Talkin’ About A Revolution
Articoli di Noam Chomsky, Abdelmajid Daoudagh, Danilo Tosarelli, Kevin J. Everson, Lee Camp, Mairav Zonszein, Jack Rasmus, Marie Moïse, Yeshimabeit Milner.
intervengono Malcolm X e James Baldwin, canta Tracy Chapman, disegna Banksy
Noam Chomsky: «L’America fondata sulla schiavitù, i neri repressi da 400 anni»
(Intervista di Valentina Nicolì)
Gli Stati uniti bruciano. In diverse città viene imposto il coprifuoco, le rivolte per le strade non accennano a diminuire, coinvolgendo sempre di più anche la popolazione bianca, e l’esercito è pronto a intervenire. Intanto le parole e le azioni del governo, e di Trump in particolare (la sua ultima uscita sui social – «Law and Order» – sembra il titolo di un telefilm), non sembrano voler trovare la conciliazione con una società già esasperata dall’emergenza sanitaria, da disoccupazione e disuguaglianze.
Per capire quanto siano antiche le radici delle rivolte che occupano oggi le pagine dei giornali di tutto il mondo abbiamo fatto qualche domanda al professor Noam Chomsky, tra i massimi esperti mondiali di politica e società americana.
Le proteste seguite all’uccisione di George Floyd si sono trasformate in rivolte, propagate da Minneapolis a tutti gli Usa. Nel frattempo, il Pentagono ha esortato la polizia militare a tenersi pronta a intervenire. Professor Chomsky, che cosa sta succedendo negli Stati uniti? C’è qualcosa di più profondo dietro le proteste contro il razzismo e l’abuso di potere della polizia bianca?
Di più profondo ci sono 400 anni di brutale repressione. Dapprima, il più violento sistema di schiavismo della storia, che ha costituito la base della crescita economica e della prosperità degli Stati uniti (e dell’Inghilterra). A questa fase sono seguiti dieci anni di libertà in cui la popolazione nera ha potuto partecipare a tutti gli effetti alla società e lo ha fatto con grande successo. Dopodiché è nato un patto tra Nord e Sud che ha di fatto concesso agli Stati ex schiavisti l’autorità di fare ciò che volevano. E ciò che hanno fatto è stato di criminalizzare la vita dei neri, istituendo uno «schiavismo con un altro nome», come recita il titolo di uno dei libri più autorevoli in materia (Douglas A. Blackmon, Slavery by other name. The Re-Enslavement of Black Americans from the Civil War to World War II, Anchor Books, 2008). Questa fase è durata all’incirca fino alla Seconda Guerra mondiale, quando poi è sorta la necessità di reperire manodopera. È cominciato allora un periodo di relativa libertà, per quanto ostacolato da leggi razziali così estremiste che persino i nazisti in quel periodo non le presero in considerazione e leggi federali che prescrivevano la segregazione nelle politiche abitative sussidiate dal governo attuate dopo la guerra. In più, ovviamente, in quegli anni i neri (e le donne) erano esclusi dall’istruzione universitaria gratuita garantita ai veterani. Successivamente è sorta una nuova ondata di criminalizzazione della vita dei neri, facilmente documentabile. Quanto al razzismo, persiste ancora oggi, benché meno dilagante di prima. E quando si manifesta, come nel caso dell’omicidio di Floyd, ecco che esplode la protesta, cui ha aderito in questo caso anche buona parte dei bianchi. Ciò significa che in alcuni settori della popolazione sono stati fatti seri passi avanti nel superamento di questa terribile piaga.
Pensa che la pandemia abbia avuto un ruolo nelle proteste? È servita a far venire ancora di più allo scoperto le disuguaglianze e i problemi di giustizia sociale del paese? O ha fatto esplodere una pentola che ribolliva da tempo?
Certamente la pandemia ha evidenziato alcuni di questi problemi. Il tasso di mortalità per Covid-19 tra le persone nere, per esempio, è tre volte superiore a quello tra i bianchi. Trump, la cui malignità non ha limiti, ha approfittato dell’emergenza sanitaria per ridurre le norme volte a limitare l’inquinamento atmosferico, che ha effetti devastanti sulle malattie respiratorie legate a questa pandemia. La stessa stampa economica stima che a causa di queste scelte potrebbero morire decine di migliaia di persone, per lo più tra le comunità nere, che possono permettersi di vivere solo nelle aree più inquinate («How Trump’s EPA Is Making Covid-19 More Deadly», Bloomberg, 4 maggio 2020). Il modo in cui questi fatti influenzeranno l’opinione pubblica dipenderà da quanto essi saranno occultati dall’apologetica razzista.
Professore, ci sono circostanze, come quelle cui assistiamo in questi giorni negli Stati uniti, in cui la violenza da parte di una popolazione esasperata può essere giustificata?
Di sicuro può essere compresa. Più che altro, l’esperienza ci insegna che non è una scelta saggia: di solito ha come unico risultato di incrementare il sostegno dell’opinione pubblica verso una repressione ancora più dura.
Una delle prime reazioni di Trump alle proteste è stato un tweet poi oscurato: «Quando comincia il saccheggio, si comincia a sparare». Può spiegarci perché questa frase ha avuto un impatto così forte sulla società americana? Ritiene che quel «peccato originale che macchia ancora oggi la nostra nazione» (come ha detto Joe Biden) sia oggi aggravato dalla presenza di Trump? La sua retorica infuocata serve a farlo risalire nei sondaggi che, almeno a oggi, danno Biden in vantaggio?
In quel tweet Trump stava citando la frase pronunciata cinquant’anni fa da un comandante della polizia della Florida (Walter E. Headley, capo della polizia di Miami, ndr) per spiegare come avrebbe reagito lui alle manifestazioni antirazziste. Il senso della dichiarazione di Trump era chiaro ma, date le reazioni indignate, ha mentito spiegando che voleva dire che sarebbero stati i «saccheggiatori» ad aprire il fuoco. Di sicuro Trump ha fatto di tutto per ingrandire quella «macchia», rivolgendosi a quei suprematisti bianchi che fanno parte della sua base elettorale. Difficile prevedere però quanto sarà profondo l’impatto popolare.
Che cosa ne pensa della reazione dei liberal? Quello che sta accadendo in questi giorni ha qualcosa da insegnare a loro e allo stesso Biden?
Di sicuro dovrebbe. Resta da vedere se lo farà effettivamente.
Ha fatto riferimento alla «criminalizzazione della vita dei neri», fenomeno di cui parla spesso nei suoi libri. Ce ne spiega l’evoluzione e il modo in cui continua ad agire nella società ed economia americane?
La paternità di quell’espressione non è mia. Viene usata spesso negli studi sulla società americana. Negli Stati ex schiavisti della fine del XIX secolo si trattava di una politica premeditata. Se un nero se ne stava in piedi per la strada, poteva essere fermato per vagabondaggio, gli poteva essere comminata una multa che non avrebbe pagato e sarebbe così finito in prigione. Una volta lì, sarebbe stato messo a disposizione delle aziende in quanto lavoratore ideale: disciplinato, nessuna protesta, costi quasi pari a zero. Questa strategia ha contribuito enormemente alla rivoluzione industriale dell’epoca, così come all’agribusiness. La seconda ondata di criminalizzazione ha preso slancio con Ronald Reagan. Nel 1980, quando si insediò alla presidenza, il tasso di incarcerazione rientrava nella media europea. Da allora ha subito un’impennata, attestandosi ben al di sopra dell’Europa. Le incarcerazioni coinvolgono in maniera sproporzionata i neri. È in parte il risultato della guerra alla droga e in parte è riconducibile a una maggiore criminalità tra le persone nere. Quest’ultimo dato è spesso evidenziato dall’apologetica razzista, senza però domandarsi perché tale criminalità sia maggiore tra i neri. In realtà, è tipico delle comunità oppresse. Ma il caso delle persone di colore è indubbiamente il più grave.
https://ilmanifesto.it/noam-chomsky-lamerica-fondata-sulla-schiavitu-i-neri-repressi-da-400-anni/
QUALE IMMUNITA’ QUALIFICATA?
– DANILO TOSARELLI-
George Floyd è rimasto 8 minuti e 46 secondi sotto il ginocchio assassino di Derek Chauvin.
Ammanettato, costretto in quella maledetta posizione prona che stenta a farti respirare.
Con addosso 3 poliziotti che lo hanno soffocato.
La ricostruzione fatta dal New York Times, dimostra che non c’è stata alcuna resistenza.
Per fortuna c’erano le telecamere ed i testimoni presenti confermano la volontà di uccidere.
Il Procuratore di Minneapolis ha contestato a Derek Chauvin il reato di omicidio volontario.
Gli altri 3 poliziotti coinvolti, sono stati arrestati con l’accusa di complicità.
Derek Chauvin è semplicemente un poliziotto anafettivo.
Indifferente alle suppliche della vittima che chiedeva di poter respirare.
Alle spalle ben 17 denunce per cattiva condotta e coinvolto in 3 sparatorie con un morto.
Eppure ancora lì, in servizio, impunito, nonostante il suo oggettivo grado di pericolosità sociale.
Le proteste di massa sono esplose subito ed hanno fatto il giro del mondo.
Ancora tanta rabbia, tanto dolore ed una incontenibile voglia di ribellarsi.
Per Trump, un gruppo di anarchici della sinistra radicale che vanno adeguatamente repressi….
immediate le proteste dei candidati Democratici, ma anche fra i Repubblicani.
L’ex Ministro della Difesa Jim Mattis, lo ha accusato di voler dividere il Paese.
Molti i poliziotti in servizio che si sono inginocchiati per offrire solidarietà ai manifestanti.
UN GESTO NOBILE CHE MI HA COMMOSSO.
Nonostante tutto ciò, Trump impugnando la Bibbia, ha minacciato di schierare l’esercito.
La tragica morte di George Floyd ci obbliga a riflessioni serie.
E’ necessario comprendere il ruolo delle Forze dell’Ordine e la loro IMMUNITA’ QUALIFICATA.
E’ necessario comprendere come funziona l’APPARATO PENALE.
Le situazioni tragiche nascono spesso per l’impostazione punitiva che da anni nutre l’Apparato penale.
L’80% degli arresti è legato ad infrazioni lievi come stare seduto sul marciapiede.
Oppure guidare senza cinture o attraversare fuori dalle strisce pedonali.
Esiste una anedottica che cita bambini arrestati a scuola perchè iperattivi.
Sceriffi che organizzano retate di adolescenti accusati di nascondere una birra ed altro ancora.
Immediatamente scattano le manette.
In USA avviene un arresto ogni 3 secondi.
Secondo FBI, ogni anno vengono arrestati 10,3 milioni di cittadini.
Alte le probabilità di condanna per ispanici ed afroamericani.
1 su 6 per UOMO ISPANICO
1 su 3 per UOMO DI COLORE
1 su 17 per UOMO BIANCO
Il 40% dei DETENUTI è AFROAMERICANO.
Giova precisare che molti di essi sono costretti ad aspettare la sentenza in carcere.
Per pagare la cauzione ed uscire in attesa del Tribunale, occorrono 10 mila dollari e quindi…..
Tutto ciò contribuisce a gonfiare le percentuali.
Nel 2019 sono state uccise dalla polizia più di mille persone.
Il 24% era di colore, benchè gli afroamericani rappresentino il 13% della popolazione.
tra il 2013 ed il 2019 ben il 99% degli agenti coinvolti in operazioni con il morto, non hanno avuto condanne.
Credo sia necessario a questo punto, spiegare cosa è l’IMMUNITA’ QUALIFICATA.
Nel 1967 la corte Suprema creò la teoria giuridica dell’IMMUNITA’ QUALIFICATA (qualified Immunity).
La Polizia non può essere perseguita, se dimostra “buona fede” nel violare un diritto garantito.
15 anni dopo, la Corte Suprema decise che spetta alla vittima dimostrare le violazioni della polizia.
Dimostrare che gli agenti hanno violato “un diritto chiaramente stabilito”.
Quel “diritto chiaramente stabilito” deve essere già stato oggetto di un caso legale.
Inoltre deve avere lo stesso “contesto specifico” e stessa “condotta particolare”.
In soldoni, è difficilissimo per il cittadino ottenere giustizia in tribunale.
Difficile dimostrare la colpevolezza dei poliziotti coinvolti in abusi e violenze.
in presenza di avvenimenti tragici, l’IMMUNITA’ QUALIFICATA è la più sicura delle protezioni.
Troppe morti gridano ancora vendetta per non aver avuto giustizia.
Troppe le vittime di colore per non dubitare che questa norma favorisca e giustifichi atti di razzismo.
La polizia americana non può continuare a godere di una impunità che produce mostri.
Il sindaco di Minneapolis Jacob Frey ha licenziato i 4 agenti coinvolti nella morte di Floyd.
Con grande onestà ha dichiarato che quanto visto in quel filmato è malvagio ed inaccettabile.
