Tempo e spazio in Cronopolis di Ballard
di Ignazio Sanna
Nel saggio Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, Bachtin definisce il cronotopo «una categoria che riguarda la forma e il contenuto della letteratura» (Bachtin 2001: 230). Ma soprattutto riguarda il rapporto tra il tempo e lo spazio, cronos e topos, appunto. E tra i generi letterari la fantascienza è certamente quello che più di altri ha avuto a che fare con i concetti di tempo e spazio, come già nel classico di Wells The Time Machine, del 1895, o nelle innumerevoli saghe di imperi galattici e viaggi interstellari.
James Graham Ballard, nato a Shanghai il 15 novembre del 1930 e scomparso il 19 aprile 2009, è un rappresentante decisamente atipico del genere fantascientifico. Esemplare in questo senso il suo concetto di inner space, elaborato in contrapposizione allo scontato outer space della fantascienza ufficiale.
Come spesso avviene nella narrativa ballardiana (in High-Rise e Crash, per esempio), anche il racconto Chronopolis, pubblicato per la prima volta nel 1960 sulla rivista New Worlds, comincia dalla fine per raccontare in un lungo flashback cosa ha portato il protagonista, Conrad Newman, alla condizione finale. In questo modo inizio e fine coincidono, in un percorso narrativo formalmente circolare, che evoca la forma geometrica del cerchio, la quale a sua volta rimanda a quella del quadrante dell’orologio, come nota Francesco Marroni (Marroni 1982)1.
Il racconto si apre in medias res, con la descrizione della situazione del protagonista e del mezzo che gli consente di esercitare dalla sua cella un potere rispetto al tempo cronologico che gli altri detenuti non hanno: si tratta di una meridiana che Newman costruisce con mezzi di fortuna. Lui ancora non lo sa, ma si tratta del primo passo di quel viaggio che lo porterà ad attraversare il confine invisibile tra il mondo del presente nel quale è cresciuto, nel quale la misurazione del tempo è proibita, e quel mondo del passato dove invece era lecita e perfino funzionale alle esigenze della società.
In un’intervista rilasciata a Catherine Bresson nel 1983, ventitre anni dopo aver scritto Chronopolis, Ballard afferma:
Time is a very strong theme in my fiction. […] If you look at Renaissance paintings, a Vermeer or Rembrandt, or the Impressionists, Monet o Renoir, it’s like real time. It’s 3 o’clock in the afternoon and she’s having a bath or having tea in the garden. You can set your watch to those paintings. Whereas the Surrealists are quite different; there’s a world beyond Time. Time does no longer exist. I think all my fiction is really an attempt to get beyond Time into a different Realm […]. (Ballard 1983: 163)2
La atemporalità cui fa riferimento Ballard è quindi la tensione verso il superamento dei limiti temporali, vero e proprio confine da attraversare, come suggeriscono alcuni tra gli esiti pittorici del surrealismo, ad esempio il quadro di Dalì La persistenza della memoria (1931). Ballard ha più volte affermato di sentirsi attratto dalla pittura surrealista, e in particolare da Salvador Dalì e Paul Delvaux. Non a caso nelle opere di Ballard la componente visiva è spesso fondamentale.
Nell’introduzione al saggio di Bachtin sul cronotopo Rossana Platone afferma: «Il cronotopo, che unisce in sé i rapporti temporali e spaziali, è stato artisticamente assunto dalla letteratura come categoria propria, dove i connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura. Nel cronotopo letterario il principio guida è il tempo» (Platone 2001: xvii). Come si è già detto, anche in Ballard il tempo è un elemento fondante, e non soltanto in Chronopolis. In quella sorta di manifesto d’intenti intitolato What I believe, pubblicato sulla monografia dedicata all’autore inglese dalla rivista americana Re/Search, Ballard afferma: «I believe in the death of tomorrow, in the exhaustion of time, in our search for a new time within the smiles of auto-route waitresses and the tired eyes of air-traffic controllers at out-of-season airports. […] I believe in the non-existence of the past, in the death of the future, and the infinite possibilities of the present» (Ballard 1984: 176-177)3. Insomma, una fantascienza del presente, nel caso ci fossero ancora dei dubbi.
Ma torniamo a Chronopolis. Per Newman il controllo del tempo è fondamentale soprattutto a livello psicologico. Se non avesse potuto esercitarlo sarebbe impazzito. E naturalmente, come si è detto, il controllo del tempo non è altro che una forma di potere: essere in grado di misurare il tempo vuol dire avere un vantaggio significativo rispetto a chi non è in grado di farlo. Nel suo saggio su Ballard Michel Delville scrive: «[…] Chronopolis centres upon the idea of time as related to psychological coercion and actual political oppression (as exemplified in the hero’s rebellion against ‘Time Laws’ that prohibit the measurement of time) […]» (Delville 1998: 14)4.
