«Suonerie»: senza tasti, dire sì, rock operaio

Ventunesima puntata degli ascolti suggeriti da Daniele Barbieri, Giovanni Carbone e Mauro Antonio Miglieruolo.

Un piano B, anzi due – di Daniele Barbieri

Pensate al jazz delle origini, se un po’ lo conoscete: impensabile senza Art Tatum o “Fats” Weller. Il piano trionfa: nel periodo d’oro con i tasti “neri” di Ellington, Bud Powell, Thelonious Monk e tanti altri ma anche con quelli “bianchi” di Brubeck o di Tristano. Per aggiungere 50 nomi non faticherete: ieri e oggi; statunitensi o “resto del globo”. Eppure c’è stato un periodo nel quale una parte del miglior jazz si privava del pianismo. La colpa fu forse del primo, storico quartetto di Ornette Coleman. Certo contavano anche i pochi soldi e il suonare spesso in situazioni improvvisate (un contrabbasso si trascina ma per un vero pianoforte ci vuole Maciste). Ma ogni tanto anche le avanguardie più “colemaniane” volevano avere quegli 88 tasti.

Pare che in una certa occasione la semiseria domanda venisse fuori così: «per stasera abbiamo un piano B?» con la giocosa risposta «ne abbiamo due B». Perchè nel giro delle avanguardie si amava alla pazzia sia Paul Bley che sua moglie Carla. Due piani B, per l’appunto e il contrappunto. Lei all’anagrafe era Lovella May Borg però mantenne (anche dopo la seperazione) quel cognome come il suo caschetto biondo alla replicante di «Blade Runner».

Se frequentate pochino un certo jazz magari state pensando che non l’avete mai ascoltata… e sbagliate. E’ praticamente impossibile che chi abbia un orecchio minimamente uscito dall’età delle caverne non abbia incrociato qualche volta alcune composizioni di Carla Bley: per esempio «Ida Lupino», «Olhos de gato» oppure «Ad infinitum». Solista e diretttrice di big band, dolce e complicata, perfezionista in studio e ai limiti del perfetto dal vivo (anche a Umbria Jazz), brava organizzatrice e sempre piena di idee: Carla Bley è morta a ottobre. Ci lascia una montagna di album, quasi tutti belli. Il meno jazzistico è forse «Escalation over the Hill», un triplo album del 1971 – poi ristampato – che doveva essere un ponte verso il rock ma anche trasformarsi in uno spettacolo teatrale (però non si trovarono i soldi). Tra i miei favoriti due recenti, entrambi della Ecm: «Life Goes On», del 2020 mentre «Andando el Tiempo» è del 2016; in tutti e due gli album l’accompagnano due aspiranti mostri cioè Andy Sheppard ai sax e Steve Swallow al contrabbasso.

Come si dice «sì» in Prog? – di Giovanni Carbone

Ancora una ristampa ricchissima, un cofanetto denso per gli appassionati del prog delle origini con una delle band più iconiche. Arriva il 24 novembre, per Rhino, il cofanetto con la rimasterizzazione del terzo album in studio degli Yes, «The Yes Album», arricchito di rarità imperdibili, tfra cui un paio di concerti: 4 CD, un Blu-ray e un LP. C’è già un’anteprima niente male della bellissima «I’ve Seen All Good People».

https://www.youtube.com/watch?v=fbIBVxWd7nw

Una rimasterizzazione che sintetizza come il gruppo inglese non sia semplicemente una classicissima prog rock band ma che si attribuisca il privilegio di viaggiare (con le note) dovunque. Steve Howe, storico e virtuoso chitarrista della band, proprio a proposito dell’album, dice: «Il nostro avventurismo si manifesta nell’originalità della musica e dei testi (…) nessuno di noi aveva mai fatto qualcosa di simile prima.»

I concerti inclusi nel cofanetto contengono pezzi dell’album in studio: registrati nel 1971 poco prima e qualche mese dopo che il disco esca. Poi le rimasterizzazioni di Steven Wilson dei brani originali, versioni strumentali e altro. Wilson, a ragione, afferma: «per me, questo disco suona ancora fresco come il giorno in cui è stato registrato». Jon Anderson aggiunge: «che meraviglia sapere che 50 anni dopo la nostra musica è ancora apprezzata. È stato un momento di “vincita o di rottura” per la band su molti livelli. L’armonia all’interno era davvero speciale in quel momento e si manifestava nella musica.»

Il disco originale uscì nel marzo 1971 per Atlantic Records con la formazione più tipica della band: Jon Anderson alla voce, Chris Squire al basso, Tony Kaye alle tastiere, Bill Bruford alla batteria e ovviamente Steve Howe, per la prima volta a suonare la chitarra con gli Yes al posto di Peter Banks. Proprio Howe dà una sterzata definitiva al sound del gruppo, i suoi reef sono travolgenti, gli arpeggi immaginifici. Su tutti svettano «Starship Trooper», trascinante e infinita, ma anche l’eclettica «I’ve Seen All Good People», con la voce di Anderson che raggiunge vette di lirismo purissimo.