Dopodichè si è chiesto ” ma se il video non ci fosse stato?”.
Le manifestazioni di questi giorni devono pretendere la messa in discussione della QUALIFIED IMMUNITY.
La polizia americana non può continuare a godere di una impunità che produce mostri.
Non rendiamo vana la terribile morte del povero George Floyd.
Ogni americano onesto lo sa e non può più nascondere la testa sotto la sabbia.
Come non può farlo nessun sincero democratico che abbia a cuore la lotta contro ogni razzismo.
Trump va lasciato solo e questo è il momento per attaccare pesantemente la sua tracotanza.
Quanti ancora pensano agli USA come culla della democrazia?
Kevin J. Everson, l’America bianca continuerà a costruire nuovi muri
Giona A.Nazzaro intervista Kevin Jerome Everson
Kevin Jerome Everson è senza dubbio una delle voci più originali del cinema statunitense contemporaneo. Nonostante dichiari di non saperne molto di cinema («Sono molto più interessato all’arte»), vanta una filmografia di quasi duecento film di varia lunghezza e formati e numerosi riconoscimenti accademici fra i quali una fellowship della Guggenheim. Scultore, fotografo, pittore oltre che cineasta, l’anno scorso la Heinz Foundation gli ha conferito il suo prestigioso riconoscimento per le scienze umanistiche.Docente presso l’università della Virginia a Charlottesville, Everson e il suo lavoro sono stati oggetto di numerose retrospettive, installazioni, esibizioni – al Centre Pompidou di Parigi, al Museum of Contemporary Arts di Los Angeles, alla Tate Modern di Londra al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh.
EVERSON è appena rientrato a Charlottesville da Berlino, dove era ospite dell’accademia Americana per una residenza artistica, e ha quasi completato l’obbligatorio periodo di quarantena di due settimane: «Tutto quello che sta succedendo e che a molti sembra nuovo non è nient’altro che la solita vecchia storia», dichiara immediatamente. «L’America bianca è sempre stata irrispettosa della tradizione orale afroamericana. Ogni volta che una persona afroamericana dichiara qualcosa, l’America bianca non gli crede mai. Deve essere filmata per essere creduta. L’America bianca non sopporta che qualcuno possa essere testimone delle sue atrocità. Loro sono i primi a credere alle proprie menzogne di essere sempre i buoni. Se tenti di contrastare questa visione attraverso una narrazione orale, non ci credono. E quando finalmente lo vedono pensano sempre che si tratti di un fatto isolato. Si rifiutano di accettare che sia sistemico perché gli permette di conservare la loro presunta superiorità morale, di restare aggrappati al potere. Se i bianchi commettono un crimine, si tratta sempre di un ’individuo’. Se un afroamericano commette un crimine, allora è tutta la comunità che lo commette. Un serial killer bianco è sempre un ’lupo solitario’. O un pazzo. Perché i bianchi si ritengono essenzialmente ’buoni’. Per cui se un bianco commette una strage, si tratta di un folle o di malato perché si allontana dalla norma della supremazia bianca. Il sottotesto è: ’noi sempre migliori di chiunque altro e quello è solo il crimine di un singolo individuo’. Il sistema non è mai messo in discussione. Per cui l’Isis, Al Qaeda e tutte queste organizzazioni sono riconducibili a interi gruppi etnici che vengono criminalizzati. Persino Dylann Storm Roof che ha compiuto la strage della Emanuel African Methodist Episcopal Church viene estrapolato dal suo contesto. Il suo giubbotto, però, recava la scritta Rhodesia. Quindi qualcuno lo ha indottrinato. Quello non è solo un ’lupo solitario’».
«PER I BIANCHI il problema non mai dei bianchi in generale. È questo è il problema della supremazia bianca: ’Siamo superiori quindi non possiamo essere malvagi’. Il sistema non è mai ritenuto responsabile perché loro ritengono che il sistema sia infallibile. Sono una persona molto pessimista ma è interessante osservare che molte di queste proteste non si sono verificate in quartieri neri. C’erano tantissimi bianchi per strada Hanno dato alle fiamme macchine della polizia che non stavano nei loro quartieri. Hanno messo a ferro e fuoco Santa Monica! E Santa Monica è più bianca che non si può! Non ci vive nessuno di noi (ride, ndr). Sono arrivati a Rodeo Drive (distretto dello shopping di lusso losangelino, ndr)! Chi l’avrebbe mai detto? Quello sì che è un posto fuori mano (ride, ndr.). Ci credo che hanno chiamato la Guardia Nazionale e volevano l’esercito per strada! Sono entrati nei quartieri dei bianchi ricchi. Per questo motivo stanno andando fuori di testa: mica bruciava South Central! Il fatto che la protesta sia multiculturale la rende molto più minacciosa rispetto a quelle del passato. Se si fosse trattato di soli afroamericani avrebbero usato senz’altro pallottole vere per fermare le rivolte e tutto sarebbe stato molto più violento e la repressione molto più sanguinosa».
Come considerare il fatto che molti bianchi si sono uniti alla protesta? «I giovani oggi crescono in un ambiente multiculturale. Probabilmente non sono così segregati come le generazioni che li hanno preceduti. E sono più istruiti».
PARLANDO con Spike Lee, lui suggeriva che invece di limitarci a puntare il dito sul razzismo degli Stati Uniti dovremmo pensare a come fermare la pandemia del razzismo in casa nostra. «Spike ha ragione. In queste narrazioni si tratta sempre degli ’altri’, mai di . ’noi’. Quando sono stato in Italia nel 2002 c’era questo ritornello ossessivo contro gli albanesi. Ogni cosa che accadeva era colpa degli albanesi! Senza contare poi questa frattura regionalistica dove ognuno pensa di essere più ’italiano’ degli altri. Poi basta guardare a come è stata gestita la crisi dei rifugiati in Italia. Una cosa terribile. D’altronde questa è la stessa cosa che accade negli Stati Uniti. I bianchi guardano sempre da un’altra parte. ’Mio Dio, stanno opprimendo la gente in Tibet! Oddio un’altra strage nel Darfur!’ A me verrebbe da dire: ’Hey! Siete mai stati a St. Louis?’. Troppo facile: così non sei mai tu il responsabile. Quando i bianchi fanno i film sulla schiavitù e lo schiavismo la buttano sempre sul razzismo e mai sull’economia. In questo modo il padrone della piantagione ha sempre la parlata sudista strascicata dall’accento pesantissimo. Ed è sempre rappresentato come un bifolco. In questo modo uno come Tarantino può dire: ’Non sono io, sono loro!’».
«DANNO sempre la colpa a qualcun altro, ma in fondo si tratta ogni volta del medesimo privilegio bianco che ti permette di fare queste distinzioni. Oggi ho come l’impressione che in Italia, per esempio, il discorso sia estremamente frammentato, come se non ci fosse più spazio per l’idea di inclusività. Eppure nel 40 a.c. nel senato romano c’erano senatori africani perché dovevano trattare anche con altri popoli e tutti stavano sempre su delle navi in perenne movimento a commerciare e a viaggiare».
GEORGE FLOYD è stato ucciso pochi giorni dopo Ahmaud Arbery. Gli afroamericani sono più che mai esposti a una violenza impunita e continuata. «È sempre stato così. Ricordo che quando andavo alle medie, negli anni 70, tiravano giù dai bus scolastici ragazzi di appena 14 anni in manette. Avevo 12 anni quando osservai il vicepreside della mia scuola ordinare a tre ragazzi bianchi di mettere in riga tre miei coetanei. Quando trasmettevano Radici la mattina dopo a scuola ti insultavano dandoti del negro e dovevi fare a botte ogni giorno. Si viveva in un clima di violenza costante. Era normale».
Alcune persone in Europa sostengono ora che finalmente gli Stati Uniti hanno gettato la maschera. «Non c’è mai stata nessuna maschera! (ride di gusto, ndr). Quando i miei colleghi – che amo e ammiro – mi invitano a partecipare a seminari sul razzismo, l’integrazione, ecc. io rifiuto sempre. Mi limito a dire: ’Fatelo voi questo lavoro. Non ho nessuna intenzione di partecipare a tavole rotonde sull’inclusione e la diversità. L’America con tutte le sue risorse potrebbe cambiare lo stato delle cose se solo lo volesse e non lo fa perché a loro le cose vanno bene come stanno. Questo complesso di superiorità offre loro infiniti benefici e a loro fa piacere essere dove sono. Non hanno nessuna voglia di cambiare posto. Chris Rock una volta ha detto: ’Nessun bianco vorrebbe stare al mio posto. E io sono uno ricco!’. Le persone che si occupano di immobili dicono sempre: ’Quando nel tuo quartiere ti avvicini alla soglia dell’11% di residenti non bianchi quello è il momento in cui spuntano i cartelli Vendesi’. Temo che i bianchi siano perfettamente capaci di rivotarsi Trump per altri quattro anni anche se lui sta facendo un ottimo lavoro per non farsi rieleggere. Dopo la sua elezione, alcuni colleghi mi chiedevano: ’Ma che fine ha fatto il vostro voto?’. E io rispondevo: ’Che fine fatto ha fatto il vostro voto!’ Tocca ai bianchi fare la parte del sollevamento pesi. Noi siamo solo il 13-14%. E il nostro lavoro lo facciamo tutti i giorni. Facessero pulizia in casa loro e iniziassero a lavorare sul serio. I bianchi costruiranno sempre nuovi muri. Queste cose sono state ripetute all’infinito. La cultura, la musica, l’intrattenimento ha detto tutto quel che c’era da dire eppure i bianchi non vogliono ascoltare (ride ancora, ndr). Pensa a Redd Foxx, Richard Pryor, James Baldwin, Toni Morrison, Maya Angelou: che altro puoi fare? Aveva ragione Dick Gregory quando diceva: ’Siamo nei guai: i bianchi non sono molto svegli’. Gli ripeti le stesse cose mille volte e continuano a non crederti. Se devo essere sincero sino in fondo, stai facendo queste domande alla persona sbagliata. Queste domande dovresti farle a tutti i registi bianchi e vedere cosa ti rispondono».
Killer Mike dei Run the Jewels è stato al centro di forti polemiche per delle affermazioni a favore dell’uso delle armi da fuoco. Qual è la tua posizione? «Davanti alla mia finestra del mio ufficio quando c’è stata la marcia per Unite the Right ho avuto nazisti armati fino ai denti per giorni interi. Una donna aveva un AR-15 a tracolla. Un’altra aveva un lanciagranate».
«PERSONALMENTE ho un porto d’armi. In quei giorni avevo sempre la mia pistola con me. Se invece di bianchi nazisti armati fino ai denti fossero stati egiziani, cinesi, albanesi li avrebbero ammazzati uno per uno senza troppe storie. Essendo bianchi ottengono un trattamento speciale. Ma i nazisti li conosciamo. Sai chi sono e cosa vogliono fare. Il problema è la signora o l’impiegato bianco che magari hanno votato due volte per Obama ma che se incontrano un afroamericano nel loro quartiere chiamano immediatamente la polizia. Per questo motivo ho voluto fare questa serie di film sui Bird Watcher (ornitologi amatoriali). Quale attività più pacifica e tranquilla? Eppure se la gente si ritrova di fronte un Bird Watcher afroamericano si spaventa e chiama la polizia. Se ci pensi è la paura dell’interruzione della loro normalità, il sottotesto base di tutti i film horror. Il mostro della laguna nera interrompe i piani di relax dei bianchi, così come lo squalo interrompe le vacanze della classe media. Ci trattano come alieni. Non a caso faccio vedere a miei studenti E.T. di Spielberg. La cosa straordinaria di quel film non è l’alieno ma l’assenza di tutti gli altri. In quella parte della California è impossibile non incontrare cittadini messicani eppure nel film non ce ne è nemmeno uno. Senza contare gli afroamericani anche se la maggior parte degli avvistamenti di Ufo avviene nei quartieri neri (ride, ndr). È questa esclusione, quest’assenza data per scontata che è problematica».
