Tempo di vita e tempo di lavoro: evitare invasioni
di Vito Totire (*)
Per una organizzazione del lavoro foriera di benessere psicofisico e non di distress
Il rapporto fra tempo di lavoro e tempo di vita è delicato e una condizione di squilibrio può essere un fattore determinate di distress. Certo una persona può accettare di buon grado, in relazione al livello personale di motivazione al lavoro, “invasioni” del tempo di lavoro nel tempo di vita ma quando una condizione di interferenza da perfettamente consensuale (e limitata nel tempo) vira verso forme di coazione e di cronicizzazione lo squilibrio si fa più incombente.
Non è affatto consensuale, comunque, una situazione in cui l’interferenza invasiva del tempo di lavoro in quello di vita dovesse rispondere a dinamiche di quella “monetizzazione” (soldi in cambio della salute) di infausta memoria che hanno caratterizzato un periodo buio della storia del movimento operaio. Alcune forme di monetizzazione (solo alcune) possono, in certe circostanze e per alcuni, simulare un “equilibrio” ma si tratta comunque di equilibri assolutamente precari. Purtroppo conosciamo queste pratiche di organizzazioni che approfittano della condizione di precarietà socio-economica di alcuni lavoratori e lavoratrici (come si dice in Italia “tengo famiglia” per indicare carichi familiari, mutui da pagare ecc). Si tratta di pratiche subdole che inquinano le relazioni lavorative, disturbano la naturale pulsione alla solidarietà e all’unità fra lavoratori, pregiudicando la auspicabile condizione di benessere organizzativo che tutti dobbiamo perseguire, cercando di sfruttare i lavoratori in difficoltà come “cavallo di Troia” di una organizzazione impostata con criteri “produttivistici” non rispettosi della salute umana (in verità sono criteri che producono soprattutto guasti e che scaricano sul sociale gli effetti sanitari negativi del distress). I lavoratori delle ferrovie conoscono bene queste pratiche che hanno sempre contrastato con il concorso dei servizi di vigilanza e anche di alcuni settori della magistratura, in particolare, sulla questione degli orari di lavoro con corollario di eccessi “stakhanovisti” di straordinario. Altra cosa sarebbe la disponibilità a discutere della monetizzazione non più in termini di elemosina (per addolcire la pillola) ma in termini di giusta “ricompensa” secondo la chiave di lettura delle dinamiche che inducono distress , cioè con il riconoscimento della disponibilità come tempo di lavoro effettivo con relativa e “normale” retribuzione. Questa ipotesi comporterebbe ovviamente un incremento occupazionale per garantire lo stesso “prodotto”.
In questo clima di sospetta euforia per la disponibilità di fondi europei è necessario investire sulla salute di chi lavora e sull’ergonomia del prodotto (visto che di recente alcuni passeggeri hanno dovuto sfondare vetri per respirare). Dunque una separazione non ossessiva ma ragionevole fra tempo di lavoro e tempo di vita è foriera di benessere lavorativo; viceversa la situazione opposta provoca distress o “sindrome corridoio” (la situazione in cui si associano e si potenziano sinergicamente il distress lavorativo e quello in ambito familiare).
La Guida europea per la prevenzione dello stress lavorativo cita più volte la necessità, al fine di tendere ad una organizzazione del lavoro sana, di garantire turni di lavoro regolari secondo sequenza e calendario ampiamente prevedibili in modo che il lavoro non interferisca negativamente sulle attività extraprofessionali. Certo le interferenze possono non avere lo stesso impatto per tutti i lavoratori ed avere effetti peggiori in condizioni specifiche: età, carichi sociali e familiari, tipo di relazioni extralavorative. Ma è tuttavia evidente che, per chiunque, la possibilità di essere contattati o addirittura “reclutati” all’improvviso per compiti lavorativi comporti non solo un generico disagio (si rischia concretamente di vivere una condizione di “allarme” continuo) ma anche, in particolari circostanze, forte ansia con ripercussioni negative sia sullo stato di benessere psicofisico che sulle stesse performances lavorative, in caso di reclutamento effettivo.
E’ evidente che la pratica (apparentemente consensuale) o l’imposizione esplicita di turni di lavoro invasivi nei confronti del tempo di vita viene agita da un soggetto (datore di lavoro o rspp cioè Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione) che non ha tenuto conto delle valutazioni necessarie ai sensi dell’articolo 28 del decreto 81/2008 né ha tenuto conto delle indicazioni, chiare e tassative, della Guida europea prima citata. Il che – considerato anche il lasso di tempo trascorso (la Guida è stata pubblicata nel 1999) – pare alquanto riprovevole.
In conclusione: occorre cogliere ogni occasione utile per mettere in pratica azioni di miglioramento finalizzate al benessere psicofisico dei lavoratori; non si può considerare questa istanza una opzione genericamente possibile quanto invece un obbligo sia sul piano etico-sociale che giuridico (appunto in relazione all’articolo 28 del decreto 81-2008).