Indiscutibilmente l’inizio del grande successo della band: fece capolino nei piani alti delle classifiche di vendita di mezzo mondo, arrivando al quarto posto nel Regno Unito.

Supergruppo di virtuosi dei propri strumenti (non ce n’erano tanti in giro) tutti insieme, ma anche di straordinari invenntori sonori. I cinque paiono muoversi all’unisono con Squire e Bruford a tessere un tappeto ritmico imprevedibile su cui si inseriscono le ispirate cavalcate degli altri. Il disco non indugia in atmosfere eccessivamente sinfoniche, caratteristiche di alcuni album a venire della band («Close to the Edge» e «Fragile», per citarne un paio). Pare invece essenziale, a tratti persino minimalista. Per i devoti del Prog, una sorta di testo sacro come pochi altri; e non solo Yes.

«Una mattina…» o due – di Mauro Antonio Miglieruolo

Conta il ritmo, contano le parole. Se riscoprite la prima versione (lenta e amara come la fatica in risaia) di «Bella ciao – Una mattina mi son svegliata» e la confrontate con quella resistenziale (poi imbalsamata dalle istituzioni) la differenza è evidente. Nulla però in comune con la riscrittura musicale dei Modena City Ramblers che ti costringono a ballare (anche i partigiani erano anche allegri, le rare volte che potevano). Adesso una nuova versione di Caparezza. Restano o cambiano un po’ le strofe, le ascoltiamo con altre orecchie o in altri mondi.

E’ così per la musica “colta” (sapete Mozart, Vivaldi, quella roba lì) che oggi si suona molto più veloce dei secoli scorsi. Così ovviamente per le canzoni popolari, folk, sociali e politiche delle diverse tradizioni. Vengono riscritte di continuo in chiave rock, punk, rap. Particolarmente interessanti gli album – e ancor più i concerti dal vivo – della consolidata Banda POPolare dell’Emilia Rossa : tutti “operaiacci” di mestiere e canta-agitatori per convinzione. Guardate il fresco videoclip di «AEmilia Paranoica», terza traccia del nuovo album «Sempre dalla parte del torto» (frase rubata a Bertolt Brecht, per interposto Luigi Pintor). Confessano di avere ripreso la canzone simbolo dei “vecchi” CCCP e il processo che scoperchiò il vaso di Pandora sulla malavita organizzata al Nord che fu socialista, riformista e super-onesto. In una citazione a due teste si ironizza amaramente sull’Emilia-Romagna e le sue ipocrisie permanenti.

Una canzone contro quella «montagna di merda», per dirla con Peppino Impastato, che è la mafia. Ma la camorra, la ‘ndrangheta e le vecchie-nuove mafie sono parte integrante dell’economia, della politica e della società al Nord quanto al sud. Lasagna e pizzo, banchieri e killer, riciclaggio di infamie ma coperto di belle parole politically correct tanto alla moda.
I mafiosi e i loro complici in Emilia-Romagna raramente sono originari della Sila o Corleone; all’anagrafe risultano di Modena o Bologna da generazioni: «ballano il liscio e mangiano i tortellini». Come sospettare di loro se non ci fossero i processi e le condanne… che poi i media e i Palazzi dimenticano in un batter di ciglia?

La presentazione del videoclip è prodiga di ringraziamenti. I più interessanti sono in coda: «Grazie, ma un po’ meno, ai comuni di Modena, Reggio Emilia e Bologna nonché alla Regione Emilia-Romagna per averci offerto tante, troppe distese di cemento e cantieri da usare come set».

(*) Una imprescindibile quanto impossibile occasione per far risuonare le note attraverso le parole. Sognando e tentando di attraversare la musica in tutte le sue variegate manifestazioni. Daniele Barbieri, Giovanni Carbone e Mauro Antonio Miglieruolo nel gran mare delle proposte sonore pescheranno spigole (cioè spigolature) mensili adatte a fornire un’idea di quel che si muove ed è subito fruibile da coloro che alle musiche si volgono per migliorare la qualità della vita. Il trio suggerisce solo dopo che quei suoni hanno acceso una qualche luce fra orecchie, cuore e mente.

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Un commento

  • E se volete sentire dal vivo gli “operaiacci” della «Banda POPolare dell’Emilia Rossa» andate sabato 25 novembre a Correggio (sala 25 aprile) verso le 18: un live ad oggi senza precedenti. In trio piano, voce e percussioni alcune delle nostre canzoni. «Lo faremo naturalmente gridando sempre:
    Palestina Libera! Palestina Rossa!»

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