COSA pensi del cinema di John Ford e in particolare dei suoi film con Stepin Fetchit? «Stepin Fetchit era un grande attore. I ruoli che gli offrivano erano il problema. Sono convinto che Ford fosse una persona di grande talento ma non riesco più a vedere Sentieri selvaggi. Da noi passa in tv in continuazione. Ritengo che Howard Hawks un artista più moderno, dalla tavolozza più ricca. Mi piace il suo senso dell’essenzialità. Billy Wilder è un altro cineasta che mi interessa. Un film come L’appartamento mi sembra davvero modernissimo. Non ho alcuna idea di cosa sia il ’cinema afroamericano’, siamo appena agli inizi, ma ogni volta che mi invitano a discutere Nascita di una nazione mi arrabbio. Dico sempre: ’Se vengo, vi prendo a pedate bifolchi!’ (ride a lungo, ndr). Si continua a sostenere che sia un lavoro geniale perché ha introdotto delle innovazioni formali ma quelle idee erano già nell’aria. All’epoca c’era anche Oscar Micheaux che faceva i suoi film ma lui è quasi dimenticato. Anche in questo caso si tratta di esclusione e di assenza».
https://ilmanifesto.it/kevin-j-everson-lamerica-bianca-continuera-a-costruire-nuovi-muri/
Una lettera di Majid Daoudagh*
Caro fratello George Floyd,
Noi che viviamo tranquilli e liberi in Europa non potremo mai comprendere il significato di tre secoli di schiavitù e sopraffazione, percepire sulla pelle. l’ingiustizia e la supremazia bianca persino nei concetti della religione cristiana: Maria e Cristo sono raffigurati biondi e chiari mentre i demoni con pelle e capelli scuri. Mohammed Ali affermò in un’ intervista: “gli angeli neri davvero non ci sono? ». Se esistono, spero che ti accolgano loro in paradiso.
Ti scrive un immigrato che si chiama Majid Daoudagh (Italo-marocchino) dall’Italia, una terra dove da trent’anni scorre il sangue dei neri assassinati dall’ingiustizia sociale e dall’indifferenza politica.
La prima vittima fu Jerry un bracciante raccoglitore di pomodori nelle campagne di Terni, assassinato nel 1989 dai mafiosi di un clan che voleva dominare il territorio sottomettendo i disperati con la stessa violenza che utilizza il regime americano per assoggettare l’intera popolazione nera.
Da anni qui in Italia, il caporalato nelle campagne é al servizio della criminalità schiavizzando e ricattando manodopera straniera di ogni colore fuggita dalla povertà dei paesi di origine: africani, magrebini, cinesi, schiave dell’Est Europa.
Caro George la realtà spegne i sogni e la lotta per resistere si esprime con il rifiuto, con la rabbia e talvolta con la rivolta. Il fuoco di questi fratelli sottomessi brucia dentro di noi.
Dichiariamo guerra alla menzogna, al terrorismo politico ed intellettuale che per anni ha predicato una dottrina definita “legge” che inchioda le nostre esistenze ad un permesso di soggiorno, ad una residenza, ad un contratto di lavoro/schiavitù, che ha ucciso le illusioni di chi é fuggito alle difficoltà di terre lontane per rinchiuderci in centri di accoglienza e tendopoli dove nessun potere politico ci ha difesi, ma ci ha sfruttati come pedine elettorali.
Siamo stati costretti a tacere dall’odio e dalle minacce razziste degli stessi mandanti della tua uccisione che comandano imponendoci la schiavitù della loro fede, cultura e modo di vivere senza considerare che l’ immigrazione ha favorito la crescita e lo sviluppo di nazioni come gli Stati Uniti e l’ Europa.
Caro George, anche noi siamo simbolicamente e materialmente assassinati ogni giorno come é accaduto a coloro i quali hanno dato la vita per non perdere la propria dignità in luoghi chiamati Rosarno e Castelvolturno, che hanno sfidato la mafia piuttosto che continuare un’ esistenza di stranieri in schiavitù sottoposti a continui ricatti e vessazioni per un pezzo di pane.
Guardando la terribile immagine della tua agonia riesco ad immaginare mentre ti passava dinnanzi agli occhi la vita e la storia tragica dei tuoi antenati, la sofferenza dei deportati in America.
Spero che la tua morte non sia stata vana e che conduca ad un movimento di ribellione globale contro la sopraffazione e le ingiustizie.
Sciascia in un suo libro scriveva “Oggi siamo chiamati ad una riflessione profonda oltre le dottrine, la religione ed ogni fanatismo basandoci esclusivamente sulla ragione salvando quello che resta della nostra umanità”.
Quando ti accoglieranno gli angeli neri, chiedi a loro quante vittime sono sepolte nel mar Mediterraneo senza una preghiera, una tomba, un fiore? Se li incontrerai salutali dicendo loro che sulla terra ci sono persone che continuano a lottare per la giustizia, per creare un mondo diverso dove l’unico colore sia quello dell’umanità invece di bianco, nero o giallo, dove nessuno si senta in diritto di sopraffare e schiavizzare.
Oggi, caro George, voglio abbracciare la tua anima che resterà in eterno tra noi per guidarci in un percorso verso la nostra umanità, verso una fratellanza in cui non ci siano schiavi o stranieri. Vestiamoci di umanità invece che di razze, di colore della pelle, di ideologie e pregiudizi.
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(*) Abdelmajid Daoudagh (detto Majid) originario dal Marocco lavora come operaio metalmeccanico in provincia di Brescia. attivista antirazzista e per i diritti dei lavoratori. Nome di Battaglia: “Majid l’operaio”.
19 FATTI RIGUARDO ALLA POLIZIA STATUNITENSE
– Lee Camp –
Con tutte le proteste, la rabbia e la violenza in tutto il paese, sulle nostre onde radio mediatiche industriali è iniziata una legittima discussione riguardo alla polizia. (Direi che la discussione è in ritardo, ma in realtà l’abbiamo avuta circa ogni tre anni negli ultimi quaranta). Tuttavia, nonostante tutta la copertura un dibattito più profondo permane ignorato: un dibattito sul perché il sistema di polizia statunitense addirittura esista, su come operi (o non operi) e da dove provenga.
I 19 fatti seguenti riguardo alla polizia statunitense cambieranno tutto ciò che pensate di sapere. Cominciamo dalla pura e semplice quantità degli assassinii.
- La polizia uccide circa mille statunitensi l’anno. Nel 2016 il The Guardian ha rilevatoche la polizia statunitense ne aveva uccisi 1.093. Sono tre vite estinte dalla polizia ogni giorno.
- Nel Regno Unito la media per anno è di treassassinii della polizia. Non trecento. Solo tre. Questo significa che la polizia statunitense in generale uccide più cittadini in una settimana di quanti il Regno Unito ne uccida in un anno. Nel 2018 la polizia danese e quella svizzera non hanno ucciso nessuno. Zero. Hanno letteralmente lasciato vivere tutti. (Si penserebbe che avessero ucciso almeno alcuni, tanto per restare allenate).
- La grande maggioranza degli statunitensi uccisi non è costituita da criminali “induriti” (qualsiasi cosa ciò significhi). Il Treatment Advocacy Centerrileva che uno su quattro uccisi dalla polizia statunitense era gravemente malato di mente. Se si aggiungono i semplicemente instabili mentalmente o cognitivamente compromessi, il numero è molto più elevato. Probabilmente ben più del 50 delle volte in cui la polizia uccide qualcuno, la vittima non è stabile o sana di mente.
- L’anno scorso BBC News ha scopertoche dal 2005 solo 35 agenti sono stati condannati per un qualsiasi reato dopo aver tolto la vita a qualcuno. Se supponiamo che negli Stati Uniti siano commessi ogni anno 900 omicidi da parte della polizia (una stima molto bassa) e che solo un agente sia coinvolto in ciascuna uccisione (una stima ancor più bassa) questo significa che i poliziotti sono condannato lo 0,28 per cento delle volte dopo aver ucciso qualcuno. Meno dell’un per cento. Ma va ancora peggio.
- La NBC riferisce: “Solo tre agentisono stati condannati per omicidio durante questo periodo (dal 2005 al 2019) e hanno visto confermate le loro condanne”. E’ una percentuale di condanne dello 0,024 per cento. A tutti gli effetti gli agenti di polizia possono uccidere con impunità.
Ciò che i poliziotti fanno tutto il giorno
Ora prendiamoci un momento per disilludersi dalle fantasie liberali circa la polizia. La grande maggioranza di ciò che la polizia fa negli Stati Uniti non è andarsene in giro a catturare malfattori come in un episodio di CSI o Law & Order o Die Hard o Starsky & Hutch o tutti gli altri programmi e film televisivi mai prodotti.
- Il professor Alex Vitale segnala in “The End of Policing” che la maggior parte dei poliziotti conclude meno di un arresto per reato l’anno, il che significa che quasi l’intera attività quotidiana di un agente di polizia consiste nello stare in giro e occuparsi occasionalmente di piccoli reati o di nessuno. Questi “reati”, quali vagabondaggio o “arrecare disturbo” sono progettati per semplicemente “immettere persone nel sistema”. Le persone di colore hanno maggiori probabilità di essere arrestate per questi tipi di reato. Una volta “nel sistema” la sentenza per un futuro “reato di vagabondaggio” o per la “nefandezza di suonare musica ad alto volume” può essere molto più lunga.
- Vitale continua: “Ogni investigatore (che costituisce solo circa il 15 per cento delle forze di polizia) passa la maggior parte del proprio tempo a ricevere notizie di reati che non risolverà mai, e in molti casi non saranno mai indagati… La maggior parte dei reati indagati non è risolta”.
- Anziché lavorare più intensamente per risolvere reati maggiori, i nostri dirigenti governativi hanno creato centinaia di “reati” minori a causa dei quali la polizia inchiodi i cittadini. Negli scorsi due decenni c’è stata un’impennata di cose quali dormire in pubblico, mendicare, regalare cibo, “accamparsi” in pubblico e dormire nella propria auto. Leggi come queste servono soltanto a rendere illegali i senzatetto (e illegale aiutarli) e a consentire alla polizia di intervenire, spesso spegnendo vite. (Perché le persone che mendicano spiccioli spesso se la passano troppo comoda).
- Uno studio di New York Cityha rilevato che più della metà di quelli che regolarmente passano attraverso il sistema carcerario erano senzatetto. Qualcuno crede onestamente che agguantare incessantemente senzatetto e accusarli per reati da niente faccia qualcosa per aiutare la nostra società o le persone coinvolte? Il fatto che la maggior parte degli agenti passi la propria giornata a far questo equivale a vigili del fuoco che se ne vadano in giro a innaffiare di acqua sigarette delle persone mentre gli edifici effettivamente in fiamme sono lasciati bruciare. (Altro al riguardo tra un momento).
- Quando ricchi o persino membri della classe media sono colti a commettere la maggior parte di questi piccoli reati sono ignorati dalla polizia o lasciati andare con un ammonimento. Se un operatore di Wall Street in giacca e cravatta fa un pisolo su una panchina, la polizia lo rinchiude? Se un medico o un dentista o un immobiliarista è “colto” a dormire nella sua auto, è portato alla stazione di polizia? No. Questi cosiddetti “reati” servono solo a imporre la struttura di classe e a dare alla polizia un motivo per arrestare i poveri e in non bianchi.
- Nel frattempo i reati veri non ricevono nemmeno un’occhiata. I maggiori reati nella nazione e nel mondo sono spesso legali o, anche se non lo sono, non hanno nulla a che vedere con la polizia. Dirigenti industriali decidono incessantemente di scaricare sostanze tossiche nella nostra acquao di mantenere sugli scaffali talco per bambini quando sanno che contiene amianto o di continuare a vendere un erbicida quando sanno che causa il cancro o di ammannire oppiacei a statunitensi agitati persino mentre i cadaveri si accumulano. In generale, in tali casi nessuno finisce in carcere, nessuno compirà un percorso da delinquente con le manette addosso. E nel caso incredibilmente raro in cui un dirigente di vertice sia rinchiuso, ciò non ha nulla a che fare con il vostro agente medio di polizia.
Progettato per creare reati
Come ha scritto Michelle Alexander, autrice di The New Jim Crow: “Abbiamo bisogno di un sistema efficace di prevenzione e controllo dei reati nelle nostre comunità, ma non è così che funziona il nostro sistema attuale. Questo sistema è meglio progettato per creare reati e una perpetua classe di persone definite criminali”.
- Gli Stati Uniti hanno la più vasta popolazione carceraria del mondo. E se riformuliamo leggermente la frase otteniamo: “Gli Stati Uniti sono il più vasto stato-prigione del mondo”. Ma ai media convenzionali non piace sentire questo e dunque non lo dicono.
- La polizia per certi versi commette più reati dei cittadini medi. La polizia oggi sequestra oggi ai cittadini, via confisca civile di beni, più della quantità di proprietà rubata da criminali di strada in furti d’appartamento.
- I poliziotti spesso proteggono più oggetti inanimati contro i cittadini disarmati che hanno giurato di servire e proteggere. Ad esempio, a Standing Rockle forze dell’ordine hanno fatto saldamente la guardia a un oleodotto contro le persone che di fatto erano proprietarie delle terre che tagliava e bevevano l’acqua che alla fine avrebbe contaminato.
Dunque abbiamo stabilito che la polizia non sta facendo il lavoro che molti pensano che faccia e che uccide una quantità di innocenti agendo contemporaneamente come ronde militari nelle strade della “Terra dei liberi”. Ora passiamo a cosa sia scarsamente addestrata per compiere effettivamente il lavoro che dovrebbe compiere.
