milito
Anche quest’anno si avvicina il Family Day al grido di “orgoglio Family” e “difendiamo i nostri figli”. Sì perchè siamo nel pieno della bufera per il ddl Cirinnà e la possibilità, sempre più concreta, che alle unioni omosessuali venga (finalmente) riconosciuto lo status di “famiglia” fa paura, quindi urge far sentire la propria indignata voce, il proprio grido d’allarme. Perché chi una famiglia già ce l’ha, inspiegabilmente, si sente minacciato.
E allora è venuta voglia anche a me, di far sentire la mia piccola voce.
Per cominciare mi dà già i brividi il fatto che una parte di popolazione, in possesso di certi diritti, ragioni e si chieda se “concederli” anche a un’altra parte. È una cosa che sa tanto di apartheid. Mi chiedo cosa dia il diritto a noi eterosessuali di concedere o negare diritti a chi ha un orientamento sessuale diverso dal nostro. Tutte le elucubrazioni di ordine sociale e culturale dovrebbero fermarsi, secondo me, di fronte all’enormità della violenza che viene imposta a una parte di popolazione la quale può ambire a ciò cui tutti, più o meno, ambiamo – una famiglia e tutto ciò che questo comporta (anche in termini di sicurezza, di status sociale, di autoaffermazione, di realizzazione personale ecc) – solo accettando di farsi violenza, rinnegando la propria natura, le proprie inclinazioni e rinunciando alla propria identità. Scegliendo cioè una relazione eterosessuale, ciò che noi consideriamo normale e quindi degno di essere riconosciuto.
Nemmeno riesco a capire esattamente cosa temano per le loro famiglie i portabandiera del Family Day: nella pratica, il fatto che due persone dello stesso sesso possano sposarsi, civilmente ovviamente, ed ottenere lo stesso status di coniugati che abbiamo noi sposati, con tutti i doveri e i diritti che ciò comporta, in che modo danneggia la società? In che modo danneggia te e me?
Spesso sui social mi sono scontrata con persone che si appellano alla natura.
“È contro natura”, dicono.
E hanno sicuramente ragione, se alla base dell’unione fra due persone poniamo la procreazione.
Una volta ho fatto notare come, in natura, la “famiglia tradizionale” composta da padre madre e figli e coronata da stretta monogamia non esista. Spesso è un branco di femmine a crescere la prole. A quel punto il mio interlocutore mi ha risposto con un tantino di sdegno che “non siamo mica bestie”, sottintendendo che l’uomo si sia elevato al di sopra rispetto alla condizione puramente istintuale degli animali. E io non posso che dirmi d’accordo. Ma questo vale anche nell’altro senso.
L’uomo, grazie a dio, non si unisce a un suo simile al solo fine di procreare, altrimenti uno varrebbe l’altro. Altrimenti il senso stesso di una relazione, di un matrimonio si esaurirebbe così.
Se, come invece credo, vogliamo far valere e tenere alto, molto alto, il significato della scelta della persona, del sentimento che ci lega proprio a quella persona lì (anche dovesse rivelarsi sterile), allora dobbiamo smettere di appellarci alla natura e comprendere che, così come noi etero non ci accoppiamo con un rappresentante a caso dell’altro sesso con l’unico nobile scopo della continuazione della specie, allo stesso modo non possiamo negare e quindi svilire e quindi rifiutarci di riconoscere dignità all’amore omosessuale solo perché ha l’ardire di voler fare esattamente le scelte che facciamo noi, facendosi guidare da altro che non dal solo istinto procreatore.
Poi, certo, il desiderio di maternità/paternità si fa strada, quello sì che è istinto. E ancor più forte si radica in coloro che condividono i propri giorni con la persona che amano. La voglia di ampliare la famiglia, di completarla, di prendersi cura insieme di una nuova vita e renderla partecipe, trasferirle quell’amore, veder crescere il sentimento che lega grazie anche all’arrivo di un figlio. Come dar loro torto? Chiunque abbia avuto o anche solo desiderato dei figli sa benissimo di cosa si tratti. È un desiderio dolce, un po’ spaventoso, entusiasmante, che nasce e cresce senza controllo e che può diventare un pensiero ossessivo, una morsa alle budella quando, per qualche motivo, non si riesce a coronarlo.
Le coppie omosessuali non possono avere figli, è fuor di dubbio. Non, almeno, in quanto coppia. Perché essere omosessuali non pregiudica certo la capacità riproduttiva né tanto meno quella genitoriale. Però possono adottare, vivaddio. E, a giudicare dalla quantità di bambini abbandonati, abusati, maltrattati, persi nei meandri della grigia e anaffettiva assistenza sociale, l’apertura delle adozioni alle coppie omosessuali (di comprovato equilibrio, capacità affettiva, potenziale educativo, esattamente ciò che viene richiesto alle coppie eterosessuali adottanti), non potrebbe essere che una benedizione.
Lo stesso vale per la stepchild adoption, la possibilità cioè che un figlio dotato di un solo genitore venga adottato dal compagno dello stesso, mettendo così al riparo i bambini – nell’eventualità di decesso prematuro del genitore biologico – dalla possibilità vivere il doppio trauma della morte di uno e dell’allontanamento dall’altro solo per un cavillo legale che nulla ha a che fare con l’affetto e la cura del minore.
Un discorso a parte farei per l’utero in affitto, o maternità surrogata, pratica che, personalmente, mi dà i brividi. Lo trovo immorale perché non riesco a non pensare che preveda “l’uso” di una persona come incubatrice, trovo umanamente straziante il pensiero di una donna che cresca un bimbo nel suo ventre per nove mesi, battito del cuore all’unisono, per poi partorirlo e privarsene, e sociologicamente inquietante perché apre a una serie di scenari di degrado e sfruttamento da parte di soggetti economicamente più forti. Ciò non significa che mi sognerei mai di vietarlo o di proporre misure come il carcere a chi ricorresse a questa tecnica. Piuttosto mi piacerebbe si facesse una seria riflessione sui diritti e la sensibilità di tutte le parti in gioco e si giungesse a una soluzione controllata e capace di garantire tutele a tutto tondo.
La verità è che non esiste una sola motivazione razionale per vietare a due persone di sposarsi e di condividere la vita (o parte di essa) solo sulla base del loro sesso. Chi annaspa e si arrampica sui vetri accampando contorte ragioni socio-culturali dovrebbe avere il buon gusto e l’onestà di ammettere “secondo me non possono perché i gay mi fanno schifo e la sola idea che siano considerati uguali mi dà il voltastomaco” o, in alternativa, “secondo me non possono perché i portavoce del mio Dio dicono che ciò è sbagliato e a me basta”. Dopodiché, nel primo caso andare da un buon analista e risolvere quelli che evidentemente sono traumi infantili irrisolti, nel secondo cercare di far pace con il fatto che non tutti credono nello stesso Dio e negli stessi portavoce e confidare nel fatto che, casomai, se Dio non è d’accordo sarà Lui a vedersela con gli omosessuali impunemente sposatisi.
Svegliati Italia. Lo stesso Amore, gli stessi diritti, lo stesso sì.
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(*) Tratto da La Stanza dei Libri di Arwen
Non si capisce perchè gli OMOSESSUALI, invece di stabilire tra loro un rapporto di AMICIZIA, desiderino l’ACCOPPIAMENTO SESSUALE, che il processo evolutivo della natura ha affidato a due organismi viventi si sesso diverso, cioè al maschio e alla femina.
(Ancor meno si capisce perché mai dovreste condannare e frustrare questo loro desiderio, solo perché non siete in grado di capirlo voi)