Se la nostra strategia è “adattare la scarpa al piede e non il piede alla scarpa” per individuare le azioni concrete di miglioramento è saggio seguire le indicazioni della Guida europea: «Per sapere dove stringe la scarpa nulla di meglio che chiederlo a chi la calza» (pagina 63 della Guida Europea) cioè a lavoratori e lavoratrici.
Non si tratta iniziare da zero, visti i risultati e riscontri del questionario recentemente somministrato dal Coordinamento macchinisti cargo.
Bologna, 17.8.2021
(*) Vito Totire è medico del lavoro/psichiatra
L’idea di una nuova concezione del lavoro, ahimè, non è nuova. Scrivo ahimè non perché sia contrario a una diversa forma di utilizzo della risorsa umana ma piuttosto perché in Italia abbiamo già avuto qualcuno che ha tentato di coniugare solidarietà e produttività lasciando ampi spazi ai propri dipendenti e tentando addirittura di inserire nel ciclo lavorativo di una grande fabbrica elementi di sostegno alle loro famiglie. Il tutto per rendere il profitto un elemento che possedesse forti connotazioni sociali. Mi riferisco ad Adriano Olivetti, precursore di una visione del lavoro che in Italia pressoché nessun altro ha avuto. Sarebbe interessante vedere quali siano i punti di contatto tra l'”Olivetti-pensiero” e questa Guida europea. A una primissima vista – forse fin troppo superficiale – mi sembra ce ne siano moltissimi. Il problema però è che la nostra economia si regge soprattutto su una rete di aziende medio piccole nelle quali avviare un processo positivo di non-contrapposizione tra profitto e responsabilità sociale d’impresa è particolarmente difficile. Moltissime di queste aziende (non faccio il caso di quelle appartenenti a multinazionali) sono governate da persone che possiedono una scarsa conoscenza dei metodi di efficientamento del lavoro e/o di “rispetto” della figura del lavoratore. Inoltre la quasi completa dissoluzione di una classe operaia solidale e compatta contribuisce a rendere assai difficile forme di rivendicazione che non siano soltanto salariali (importantissime ma risultato di una contrattazione collettiva che lasci spazio a richieste inerenti al benessere psico-fisico dei lavoratori). L’argomento merita una riflessione accurata anche alla luce delle disgraziate modifiche apportate alla legge 300/70 (lo Statuto dei lavoratori) con cui sono state cancellate alcune garanzie fondamentali e alle quali non è seguita una più che necessaria azione di protesta unitaria. E’ un clima generale nel quale a piccoli passi in avanti si mischiano condizioni di lavoro a volte disumane: troppe morti sul lavoro in piccole fabbriche dove mancano le più elementari condizioni di sicurezza, figuriamoci se questa classe padronale può pensare al benessere psico-fisico…la stessa vicenda del “caporalato” nelle piccole realtà collegate alla Grafica Veneta (un esempio per tutti) con la triste mancanza di solidarietà tra gli stessi lavoratori, a mio parere oggi rendono praticamente impossibile qualsiasi tentativo di riforma del sistema lavoro.
Un articolo al solito interessante, sennonchè la conciliazione tempo di lavoro e tempo di vita soprattutto in presenza di lavoro a turni è decisamente improba. Servirebbe almeno una comparazione su scala europea, per comprendere ad esempio in Germania che ricadute sulla condizione psico-fisica dei lavoratori e delle lavoratrici ha la settimana su quattro turni ( compresa ovviamente la notte ), pur in presenza di un orario di lavoro di 32-30 ore settimanali. Ricordo che già ai tempi della rivista ” Sapere “, parlo dei primi anni ’80, emergeva la nocività del lavoro a turni, che come è noto riguarda anche le attività cosiddette dei servizi e del lavoro pubblico ( gli ospedali, ecc. ).
La guida europea cita alcune esperienze tese a mitigare il distress lavorativo anche se ovviamente non ci metto la mano sul fuoco
Tutt’ora si verifica qualche tentativo di rendere il lavoro più umano seguendo le indicazioni di studiosi come Walker ma si tratta di eccezioni che hanno un retroterra molto particolare..
La esperienza di Wolfsburg fu disastrosa, vedi ottimo reportage della rivista Internazionale
Dobbiamo pensare, per il lavoro in condizioni antifisiologiche qualora fosse davvero inevitabile, a forme di compensazione serie che per il lavoro notturno potrebbero ispirarsi alla entità del disturbo alla in reazione di melatonina, su questo stiamo lavorando con i macchinisti;
Riferimenti in Europa?
Gli scioperi in atto dei macchinisti tedeschi mi fanno sperare che questi lavoratori stiano proponendo azioni di miglioramento della organizzazione del lavoro e non soltanto obiettivi salariali comunque importanti;certamente con martignonj ci sarebbe molto da approfondire ma anche con Rampini.
Vediamo insieme come.
A me pare che tutto, ma proprio tutto vada rifondato in termini di umanesimo, cristianesimo, socialismo, etc. etc.. Finché qualcuno, o qualcosa, non riprende in mano come un dio la situazione, e noi addormentati ci riprendiamo dal grande sonno, ci può aspettate solo la prima e, ahimè, la seconda morte. Con speranza.