- Le accademie di poliziadedicano [in media] 110 ore alle armi da fuoco e alla difesa personale, tuttavia solo otto ore alla gestione dei conflitti. Questo significa, parlando in generale, che la polizia trascorre dodici volte più ore a imparare come sparare e uccidere le persone che non a imparare come NON sparare e uccidere.
- Nella maggior parte degli stati ai parrucchieriè richiesto di avere un addestramento superiore a quello degli agenti di polizia. Persino la CNN ha riferito: “La richiesta minima di addestramento degli agenti di polizia del Michigan è 594 ore. Per lavorare con i segnali elettrici sono necessarie 000 ore di esperienza”.
- L’ex capitano della polizia di Filadelfia Ray Lawisha detto che i dipartimenti di polizia non voglio assumere agenti che siano empatici. E il sito favorevole alla polizia com ha pubblicato articoli che affermano che l’empatia potrebbe essere pericolosa per l’attività di polizia.
- Alcune città non vogliono neppure poliziotti in gamba. In effetti un tribunale nel 2000 ha confermato il diritto dei dipartimenti di polizia di evitare di assumere poliziotti intelligenti… Dunque sì, in alcune città degli Stati Uniti le autorità riempiono attivamente i ranghi dei dipartimenti di persone ottuse che non sono in grado di relazionarsi con la vostra situazione. Ciò suona certamente come l’opposto di quanto si vorrebbe per la disponibilità di una posizione di lavoro che includa l’espressione “armi incluse”.
Radici oscure
E infine dobbiamo chiedere: “Se il nostro sistema di polizia è un modello draconiano, in stile militare, orwelliano usato per consolidare una radicata gerarchia di classe, allora da dove viene fuori? Come siamo arrivati qui?”
- Come dettagliato in “Our Enemies in Blue” [I nostri nemici in (uniforme) blu] il sistema poliziesco statunitense ha avuto origine nelle ronde degli schiavi, che trasformavano le strade delle cittadine in percorsi di pattuglia di quella che è era una forza semi-militare. Dai suoi primi giorni il modello statunitense è stato una tattica razzista per proteggere quelli della classe più elevata dai destituiti e oppressi. I numeri non mentono. Il sistema non è cambiato molto dai quei primi giorni.
Il professor Vitale scrive: “La realtà è che la polizia esiste principalmente come sistema per gestire e persino produrre la disuguaglianza reprimendo i movimenti sociali e gestendo rigidamente i comportamenti dei poveri e non bianchi: quelli dalla parte perdente della composizione economica e politica”.
Questi 19 fatti dovrebbero capovolgere interamente il copione su come vediamo la polizia negli Stati Uniti. Abbiamo bisogno di un modello totalmente nuovo/diverso/più contenuto/meno violento. E ne abbiamo bisogno a partire da 400 anni fa.
da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/19-facts-about-american-policing/
Originale: Consortium News
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2020 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3
http://znetitaly.altervista.org/art/29347
GLI STATI UNITI, COME ISRAELE, ESERCITANO LA VIOLENZA DI UNA POTENZA OCCUPANTE
– Mairav Zonszein – (tratto da: rete Italiana ISM)
Un altro poliziotto bianco ha ucciso un uomo di colore negli Stati Uniti. Dopo oltre due mesi in cui gli spazi pubblici sono stati svuotati dalla pandemia di coronavirus – una malattia che a sua volta ha sproporzionatamente ucciso neri e mulatti nel paese – le strade sono ora piene di persone che rischiano la vita e la sicurezza per chiedere giustizia per George Floyd e tutta la vita nera.
L’uccisione di Floyd a Minneapolis una settimana fa è dolorosamente familiare. Arriva solo due mesi dopo l’omicidio di Breonna Taylor a Louisville. Solo poche settimane dopo la comparsa delle riprese dell’omicidio di Ahmaud Arbery in Georgia. Dopo Eric Garner, Michael Brown, Philando Castille e Tamir Rice. L’elenco continua.
Eppure, questa volta, sembra un momento di resa dei conti. Proteste di massa, sirene, incendi, fumogeni, antisommossa, gas lacrimogeni e coprifuoco riempiono le strade di città come Minneapolis, New York, Oakland, Atlanta, Portland, Louisville e Washington DC. La polizia ha arrestato almeno 1.400 persone in 17 città e le autorità hanno ordinato il coprifuoco in 39 città in 21 stati. Sembra e forse è un’Intifada americana.
Mentre guardo tutto svolgersi, non posso fare a meno di notare i sorprendenti parallelismi tra l’omicidio di George Floyd e gli innumerevoli palestinesi uccisi per mano delle forze israeliane. Scrivo questo come qualcuno che non è né palestinese né nero, ma come giornalista e attivista solidale con entrambe le comunità, che ha assistito a eventi del genere sia negli Stati Uniti che in Israele-Palestina.
Sebbene esistano differenze sostanziali tra i due paesi e le loro circostanze, i meccanismi di violenza e repressione statali alla fine funzionano allo stesso modo. C’è un chiaro “noi” e “loro”. La sensazione che ci sia l’occupante e l’occupato. Se sei palestinese sotto il controllo israeliano, sei un bersaglio. Se sei nero in America, sei un bersaglio. E quando prendi posizione, sei picchiato o eliminato.
In entrambi i paesi, come in molti altri, lo stato esercita una brutale violenza per preservare le disuguaglianze strutturali su cui si regge. Coloro che difendono la dignità delle vite nere negli Stati Uniti, come quelli che stanno con i palestinesi contro le autorità israeliane, si trovano faccia a faccia con le forze armate che svolgono il ruolo di una potenza occupante ostile.
I parallelismi sono diventati ancora più risonanti la settimana scorsa quando, pochi giorni dopo l’omicidio di Floyd, un palestinese di 32 anni con autismo, Iyad al-Hallaq, è stato ucciso dalla polizia di frontiera israeliana nella Città Vecchia di Gerusalemme. Gli ufficiali hanno affermato di credere che avesse in mano una pistola, ma non ce n’era. Quando gli hanno ordinato di bloccarsi, al-Hallaq, per paura, ha corso e si è nascosto dietro un cassonetto. Uno degli ufficiali gli ha sparato più volte, a quanto pare anche dopo che il suo comandante gli ha detto di fermarsi.
Gli omicidi della scorsa settimana, insieme a molti altri, illustrano come nei due paesi si rispecchiano a vicenda le esperienze di discriminazione e brutalità. Ecco solo alcuni di questi punti in comune.
Il potere delle telecamere
L’omicidio di George Floyd è stato ripreso in video da più angolazioni. È il motivo principale per cui le notizie si sono diffuse così in fretta e perché quelli che hanno cercato di spiegare l’incidente hanno fallito. Anche i palestinesi documentano da anni violazioni dei diritti umani da parte degli israeliani, con riprese delle violenze che sono spesso uno dei soli strumenti che possono usare per chiedere giustizia e attirare l’attenzione sulla loro situazione.
L’omicidio di Floyd mi ha ricordato in particolare quando il soldato israeliano Elor Azaria ha ucciso Abdel Fattah al-Sharif, un residente palestinese di Hebron occupato, nel marzo 2016. Sebbene le circostanze fossero diverse, Al-Sharif aveva tentato di pugnalare un soldato – come Floyd, Al- Sharif giaceva inerme sul terreno, non rappresentando alcuna minaccia, quando Azaria lo uccise fatalmente in un omicidio extragiudiziale.
Azaria è stato considerato una mela cattiva da alcuni in Israele, ma è stato difeso da altri della destra. Dopo aver scontato nove mesi di prigione, Azaria è stato liberato e accolto come un eroe da molti israeliani. Nonostante l’enorme tumulto, l’IDF non ha cambiato nulla nella loro condotta in Cisgiordania più di quanto la polizia americana non abbia cambiato nella loro.
Tuttavia, se tali filmati non fossero stati ripresi, molte indagini su agenti di polizia e soldati (non importa quanto futili) non sarebbero state aperte e portate alla conoscenza del pubblico. È per questo che Christian Cooper, un uomo di colore e attento osservatore di uccelli, ha istintivamente tirato fuori la sua macchina fotografica a Central Park a New York la scorsa settimana quando Amy Cooper, una donna bianca, ha chiamato la polizia dopo lui le aveva chiesto di mettere il suo cane al guinzaglio, sostenendo che stava minacciando la sua vita. È per questo che molti palestinesi in Cisgiordania iniziano allo stesso modo le riprese quando affrontano ufficiali israeliani o coloni ebrei, attraverso i loro telefoni personali o telecamere professionali distribuite da gruppi per i diritti umani.
La narrativa sulla violenza
Se non fosse per le proteste scoppiate a Minneapolis, che hanno visto la terza stazione di polizia della città distrutta dalle fiamme, David Chauvin, l’ufficiale di polizia che ha ucciso Floyd, probabilmente non sarebbe stato in custodia in questo momento e accusato di omicidio di terzo grado.
Tuttavia, mentre i luoghi vengono saccheggiati e vandalizzati, la narrativa dei media mainstream si è rivolta contro i manifestanti, sostenendo che sono “criminali” che minano la loro stessa causa. Un New York Times pubblicato da Ross Douthat, ad esempio, ha scoraggiato le rivolte sostenendo che “ciò che la protesta non violenta ottiene, la protesta violenta lo perde”.
Tamika Mallory, un’importante attivista nera che è stata anche profondamente impegnata nel movimento di solidarietà nero per la Palestina, ha dato una commovente risposta a queste narrazioni: “Non parlarci del saccheggio. Siete tutti voi i saccheggiatori … L’America ha saccheggiato i neri. L’America ha saccheggiato i nativi americani quando sono venuti qui per la prima volta. Quindi il saccheggio è ciò che fai, l’abbiamo imparato da te. Abbiamo imparato la violenza da te … Quindi se vuoi che facciamo meglio, dannazione, fai di meglio prima tu. ”
Questa stessa dinamica mediatica esiste in Israele-Palestina. Per decenni Israele ha saccheggiato vite e proprietà palestinesi, privandole dei loro diritti, incarcerandole, razziando le loro città, demolendo le loro case – un’intera infrastruttura di violenza e saccheggio dello stato. Ma quando i palestinesi protestano e reagiscono, vengono accusati di violenti; sono i “terroristi”. Improvvisamente, la violenza di stato diventa invisibile.
Nel frattempo, la stragrande maggioranza dei palestinesi ha continuato a manifestare in modo non violento, anche attraverso il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni. Lo stesso tipo di dimostrazioni sono state condotte da gruppi come Black Lives Matter da Ferguson nel 2014, mentre atleti neri come Colin Kaepernick si sono inginocchiati durante l’inno nazionale contro il razzismo e la brutalità della polizia, un semplice gesto che è stato ancora affrontato con punizione e cdisprezzo. Nessuna forma di protesta è mai abbastanza buona.
Doppio standard verso le proteste
Il doppio standard nel modo in cui le proteste statunitensi vengono trattate dalla polizia americana è sorprendente. Quando lo scorso mese si sono tenute dimostrazioni bianche, di estrema destra e anti-blocco – come quando centinaia di manifestanti armati nel Michigan hanno preso d’assalto un municipio – la polizia non ha sparato gas lacrimogeni o fatto arresti; non hanno nemmeno tirato fuori i loro manganelli.
Al contrario, sulla scia delle proteste della scorsa settimana, i sindaci hanno imposto il coprifuoco e i governatori di diversi stati hanno chiamato la Guardia Nazionale. Mentre i blindati vagano nei quartieri, la polizia ha sparato granate stordenti, gas lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma a Minneapolis e in altre città. I giornalisti hanno anche riferito che almeno 60 incidenti da venerdì sono stati presi di mira dalla polizia, anche se erano identificabili dal casco, dal giubbotto e dal pass per la stampa; una fotografa, Linda Tirado, è stata accecata nell’occhio sinistro da un proiettile di gomma a Minneapolis.
Tutte queste pratiche sono un pilastro dell’occupazione israeliana, tattiche prese dal libro di istruzioni israeliano. L’ordine del coprifuoco di Los Angeles si legge come un ordine di zona militare chiusa dell’IDF. Gli arresti e gli attacchi ai giornalisti per aver svolto il loro lavoro, cosa che accade raramente negli Stati Uniti, è frequente in Palestina.
La risposta contraddittoria dello stato è palese anche in Israele-Palestina. Quando i palestinesi protestano, vengono spesso picchiati, arrestati o colpiti con armi da fuoco, e quelli arrestati lanciando pietre possono essere inviati in prigione per anni. Gli ebrei israeliani, nel frattempo, di solito possono protestare in modo relativamente libero, raramente devono temere l’arresto o la repressione – la principale eccezione sono gli ebrei etiopi, che sono stati ripetutamente brutalizzati dalla polizia per aver protestato contro la discriminazione e la violenza dello stato.
Gli Stati Uniti certamente non hanno imparato tutti i propri metodi repressivi da Israele, ma ci sono molte connessioni dirette. Negli ultimi anni, le forze dell’ordine americane a livello federale, statale e locale hanno tenuto corsi di formazione in Israele su programmi di scambio sponsorizzati da gruppi come la Anti-Defamation League, molti dei quali incentrati sulle tattiche antiterrorismo usate dai militari israeliani. Gruppi come Jewish Voice for Peace hanno fatto una campagna per porre fine a questi programmi di scambio proprio perché rafforzano i metodi e la mentalità di una forza occupante.
Anche l’ipocrisia dei gruppi che sponsorizzano questi scambi di polizia è sorprendente. Il CEO di ADL Jonathan Greenblatt, ad esempio, ha rilasciato una dichiarazione di solidarietà con la comunità nera in seguito all’assassinio di Floyd, riconoscendo che sono soggetti a un “sistema razzista e ingiusto”. Greenblatt, che frequentemente commenta gli affari israeliani, deve ancora condannare l’uccisione di al-Hallaq o fare un’analoga osservazione sul “sistema razzista e ingiusto” di Israele.
Impunità di polizia e dei militari
La polizia di Minneapolis è nota per aver rifiutato di rimuovere i cattivi ufficiali o di adottare riforme; l’ufficiale che ha ucciso Floyd, David Chauvin, aveva ricevuto 18 precedenti denunce contro di lui. A New York City – dove i poliziotti hanno aggredito i neri per allontanamento sociale durante la pandemia – negli ultimi quattro anni sono state presentate circa 2.500 denunce di parzialità contro gli agenti del NYPD; la polizia ha ritenuto ogni caso non valido.
Allo stesso modo, i soldati e la polizia israeliani vengono raramente consegnati alla giustizia per aver ucciso o danneggiato i manifestanti palestinesi. Ad esempio, durante la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, iniziata nel marzo 2018, solo un soldato israeliano è stato processato per aver sparato e ucciso un bambino palestinese chiaramente disarmato durante le proteste di massa ed è stato condannato a un solo mese di prigione.
Altri soldati che hanno sparato gas lacrimogeni e proiettili letali alle proteste in Cisgiordania raramente vengono processati. Il soldato che ha ucciso l’attivista palestinese Bassem Abu Rahmeh, sparando un candelotto di gas lacrimogeno al petto durante una protesta a Bil’in nel 2009, non è mai stato accusato. Oltre un decennio dopo, nessuno è stato ritenuto responsabile della sua morte.
Per ora, George Floyd sembra aver evitato il destino di Abu Rahmeh, dato che il suo assassino Chauvin sembra destinato a subire un processo per il suo crimine. Ma non c’è ancora nulla che garantisca che Chauvin dovrà affrontare una giustizia significativa, né che altri violenti agenti di polizia debbano affrontare le stesse conseguenze. Fino ad allora, l’America continuerà a vedere molte rivolte simili.
CONTRASTO AL RAZZISMO ISTITUZIONALE
– Jack Rasmus –
Una settimana fa a Minneapolis, davanti agli occhi di tutti, un nero, George Floyd, è stato assassinato da un poliziotto, Derek Chauvin. Proteste sono esplose in quasi cento città statunitensi e anche nel mondo e proseguono ormai da più di una settimana.
Assassinii di neri da parte della polizia non sono una novità. Sono endemici. Dunque perché le intense, diffuse e sostenute proteste questa volta?
Certamente la natura di questo particolare omicidio spiega in larga parte le proteste e le reazioni particolarmente rabbiose. Ma non è l’intera spiegazione. Giovani di ogni colore, razza ed etnia sono guidando le dimostrazioni.
Un’uccisione sadica, spietata e intenzionale
L’uccisione di George Floyd è stata un assassinio poliziesco particolarmente abominevole. E’ stato chiaramente intenzionale. E’ stato spietato. E’ stato sadico. Mentre il mondo guardava, Floyd è stato ammanettato, faccia a terra sulla strada, implorante per la sua vita. E più implorava, più Derek Chauvin, il poliziotto, pareva determinato e accanito, intento a mantenere il suo ginocchio sul collo di Floyd. Nei primi sei minuti, Floyd implorava per la sua vita, persino pietosamente chiamando sua madre alla fine, una chiara indicazione che sentiva avvicinarsi gli ultimi momenti della sua vita. Ma per quasi altri tre minuti il ginocchio di Chauvin è rimasto dopo che Floyd aveva già perso conoscenza.
Ciò che infuria coloro che hanno osservato di più l’assassinio è stata la mancanza di pietà mostrata da Chauvin e dai suoi tre colleghi agenti complici. Quella che hanno mostrato è stata chiaramente un’intenzione di uccidere. Chauvin è sembrato quasi provare piacere nel mantenere il suo ginocchio sul collo di Floyd per altri tre minuti dopo che questi giaceva immobile. Ciò lo ha reso un assassinio particolarmente sadico.
Ha suggerito a chi ha visto il video, specialmente ai neri, che la polizia nel 2020 non mostrerà alcuna pietà. Implorate quanto volete per la vostra vita una volta ammanettati, inermi, faccia a terra nella polvere. Vi uccideranno comunque. E apparentemente godranno nel farlo!
L’atto dell’omicidio è stato seguito da un’altra tipica serie di eventi, anch’essi che si verificano troppo spesso oggi negli Stati Uniti: la polizia di Minneapolis e l’ufficio del procuratore distrettuale (DA) della città hanno tergiversato ed esitato nell’agire, reagendo soltanto quando sono scoppiate le proteste. Tale ritardo ha suggerito che era in corso un tipico insabbiamento, quale è tanto spesso la reazione delle autorità locali in casi simili.
C’è un grosso problema oggi negli Stati Uniti: le profonde relazioni che esistono tra la polizia e gli uffici dei DA. Entrambi ‘si grattano la schiena a vicenda’, come dice il motto: il DA dipende dalla testimonianza della polizia per ottenere condanne in tribunale; a loro volta i DA ci vanno leggeri e aiutano a proteggere la polizia in cambio delle sue testimonianze favorevoli. Sindacati della polizia forniscono frequentemente considerevoli donazioni ai candidati a Procuratore Distrettuale che li favoriscono, creando una specie di ‘conflitto d’interessi’ politico da parte dei DA. Gli uffici dei medici legali svolgono un ruolo di contributo, fornendo qualsiasi risultato di autopsia necessario per sostenere il DA. Gran Giurì attentamente selezionati, nel caso le contestazioni legali di un omicidio arrivino fino a loro, avallano poi le loro congiunte, mutue coperture. E’ un’intesa istituzionale che troppo spesso distorce la procedura del giudice.
Dunque non si tratta solo di un occasionale poliziotto razzista. Si tratta di razzismo istituzionalizzato. Uno schema che si ripete in continuazione. E’ anche di questo che i contestatori dell’omicidio di Floyd si rendono conto e contro cui dimostrano. Lo hanno visto in precedenza. Ripetutamente.
I neri sanno oggi che implorare per la propria vita quando prossimi a essere assassinati – come chiedere giustizia dopo il fatto – più spesso che no incontrerà orecchie istituzionali sorde quando si tratta di brutalità della polizia. Nessuna pietà e nessuna giustizia fanno parte dello stesso pacchetto razzista istituzionalizzato.
Proteste come atti di solidarietà
Le immediate e sempre più rabbiose proteste che sono seguite all’assassinio di George Floyd non sono dovute unicamente all’omicidio poliziesco di Floyd. I media vorrebbero che lo pensaste. Si tratta solo dell’omicidio di Floyd e della brutalità della polizia. I politici vorrebbero che lo pensaste. Tutti quei leader che sollecitano alla calma e al dialogo vogliono che lo pensiate.
Floyd può essere stato ucciso in nove minuti. Ma molti giovani negli Stati Uniti oggi, specialmente ma non solo giovani di colore, sentono che le loro vite sono lentamente e costantemente prosciugate quotidianamente, risucchiate dall’iniquità e dall’ingiustizia del “sistema”. Sentono che il sistema – un sistema capitalista che premia sempre più i ricchi e ignora il resto come mai prima nella storia – ha il ginocchio anche sui loro colli. E tale sistema, quel ginocchio, non è meno implacabile, non mostra nessuna pietà, e non ha intenzione di allentare la pressione.
Giovani lavoratori di ogni colore sanno oggi che le loro vite sono distrutte più insidiosamente, passo dopo passo, anno dopo anno, mentre lottano per sopravvivere: licenziati e passando da un lavoro sottopagato all’altro, accumulando un debito schiacciante su altro debito, privi di minimi benefici sanitari, trasferiti da un appartamento all’altro mentre gli affitti sono continuamente aumentati, senza speranza di avere una normale vita familiare, di rimborsare mai i debiti per gli studi, in effetti dovendo vivere una forma di apprendistato economico del ventunesimo secolo, una cittadinanza di seconda o persino terza classe, mentre vedono multimilionari e miliardari aumentare quasi esponenzialmente la loro ricchezza.
In solo gli ultimi tre anni sotto Trump le imprese hanno registrato profitti record, a ricchi investitori e all’un per cento sono stati concessi tagli fiscali per 4,9 trilioni di dollari e 3,4 trilioni di dollari in riacquisti di azioni e distribuzioni di dividendi. Mentre i ricchi e le loro imprese diventano più ricchi, il resto deve arrangiarsi con salari stagnanti o in calo, facendo due o tre lavori e con una costante perdita di lavoro e di ricambio.
Tutti quei manifestanti nelle strade la scorsa settimana – virtualmente tutti giovani – non stanno dimostrando solo contro l’assassinio di Floyd e il razzismo istituzionalizzato. Quella è la punta dell’asta della protesta. Ma è più di questo. E’ più profondo di così. Ci sono una frustrazione e una disperazione più grave dietro a tutto questo, che colpiscono specialmente decine di milioni di statunitensi giovani.
I giovani dimostranti hanno guardato Floyd e hanno visto sé stessi. Le proteste sono dunque un’eruzione di solidarietà sociale tra vasti segmenti della gioventù statunitense! Non solo tra giovani neri e di minoranze ma di giovani statunitensi in generale. Guardate la composizione dei dimostranti una città dopo l’altra. Sono prevalentemente millennials e Generazione Zeta di ogni razza, etnia e genere che sentono di essere stati lasciati indietro dal “sistema”. Esclusi e dichiarati sacrificabili. Sono virtualmente tutti giovani della classe lavoratrice. Quello che le proteste dimostrano è che Classe e Razza si stanno unendo! Specialmente tra i giovani.
Temono la brutalità della polizia, specialmente i neri e i giovani di colore. Ma temono anche di essere condannati a una vita di lavoro a tempo parziale e determinato sottopagato, senza indennità, insicuro e senza futuro. Facendo due e persino tre lavori raffazzonati solo per tirare avanti.
E oggi, con l’avvento della pandemia del coronavirus, persino quei lavori nei servizi, prevalentemente sottopagati, sono stati spazzati via dal virus e dal recente crollo economico, molti dei quali, sentono non torneranno presto o addirittura per nulla. L’Ufficio del Bilancio del Congresso oggi, 2 giugno 2020, ha annunciato che probabilmente ci vorranno dieci anni perché tornino i posti di lavoro ora persi e molti non torneranno per nulla! Non ci sarà alcuna rapida ripresa a V. La forma sarà a W, estesa su un decennio o più, con periodiche brevi e deboli riprese, seguite da ripetute ricadute e recessioni, che ci siano o no successive ondate del virus. Il dado economico è gettato. L’economia statunitense (e quella globale) è entrata in una fase di lungo, cronico declino.
Ciò di cui i dimostranti non si rendono ancora conto, ma presto lo faranno, è che altri dei loro lavori sottopagati senza futuro stanno per essere spazzati via dalla rivoluzione in arrivo dell’Intelligenza Artificiale (AI) e dall’automazione ora rampante. Secondo McKinsey Consulting la AI eliminerà il 30 per cento di tutte le occupazioni nei prossimi da cinque a dieci anni. Persino i loro lavori sottopagati, senza futuro nei servizi saranno eliminati.
Si aggiungano a tutto quanto precede le paure per la crisi climatica in peggioramento che i giovani dimostranti sanno che dovranno attraversare. E a ciò la crescente consapevolezza pubblica di una crisi politica in aggravamento negli Stati Uniti, mentre la nazione scivola nella tirannia spinta dall’ala trumpiana dell’élite politica statunitense.
Gli USA sono entrati in una “crisi tripla”: assistenza sanitaria & ambiente; occupazione ed economia; e una crescente crisi politica di democrazia negli stessi Stati Uniti. I dimostranti lo sanno. Lo avvertono e lo sentono e sono sempre più frustrati, arrabbiati e disperati. La gioventù negli Stati Uniti sta diventando sempre più disperata. Tutto quell’”innesco di una crisi sociale” sta alimentando le proteste. La brutalità della polizia, il razzismo istituzionale e l’omicidio sono solo le scintille che hanno incendiato il tutto. Non si tratta più di George Floyd.
CHE COSA FARE? ALCUNE PROPOSTE
Dunque quali le soluzioni? All’aggravamento degli assassinii polizieschi; ai provocatori suprematisti bianchi che sono intenti a scatenare una guerra razziale (come dicono nelle loro stesse parole; ai saccheggiatori delle sottoclassi che predano approfittando delle proteste e delle dimostrazioni; al razzismo istituzionalizzato locale? Che cosa si può fare?
Non è più accettabile dire, come dichiarano quotidianamente le élite di entrambi i partiti e i loro media, che i dimostranti dovrebbero restare calmi, andarsene a casa, e dialoghiamo riguardo a come riformare la polizia. Ciò è già stato fatto in passato. Molte volte. Con scarsi risultati. E’ ora che neri, dimostrati e contestatori nelle strade oggi sviluppino proprie soluzioni indipendenti al problema della brutalità della polizia.
Ci sono tre iniziative generali che potrebbero essere intraprese immediatamente per contrastare il razzismo istituzionale negli Stati Uniti che ci dà quotidianamente assassinii di George Floyd:
- Spezzare il legame di ferro tra i Dipartimenti di Polizia e gli Uffici dei Procuratori Distrettuali.
- Lanciare un movimento nazionale di “Polizia della Polizia”.
- Creare “Comitati di Sicurezza” comunitari locali.
Al centro del razzismo istituzionale c’è la relazione tra i dipartimenti locali di polizia e i Procuratori Distrettuali. La polizia fa affidamento sui DA per soffocare, ritardare e disinnescare indagini e azioni penali contro poliziotti che hanno attuato brutalità e omicidi contro neri e altre minoranze. I DA, a loro volta, dipendono dalle testimonianze della polizia in cause giudiziarie per essere in grado di vincere i loro casi e promuovere le proprie carriere personali. In cambio dell’assistenza della polizia i DA vanno leggeri con i poliziotti accusati di brutalità. Sapendo di essere coperti, i poliziotti si sentono più inclini a sparare per primi e a non preoccuparsi delle conseguenze. E’ una mentalità da “gratta la mia schiena, che io gratto la tua” che permea entrambe le istituzioni – dipartimenti di polizia e uffici dei DA – quasi dovunque oggi negli Stati Uniti.
Gli uffici dei medici legali svolgono un ruolo secondario ma importante nel processo quando c’è di mezzo un omicidio. Assistono il DA rappresentando una decisione sulla causa della morte che convenientemente distragga dall’azione poliziesca in questione. Il defunto è morto di un attacco cardiaco e aveva problemi di cuore antecedenti è spesso la causa ufficiale di morte. Non si è trattato di soffocamento dell’imputato da parte della polizia. E’ stato un attacco di cuore che si sarebbe verificato indipendentemente dalla presa soffocante. Il tizio aveva un cuore malato o qualche altra condizione sottostante è stata la causa della morte, non la tattica impiegata dalla polizia.
Un altro protagonista istituzionale nella farsa è spesso un Gran Giurì locale. Questa istituzione arcaica non è nulla di simile a una “giuria” reale, anche chiamata così. E’ un gruppo selezionato spesso favorevole alla polizia e di cosiddetti “cittadini onesti”, intendendo più spesso che no conservatori bianchi orientati agli affari. Gran Giurì spesso decidono di rigettare accuse, dando al DA la copertura per non procedere all’azione penale. Se il DA dovesse procedere comunque, le accuse sarebbero ridotte da omicidio a qualcosa di meno in base alle raccomandazioni inferiori del Gran Giurì. Se condannato, la pena del poliziotto in questione è spesso ridotta al solo licenziamento. Ma poi ha titolo a trasferirsi a un altro dipartimento di polizia e a essere riassunto. I dipartimenti di polizia hanno spesso un’intesa tacita di riassumere le “mele marce” gli uni degli altri. Così un poliziotto con una lunga storia di violenze contro neri e minoranze continua a lavorare da qualche parte “più avanti”. Non è diverso dalla chiesa cattolica che si limita a trasferire qualche prete pedofilo in un’altra parrocchia.
Spezzare il legame di copertura tra polizia e procuratore distrettuale
- A DA locali deve essere vietato di procedere penalmente contro poliziotti locali in casi di brutalità e omicidi collegati al razzismo. La responsabilità dell’azione penale deve essere trasferita a una fonte indipendente esterna alla contea o alla città.
- Ai sindacati e alle organizzazioni della polizia deve essere vietato di contribuire alle campagne elettorali dei DA.
- I medici legali dovrebbero essere scelti dalle famiglie della parte uccisa per garantire imparzialità.
- I Gran Giurì dovrebbero essere aboliti, specialmente e cominciando dai casi che implicano brutalità e uccisioni da parte della polizia.
- A un poliziotto licenziato per una causa relativa a brutalità razziste dovrebbe essere impedito di essere riassunto da un altro dipartimento di polizia altrove.
Lancio di un movimento nazionale di “Controllo della polizia”
- Dovrebbe essere lanciato un movimento di “Controllo della polizia”. Ogni volta che un poliziotto affronti e fermi qualcuno, il pubblico dovrebbe usare cellulari o altri mezzi fotografici per registrare l’interazione. Questo è oggi fatto per caso e occasionalmente. Dovrebbe esserci uno sforzo generale di educazione a livello nazionale di coinvolgere tutti nella pratica di registrare in video poliziotti ogni volta che assistono a un’interazione della polizia con qualsiasi cittadino.
- Dovrebbe essere creato un archivio nazionale indipendente di fotografie e registrazioni video di scontri.
- Dovrebbe essere avviata anche una campagna di istruzione pubblica che incoraggi il pubblico a inviare immediatamente tutti i video all’archivio nazionale indipendente.
- L’archivio pubblico dovrebbe essere accessibile a tutti in rete.
Creazione di ‘Comitati di Sicurezza’ comunitari locali
- Tutte le città dovrebbero creare ‘Comitati di Sicurezza’ comunitari locali per controllare la polizia, raccogliere informazioni su sconti e rendere le informazioni disponibili al pubblico generale.
- I Comitati dovrebbero organizzare proteste e dimostrazioni e coordinarsi con altri Comitati esterni all’area locale per organizzare proteste e dimostrazioni più vaste.
- Durante le proteste e le dimostrazioni i membri del Comitato dovrebbero occuparsi del compito di identificare, contrastare e sradicare i provocatori. E distribuire volantini fotografici di suprematisti bianchi e provocatori noti ai partecipanti alle proteste e dimostrazioni.
- I Comitati di Sicurezza dovrebbero pubblicizzare alla comunità in generale gli identificati come saccheggiatori durante proteste e dimostrazioni.
- I Comitati dovrebbero sostenere e far correre candidati a consigli comunali, amministratori cittadini, DA e giudici eletti localmente che siano impegnati e sostenitori di Black Lives Matter e di altri gruppi di minoranza per i diritti civili.
- Comitati dovrebbero avanzare richieste di modifiche di ordinanze locali e di leggi statali per proteggere i diritti dei dimostranti e organizzare votazioni di revoca di politici che non lo facciano.
- I comitati dovrebbero avviare altre misure secondo necessità per garantire la sicurezza dei dimostranti da provocatori, violenze di suprematisti bianchi e altri fautori della violenza contro persone o proprietà durante manifestazioni.
Molte di queste proposte non sono nuove. Altre sono avanzate oggi dai dimostranti. Ma il punto è che le proteste e dimostrazioni dovrebbe essere portate al livello organizzativo successivo. Non possono proseguire come semplici eventi spontanei. Senza organizzazione alla fine evaporeranno. O saranno preda di provocatori e saccheggiatori. O manipolate da politici a fini di elezione o carriera personale. O tutto questo.
Senza organizzazione il movimento “I Can’t Breathe’ [Non riesco a respirare] antirazzista e contro la brutalità della polizia che ha spazzato il paese corre il rischio di svanire alla fine, proprio è successo ad altri promettenti movimenti popolari come ‘Occupy’ nel 2011 e i ‘Gilet Gialli’ in Francia di qualche anno fa. Senza organizzazione i provocatori e saccheggiatori allontaneranno i dimostranti dai media offrendo copertura alla reazione “legge e ordine” della destra che userà la violenza per reprimere le dimostrazioni introducendo ancora altre restrizioni ai diritti civili di libertà di assemblea ed espressione. Né la polizia e i politici libereranno le proteste da provocatori e saccheggiatori. I dimostranti devono farlo da sé. Ma ciò non può essere fatto senza organizzazione.
L’altro rischio, persino maggiore, in assenza di organizzazione, è che politici convenzionali dirotteranno l’energia e la rabbia dei dimostranti in canali per farsi eleggere.
L’organizzazione è necessaria anche semplicemente per ampliare e costruire proteste e dimostrazioni e per assicurare che proseguano con un’affluenza sempre più vasta.
Creare ‘Comitati di Sicurezza’ comunitari locali è l’elemento organizzativo chiave necessario per costruire il potere organizzativo delle proteste e dimostrazioni. Avviare un movimento di ‘controllo della polizia’ è un modo per collegare i ranghi generali dei dimostranti – e il pubblico in generale – al lavoro di Comitati di Sicurezza. E i Comitati e il movimento pubblico di Controllo della Polizia sono insieme i mezzi mediante i quali attaccare in modo politicamente indipendente il razzismo istituzionalizzato radicato oggi nelle relazioni tra dipartimenti di polizia, procuratori distrettuale, medici legali e Gran Giurì.
Abbattere il razzismo istituzionale richiede un movimento politico indipendente, con una struttura organizzativa radicata nella base. Tale movimento indipendente è oggi nelle strade degli Stati Uniti. Porterà il movimento al livello successivo, un livello necessario per abbattere le radicate istituzioni locali del razzismo?
da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/confronting-institutional-racism/
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2020 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3
http://znetitaly.altervista.org/art/29339
Il diritto di respirare. Nel nome di George Floyd
– Marie Moïse –
George Floyd è morto soffocato ieri a Minneapolis sotto al ginocchio di un poliziotto che lo teneva fermo mentre l’uomo in arresto con il poco fiato rimasto ha provato a chiedergli di lasciarlo respirare: «I can’t breathe».
Floyd è stato fermato per un controllo mentre era alla guida, ma era nero e tanto basta per trasformare un contatto con la polizia in una condanna a morte. Anche questo ennesimo omicidio poliziesco a sfondo razziale sarà derubricato a «incidente» a opera di una mela marcia. E ogni reazione allo stato di cose verrà punita come «violenza».
Lo abbiamo visto con Michael Brown a Ferguson, Trayvon Martin a Sanford, Eric Garner a New York, il cui ultimo appello al respiro ha rimbalzato sui social network, gli striscioni e le manifestazioni oceaniche affianco alle parole d’ordine che hanno dato corpo al movimento di #BlackLivesMatter. Ma lo abbiamo visto anche in Francia con Adama Traoré morto asfissiato poche ore dopo il suo arresto (per aver rifiutato di mostrare i documenti), seguito dalla carcerazione dei suoi fratelli per aver animato la protesta. E ancora, con l’affaire Théo, stuprato con un manganello durante un controllo di polizia nelle periferie di Parigi, passato in giudicato come uso legittimo e proporzionato della forza. E lo abbiamo visto anche in Italia, con Vakhtang Enukidze, morto durante un pestaggio della polizia mentre era rinchiuso dentro al Cpr di Gradisca lo scorso gennaio. Dei 14 morti nelle rivolte in carcere all’inizio della pandemia, quasi tutti stranieri, ancora non ci è dato sapere, ma a quanto pare ci dobbiamo accontentare della versione di un’overdose di massa o di un disegno di stampo mafioso.
Il razzismo filtra ogni percezione umana, a partire dal nostro presunto automatismo a distinguere tra una persona nera e una bianca, facendo di ogni Nero un pericolo e di ogni gesto del Bianco verso di lui un atto di «legittima» difesa. Come scrive Colette Guillaumin ne L’idéologie raciste, è la costruzione della differenza razziale a plasmare ogni nostra percezione, visiva in particolare, e che ci permette di fare distinzioni «fisiche» (chiamiamole più precisamente «razziali») e di porle come oggettive, immediate, autoevidenti. Ed è sulla base di questa immediata «schematizzazione razziale delle percezioni» – per dirla con Judith Butler e Elsa Dorlin – che si definisce allo stesso tempo la produzione di ciò che viene percepito e ciò che significa percepire.
Il corpo di Floyd, nel momento in cui è percepito come nero è già pericoloso, già da disarmare, già aggredibile per diritto. E ogni gesto di autodifesa del Nero, non può che essere percepito come riprova della sua natura violenta e aggressiva, da cui «legittimamente» difendersi. Ogni suo appello alla vita è inascoltato per definizione – Floyd non respirava, ma il poliziotto non si è preoccupato nemmeno per un attimo che potesse davvero morire – perchè dai tempi della schiavitù la vita – e la morte – del Nero dura solo fino a che non può essere rimpiazzata con la successiva. È in particolare il corpo del nero uomo che ricade in questo schema percettivo, quello di una maschilità bruta e bestiale, antitetica all’unica riconosciuta, ovvero quella che crea l’associazione immediata tra maschio bianco e essere umano e che fa del nero un non-maschio e quindi non-umano. Un processo di deumanizzazione per devirilizzazione, o meglio ipervirilizzazione.
Ieri a Minneapolis, nel giro di poche ore una massa di persone si è riversata in strada a chiedere giustizia. C’è una risposta spontanea dal basso che non sta ferma a guardare, ma prende immediatamente posizione, di fronte all’abuso e si stringe attorno alla famiglia di Floyd, o meglio alle donne della famiglia di Floyd che piangono l’ennesimo uomo della comunità nera rimasto letteralmente schiacciato sotto al peso del suprematismo bianco. Come scrive l’attivista e docente Keeanga-Yamahtta Taylor le donne nere sono al cuore dei movimenti antirazzisti e contro la violenza della polizia negli Stati uniti dai tempi del movimento contro il linciaggio promosso dalla tenacia di Ida B.Wells. Questo non solo perché vittime esse stesse della violenza suprematista, ma anche in virtù dell’effetto devastatore che la violenza della polizia, colpendo gli uomini in particolare, riversa sulle loro vite, sulle famiglie e comunità nere di cui si trovano a essere le responsabili.
Ma c’è qualcosa che allo stesso tempo mi solleva e mi turba nelle immagini di protesta di ieri. È stata una presa di posizione, politica e fisica, che si afferma nello spazio pubblico a cui la pandemia ci ha costretto per diverso tempo a rinunciare. Quella folla mi solleva ma mi turba, perchè quelle mascherine a coprire naso e bocca di ogni manifestante rendono ancora più sordo il grido di Floyd, morto soffocato, mentre il mondo si fermava per sconfiggere il virus che ha generato una crisi respiratoria globale.
In un poetico pezzo del mese scorso il filosofo Achille Mbembe scriveva di come il Covid-19 abbia fatto emergere un elemento inquantificabile e che travalica ogni presupposto confine tra le forme del vivente: la centralità del respiro. Un gesto originario, l’atto vitale per eccellenza, che immette in una relazione primaria il corpo con il suo essere nel mondo che la stessa attività umana, distorta e deviata dall’oppressione sociale e dallo sfruttamento delle risorse in tutte le sue forme, ha distrutto, inquinato, strozzato. Con le scorie della produzione inquinante e intensiva, con il disboscamento, con le epidemie che hanno devastato il Sud del mondo negli scorsi decenni, con le carenze dei sistemi sanitari. «Prima di questo virus l’umanità era già minacciata di soffocamento», scrive Mbembe. E come abbiamo visto in questi mesi sono state proprio le categorie sociali più fragili ad aver esposto maggiormente la vita a questa pandemia, i Neri negli Stati uniti in primis.
«Se guerra ci deve essere – scrive sempre Mbembe – dev’essere non contro un virus in particolare ma contro tutto ciò che condanna la maggior parte dell’umanità all’arresto prematuro del respiro, contro tutto ciò che attacca le vie respiratorie, contro tutto ciò che nella lunga durata del capitalismo avrà confinato ampi segmenti della popolazione e razze intere a una respirazione difficile, affannata, a una vita pesante. Ma per uscirne bisognerà iniziare a comprendere la respirazione al di là dei suoi aspetti biologici, come ciò che ci accomuna e, che per definizione, sfugge a ogni calcolo. In tal modo stiamo evocando un diritto universale al respiro».
La storia della conquista dei diritti è una storia di conflitti, vinta da chi fino al giorno prima veniva fatto passare per violento o per minaccia dell’equilibrio sociale. Frantz Fanon scriveva che i dannati della terra non si sono ribellati perché hanno fatto un salto di coscienza intellettuale, ma «perché “semplicemente” gli era diventato impossibile respirare». Forse, per questo diritto all’aria che ci tiene in vita, è giunto il momento di entrare in conflitto. Nel nome di tutti i George Floyd che lo hanno rivendicato fino all’ultimo respiro.
https://jacobinitalia.it/il-diritto-di-respirare-nel-nome-di-george-floyd/
Floyd, Minneapolis e noi. I numeri di una sconfitta collettiva
Analisi di Yeshimabeit Milner, direttrice esecutiva di Data for Black Lives
Noi di Data for Black Lives siamo infuriati per l’omicidio di George Floyd da parte della polizia a Minneapolis. Ci uniamo ad altre organizzazioni nel sollecitare il procuratore distrettuale di Hennepin affinché accusi immediatamente gli ufficiali che hanno ucciso George Floyd. Riteniamo che sia necessario sostenere le richieste di rimuoverne i fondi e abolire la polizia per come è. Ma non ci si può fermare qui. Dobbiamo riconoscere che l’omicidio per mano delle forze dell’ordine è solo una delle forme di violenza tollerate dallo stato.
La polizia è un sottoprodotto di sistemi più grandi, più insidiosi, ma spesso meno visibili. La polizia esiste per proteggere il capitale bianco e rafforzare le condizioni economiche e politiche già esistenti. Sappiamo che quando vediamo pratiche aggressive da parte della polizia, dietro ci sono forme più brutali di disuguaglianza economica e sociale.
Dal 2000, la a polizia di Minneapolis – St Paul ha ucciso 49 persone. Di queste, il 25% era nero. Onoriamo i ricordi di tutti coloro la cui vita è stata interrotta a causa di un omicidio compiuto dallo stato. Ecco alcuni dei loro volti. Per rispetto dei morti e delle loro famiglie, non abbiamo incluso le immagini di molte persone che erano state uccise, poiché le uniche foto disponibili nel database sono foto segnaletiche.
Non aspetteremo un’altra tragedia per essere solidali con le comunità nere di Minneapolis, delle Twin Cities e dello stato del Minnesota. Perché per i neri di tutta l’America, la recente tragedia di Minneapolis e le ingiustizie che i neri del Minnesota affrontano da anni sono una metafora del nostro mondo.
Data for Black Lives è un movimento di scienziati e attivisti che lavorano per rendere i dati uno strumento di cambiamento sociale, anziché un’arma di oppressione politica. Sin dall’inizio di Data for Black Lives, uno dei principali obiettivi del mio lavoro come direttrice esecutiva è stato quello di imparare dai leader delle città di questo paese che lavorano nelle trincee delle condizioni più opprimenti. Attraverso il nostro programma di hub, conferenze e altre attività trovo il modo per sostenere e amplificare la loro leadership a livello nazionale e globale.
Ho avuto l’opportunità di viaggiare verso le Twin Cities – scoprendo cosa significasse vivervi da neri, latini o nativi – dopo che i funzionari eletti della Contea di Ramsey hanno annunciato un accordo sulla condivisione dei dati sui poteri congiunti che avrebbe aggregato i dati tra le diverse agenzie per creare “rapporti di rischio” che sarebbero stati usati sugli studenti.
Gli attivisti temevano che sarebbe diventato l’algoritmo che avrebbe portato le persone dalla culla alla prigione. I leader della comunità sapevano che i rapporti di rischio avrebbero solo rafforzato la disuguaglianza razziale esistente da molto tempo, in una città che si colloca tra le prime del paese per disparità razziali. La campagna ha portato a una vittoria: la coalizione, ora conosciuta come l’organizzazione Data for Public Good, ha costretto il sindaco e altre agenzie a sciogliere l’accordo.
Ora il mondo intero è testimone delle condizioni materiali affrontate dai neri del Minnesota. Una confluenza di fattori sociali, politici ed economici: politiche messe in atto molto tempo fa hanno minato l’umanità e negato la dignità dei neri, relegando intere comunità allo status di casta inferiore.
Ho appreso dai leader neri del “Minnesota Nice”, un termine che descrive la cordialità e l’avversione allo scontro che molti Minnesotani sostengono, una gentilezza che è stata anche efficace nel mascherare l’ostilità dei sentimenti razziali e nel negare l’esistenza del razzismo strutturale.
Molte persone in tutti gli Stati Uniti vedono Minneapolis e St. Paul come liberal e slegate dalla storia di razzismo che caratterizza il sud. Ma i dati raccontano una storia diversa¹:
- I neri di Minneapolis hanno quattro volte più probabilità dei bianchi di vivere al di sotto della soglia di povertà
- Le famiglie nere a Minneapolis guadagnano 34.174 dollari all’anno, il 43,4% della media di una famiglia bianca e 4.000 dollari in meno rispetto alla media delle famiglie nere a livello nazionale
- Le persone nere hanno maggiori probabilità di essere incarcerate e hanno probabilità sproporzionate di subire brutalità da parte della polizia.
- Solo il 24% dei neri è proprietario delle proprie case a Minneapolis, rispetto al 74% dei bianchi
- Il tasso di disoccupazione dei neri è quasi quattro volte superiore al tasso di disoccupazione dello stato.
Mentre i neri di Minneapolis sono stati ridotti allo status di casta inferiore, le comunità bianche hanno prosperato. Mentre i residenti bianchi dell’area metropolitana delle Twin Cities stanno meglio degli americani bianchi a livello nazionale in una serie di valutazioni, la popolazione nera della zona è messa peggio in parecchi parametri rispetto alla popolazione nera a livello nazionale. La tipica famiglia bianca a Minneapolis guadagna 78.706 dollari all’anno, oltre 17.000 dollari in più rispetto alla cifra nazionale, mentre i neri in Minnesota guadagnano 4.000 dollari in meno rispetto ai neri negli altri stati.
Ciò è inaccettabile considerando la ricchezza dello stato e l’abbondanza di opportunità disponibili nelle città gemellate, opportunità che sono state abitualmente negate ai neri.
Lo stato del Minnesota è il decimo stato più ricco dell’intera nazione (ospita 6 miliardari e la regione metropolitana Minneapolis St. Paul è la tredicesima economia del paese in base al PIL³). Il Minnesota è anche uno degli stati con il maggior numero di sedi principali di aziende elencate tra le 500 più ricche della rivista Fortune. Tra queste Target, Best Buy, Cargill, General Mills e United Health⁴.
Nel frattempo, un abitante nero del Minnesota su tre ha presentato domanda di disoccupazione dall’inizio della crisi COVID-19⁵, mentre un numero relativamente basso di lavoratori bianchi ne ha fatto richiesta, rivelando quali comunità stanno vivendo peggio la crisi economia da pandemia.
Jim Crow del Nord
Come è potuto accadere che i neri di Minneapolis abbiano dovuto affrontare alcune delle situazioni economiche più violente mentre i bianchi hanno costruito una ricchezza sostanziale, superando quella di molti altri stati?
Come abbiamo anche appreso dalla crisi COVID-19 nelle comunità nere, la causa principale di queste disparità è fondata su vecchie storie di politiche pubbliche aggressive che hanno stabilito con successo un sistema di razzismo strutturale profondamente radicato, con la conseguenza di aver portato non solo al degrado delle comunità nere, ma anche una mobilità verso l’alto dei bianchi.
Mentre esattamente in questo momento le comunità nere di Minneapolis vengono demonizzate per le rivolte in risposta alla morte di George Floyd, gli scontri come tattica della violenza della “folla” bianca sono endemiche nella storia del Minnesota. In effetti, il Minnesota all’inizio del XX secolo fu segnato da un livello di violenza razziale e di terrore che oggi lo ha reso noto come il Jim Crow del Nord. Il 15 giugno di quest’anno ricorre il 100esimo anniversario dei linciaggi di Duluth: l’omicidio dei tre lavoratori neri Elias Clayton, Elmer Jackson e Isaac McGhie⁶. Dopo che una donna bianca mentendo li accusò di stuprò, sei uomini neri furono arrestati e detenuti nella prigione della città di Duluth.
Mentre la notizia si diffondeva, e sebbene ci fossero prove evidenti del fatto che lo stupro non fosse accaduto, ne seguì una rivolta: una folla arrabbiata di 10.000 persone armate con mazze e altre armi irruppe nella prigione con l’aiuto del commissario di polizia e trascinò fuori dalle loro celle Clayton, Jackson e McGhie. Infine le fece linciare su un palo della luce. Una grande giuria incriminò trentasette persone per rivolta, mentre nessuno venne condannato per omicidio. Nessuno andò in prigione.
Il terrore assunse forme esplicite e violente ma anche sottili e istituzionali. La violenza razziale fu stata scritta attraverso la pubblicazione di atti e contratti di case sotto forma di alleanze razziali. Applicate dalla violenza della folla bianca e dai legislatori locali (gruppi che non si escludevano a vicenda) queste alleanze tenevano i neri fuori dalla maggior parte dei quartieri delle Twin Cities e venivano usate per negare l’accesso alla proprietà della casa, sequestrando intere comunità in quartieri che venivano svalutati, controllati e segregati.
Le alleanze razziali iniziarono nel 1910 e, nel 1940 i neri furono confinati in tre piccoli quartieri tra cui North e South Minneapolis. E anche se i tribunali federali hanno dichiarato illegali le alleanze razziali nel 1948, l’impatto è ancora sentito oggi.⁷
Secondo uno studio condotto dall’Università del Minnesota, il Powderhorn Park è uno dei quartieri che gentrificano più rapidamente e mentre i residenti bianchi si spostano nel quartiere di South Minneapolis, gli affitti sono aumentati¹⁰. Mentre i bianchi sono in grado di tornare in città dalla periferia e altri gruppi potrebbero essere in grado di trarre vantaggio dai cambiamenti del quartiere, i dati del 2016 hanno rivelato che non c’era un solo quartiere nella città di Minneapolis in cui una famiglia nera con reddito medio potrebbe permettersi di vivere¹¹ (vedi tabella sotto).
Un grafico dello studio The Diversity of Gentrification: Multiple Forms of Gentrification in Minneapolis and St. Paul di Edward G. Goetz, Brittany Lewis, Anthony Damiano e Molly Calhoun. Lo studio utilizza un approccio a metodi misti che combina un’analisi statistica dei dati a livello di quartiere con un’analisi qualitativa approfondita delle interviste con funzionari pubblici, leader della comunità e residenti del quartiere. Lo studio ha trovato prove significative sulla gentrificazione nelle due città.
L’altra America
In questo preciso momento in tutto il paese sorgono proteste in risposta non solo all’omicidio di George Floyd, ma a Breonna Taylor e alle altre vittime della violenza della polizia. I social media e i lanci di agenzia sono pieni di immagini di scontri, negozi saccheggiati e recinti della polizia che bruciano. Ma la nostra domanda rimane: chi ha appiccato il fuoco?
Crediamo che condannare le azioni dei manifestanti ma al contempo rifiutare di condannare le condizioni che hanno creato questa crisi di disperazione, assenza di speranza e rabbia, è irresponsabile, crudele e immorale. Il 14 marzo 1968 Martin Luther King tenne il discorso “L’altra America”, e dal discorso emerge una frase necessaria per definire le proteste del passato, presente e futuro: la rivolta è il linguaggio dei non ascoltati.
Dobbiamo continuare a condividere questa frase e portarla al cuore del discorso. Ma dobbiamo anche leggerla nel contesto. Nel discorso tenuto alla Gross Point High School di Detroit, il dr. King descrisse due Americhe:
“Ci sono due Americhe. Un’America con una bella situazione. In questa America milioni di persone hanno il latte della prosperità e il miele dell’uguaglianza che scorre davanti a loro. Questa America è l’habitat di milioni di persone che hanno necessità alimentari e materiali per i loro corpi, cultura ed educazione per le loro menti, libertà e dignità per i loro spiriti […] Ma poi c’è un’altra America. Quest’altra America ha una bruttezza quotidiana che trasforma l’assetto della speranza nella fatica della disperazione. In questa America, gli uomini camminano per le strade alla ricerca di posti di lavoro che non esistono […] E così in quest’altra America la disoccupazione è una realtà […] Quindi la stragrande maggioranza dei neri in America si ritrova a morire su un’isola solitaria di povertà, nel mezzo di un vasto oceano di prosperità materiale […]”
Continua ancora oggi a riferirsi all’amarezza, al dolore e all’angoscia che noi, come neri, abbiamo provato ogni singolo giorno, mentre affrontiamo condizioni che negano la nostra umanità, rendendoci impossibile prosperare, sopravvivere, respirare. Più di cinquant’anni dopo, questo discorso suona vero: queste sono le condizioni che fanno sì che le persone sentano di non avere altra alternativa che impegnarsi in violente ribellioni per attirare l’attenzione. La domanda che risuona è: se la rivolta è la lingua degli inascoltati, qual è il messaggio che l’America non è riuscita a cogliere?
Ho iniziato Data for Black Lives tre anni fa per disperazione. Ero disperata perché volevo vedere che le cose che amavo di più – i dati e la tecnologia – venissero usati per quella che credevo fosse la loro vera promessa: essere uno strumento per il cambiamento sociale. Ero alla disperata ricerca di una nuova forma di attivismo che potesse davvero cambiare le condizioni e dare potere alle persone. Quando abbiamo tenuto la prima conferenza di Data for Black Lives a novembre del 2017, sapevo che questa idea sarebbe andata oltre i dati e gli algoritmi: avrebbe avuto a che fare con le persone e l’affermazione della vita.
Data for Black Lives riguarda l’uso della datafication della nostra società affinché si possano fare richieste audaci per la giustizia. Si tratta di costruire la leadership di scienziati e attivisti e di potenziarli con le competenze, gli strumenti e l’empatia per creare un nuovo progetto per il futuro.
Ma alla base, Data for Black Lives riguarda la vita e la santità della vita. Si tratta di affermare la vita in un sistema che richiede la morte, i corpi umani come tributo. Affermare la vita per noi significa esporre e smantellare tutte le condizioni che hanno lasciato i neri in uno stato di perpetua disuguaglianza. Ma soprattutto significa risorgere la speranza, le possibilità che abbiamo seppellito con i nostri cari morti.
E non perdiamo la speranza, guadagniamo solo potere. Ci impegniamo a fare in modo che se qualcosa dovesse uscire da questo momento, vada oltre una riforma temporanea e diventi cambiamento strutturale a lungo termine.
Spero che tu possa far parte di ciò che stiamo costruendo.
Note:
- Per capire di più sulla metodologia di questi calcoli si legga qui.
- https://247wallst.com/special-report/2019/11/05/the-worst-cities-for-black-americans-5/5/
- https://www.bea.gov/data/gdp/gdp-county-metro-and-other-areas
- https://www.startribune.com/why-do-so-many-fortune-500-companies-call-minnesota-home/561251031/?refresh=true
- https://www.southernminn.com/faribault_daily_news/news/state/article_8f0d35bb-7b04-5174-a3c1-584a8535b59d.html
- https://www.mnopedia.org/event/duluth-lynchings
- https://www.mnopedia.org/place/southside-african-american-community-minneapolis
- https://www.citylab.com/equity/2020/01/minneapolis-history-housing-discrimination-mapping-prejudice/604105/
- https://www.mprnews.org/story/2019/06/17/south-minneapolis-gentrification-marlas-caribbean
- http://gentrification.umn.edu/sites/gentrification.dl.umn.edu/files/media/diversity-of-gentrification-012519.pdf
- http://gentrification.umn.edu/sites/gentrification.dl.umn.edu/files/media/diversity-of-gentrification-012519.pdf
Il 5 giugno 2020, mentre tutti gli Usa ribollivano di proteste contro la violenza razzista della polizia per l’assassinio di George Floyd a Minneapolis, Bruce Springsteen ha aperto il suo programma sulla radio SyriusXM con una delle sue canzoni più controverse: American Skin (41 Shots), sull’assassinio di un giovane immigrato africano, Amadou Diallo, crivellato con 41 colpi di arma da fuoco da una squadra di poliziotti di New York: «Questa canzone dura quasi otto minuti», ha aggiunto: «il tempo che il poliziotto [Derek Chauvin] ha tenuto il ginocchio sul collo di George Floyd». Springsteen ha definito questo delitto come un “linciaggio visuale”, e lo ha sottolineato mandando in onda Strange Fruit, la canzone di Billie Holiday e Nina Simone sui linciaggi nel Sud. «Abbiamo 40 milioni di disoccupati – ha detto –, e più di centomila cittadini sono morti per il Covid-19, con una risposta debole e insensibile da parte delle istituzioni Incombe ancora su di noi, generazione dopo generazione, il fantasma della schiavitù, il nostro peccato originale e il dilemma irrisolto della società americana».
L’uccisione di George Floyd è solo uno della lunga serie di episodi di violenza da parte della polizia che colpiscono in modo sproporzionato afroamericani, latini, nativi. Nel 2020, le persone uccise a colpi di arma da fuoco dalla polizia negli Stati Uniti sono 329, una media di almeno due al giorno. Non è chiaro se la statistica comprenda anche quelli uccisi con altri mezzi, come a esempio un ginocchio sul collo o una presa di lotta libera sul collo (come Eric Garner a New York – o Radio Raheem nel film di Spike Lee, Fai la cosa giusta). Gli afroamericani sono il 13% della popolazione degli Stati Uniti, ma sono il 24% delle 231 vittime di cui è nota l’identità “razziale” – e la sproporzione si fa ancora più drammatica nei grandi contesti urbani, che peraltro sono i più visibili.
La violenza della polizia è solo un aspetto particolarmente traumatico dell’eredità della schiavitù di cui parla Springsteen, che si è estesa e radicata in una presenza endemica e strutturale del razzismo nella società e nelle istituzioni (non va dimenticato che il gruppo con la percentuale più alta sono i nativi americani, e che anche i latinos hanno una quota sproporzionata di vittime). La vicenda della pandemia, in cui le minoranze hanno subito una quota assolutamente sproporzionata di vittime, non è che la conseguenza di una sistematica discriminazione nei servizi sanitari in cui il razzismo si intreccia con i rapporti di classe in una società sempre più diseguale e polarizzata in termini di reddito e potere.
Alla storia della schiavitù e del razzismo si è intrecciata, specialmente dopo le guerre del Golfo e l’11 settembre, la sindrome bellica e militarista anch’essa fortemente radicata nelle istituzioni. Le risorse sempre più abbondanti messe a disposizione dei tutori della “legge e ordine” e della “sicurezza nazionale” sono state usate per armare la polizia le letteralmente come un esercito in guerra. Lo Homeland Security Program ha incentivato la riassegnazione alla polizia di mezzi militari usati e ha dato ai dipartimenti di polizia i fondi necessari per acquistare “armi e veicoli da guerra”. Le forze di polizia che sono scese in campo durante la ribellione dei giorni scorsi a Minneapolis erano armate con «un arsenale di cui sarebbe andato orgoglioso qualunque piccolo esercito: blindati, elicotteri da guerra, proietti di gomma e di legno, bombe a mano, bombole di gas lacrimogeno» (Tod Nolan, ricercatore, ex poliziotto). Fin dagli anni ‘60, Stokely Carmichael e i militanti del Black Power parlavano della polizia nei ghetti come di un esercito d’occupazione; oggi è quasi istintivo, per poliziotti armati come in guerra, sentirsi in guerra. Durante le proteste seguite all’assassinio di Michael Brown a Ferguson, Missouri, nel 2014 la Guardia nazionale usava «un linguaggio altamente militarizzato, parlando di “forze nemiche” e di “avversari” a proposito di manifestanti che sono cittadini. I documenti che davano le direttive della missione distinguevano, nella folla che la Guardia nazionale avrebbe incontrato, fra “forze amiche” e “forze nemiche” – delle quali ultime facevano parte, a quanto pare, i “manifestanti in genere”» (J. Walters, The Guardian, 14 aprile 2015).
Per questo è particolarmente significativo il fatto che proprio membri della polizia di Ferguson siano stati fra i tanti che, dopo la morte di George Floyd, si sono inginocchiati o hanno espresso in altro modo la solidarietà con la comunità nera e con le vittime. Nonostante la sproporzionata e opportunistica insistenza dei media (anche alcuni fra i più insospettabili in Italia) sulla “violenza”, i “saccheggi”, l’”odio” che si sono mischiati alle manifestazioni di protesta, è emerso chiaramente che il problema non erano loro ma la polizia stessa.
Ha scritto Federico Rampini su La Repubblica che i poliziotti americani sono «ipersindacalizzati e quindi iperprotetti». Se questo fosse vero, i nostri metalmeccanici della Cgil dormirebbero fra due cuscini. L’impunità dei poliziotti americani non deriva dal fatto che hanno un sindacato, ma dal fatto che questo sindacato è sostenuto e incoraggiato dalla controparte stessa, dalle gerarchie, dal sistema giudiziario, dalle istituzioni politiche, e non li protegge dai datori di lavoro ma dalla popolazione che loro dovrebbero proteggere. Perciò un esito delle proteste di questi giorni è che questa impunità comincia a sgretolarsi. Da un lato, gruppi forse minoritari ma significativi di poliziotti dicono basta a questi crimini commessi in loro nome. Dall’altro, le istituzioni cominciano a rendersi conto di dov’è che bisogna intervenire. Minneapolis ha sciolto il Dipartimento di polizia, riconoscendo che Derek Chauvin non è una “mela marcia” ma la normalità; New York e altre città si preparano a tagliare i fondi alla polizia. Qualcosa si muove. Ma c’è voluto un morto e un’ondata di rabbia per ottenere questi, per ora minimi ma incoraggianti, segnali di cambiamento.
(https://riforma.it/it/articolo/2020/06/09/schiavitu-leredita-che-non-passa)
https://www.youtube.com/watch?v=aQMqWAiWPMs