La città stessa, che l’autore battezza significativamente Chronopolis, la città del tempo, non è collocata temporalmente in modo esplicito. La vicenda potrebbe essere ambientata tanto in un imprecisato futuro, in realtà non molto dissimile dal nostro presente, quanto in una sorta di presente alternativo, coerentemente con la accennata nozione di fantascienza del presente. Nel passato tutte le attività della comunità di Chronopolis erano rigidamente regolate da un rigoroso sistema basato sul funzionamento degli orologi, in modo da permettere una razionalizzazione perfetta e assolutamente efficiente del rapporto tra produzione e consumo. Ma con il passare del tempo il sistema si era fatto via via sempre più insostenibile, con l’aumentare della popolazione. Allora tutti gli orologi vennero banditi, assieme alla coscienza stessa della nozione di tempo. Ecco perché a questo punto la vita dei suoi abitanti è scandita, o meglio non è scandita affatto, da una inquietante indeterminatezza: dato che non c’è modo di misurare il tempo ogni attività si svolge entro contorni temporali sfumati, approssimativi, al punto da instillare nel lettore più sensibile una sgradevole sensazione di disagio. Disagio generato dalla mancanza della «possibilità di conferire una dimensione umana al tempo, di lanciare un ponte tra la finitezza e limitatezza dell’uomo e l’infinito e indifferente trascorrere di Chronos» (Marroni 1982).
Il racconto arriva al suo nucleo centrale quando, grazie all’aiuto di Stacey, uno dei suoi insegnanti, il protagonista comincia il suo viaggio verso il passato della città, verso il cuore stesso di Chronopolis. Janice Best afferma: «As a figure, then, that is both temporal and spatial, the chronotope generates not only the encounters that advance the plot, but also the principal symbolic and metaphorical patterns of a work» (Best 1994)5.
L’incontro di Newman con la città costituisce appunto una svolta nel procedere della narrazione, sia a livello diegetico che simbolico. E’ il superamento del limite oltre il quale il rapporto con il tempo si modifica. E’ il punto di intersezione tra l’ossessione (costruttiva) dell’individuo per il tempo che caratterizza il personaggio Newman (l’uomo nuovo) e l’ossessione (distruttiva) della società per il tempo medesimo che caratterizza il personaggio Chronopolis (la città del tempo).
In riferimento ai propri studi sugli indiani Apache dell’Arizona l’antropologo Keith Hamilton Basso cita queste parole di Bachtin:i cronotopi sono «[…] points in the geography of a community where time and space intersect and fuse. Time takes on flesh and becomes visible for human contemplation; likewise, space becomes charged and responsive to the movements of time and history […] Chronotopes thus stand as monuments to the community itself, as symbols of it, as forces operating to shape its members’ images of themselves» (Basso 1984)6.
E’ esattamente ciò che accade nel momento in cui Newman, raggiunto il centro cittadino abbandonato da anni, decide di tagliare i ponti con il suo passato quotidiano per vivere nel passato della città il proprio futuro personale. E’ questo il punto nel quale avviene il superamento del confine ideale che separa la città nuova da cui proviene e quella vecchia dove sceglie di stabilirsi. La città abbandonata è il simbolo vivente o meglio, morto vivente, del fallimento del tentativo di quella società (o forse della società tout court) di controllare il tempo e piegarlo alle proprie esigenze. Ma anche Newman, che vorrebbe ridare vita a quella città-zombie riattivando i vecchi orologi, fallisce a sua volta nel tentativo. In realtà riesce a riparare il grande orologio che dalla torre dominava la piazza e la città, e in questo senso vince la sua sfida personale, ma la società respinge il suo ruolo prometeico e rifiuta il suo dono, il controllo del tempo, attraverso il proprio sistema di repressione delle devianze. Gregory Stephenson nota come «In ‘Chronopolis’ the author foresees that even if revolt against the dehumanizing regimentation of technological society should occur, it may well be succeeded by other forms of oppression, in this instance the Time Laws, the Time Police, and their agents» (Stephenson 1991: 37)7.
Sotto questo aspetto il racconto presenta dei margini di ambiguità: l’operato di Newman appare volto a restaurare quel controllo del tempo attraverso gli orologi che viene descritto in termini sostanzialmente orwelliani. «Stacey pointed up at the tower. This was the Big Clock, the master from which all others were regulated. Central Time Control, a sort of Ministry of Time, gradually took over the old parliamentary buildings as their legislative functions diminished. The programmers were, effectively, the city’s absolute rulers» (Ballard1971: 201)8.
E questo è tutto quello che veniamo a sapere sull’identità di chi esercitava il potere all’epoca del controllo ufficiale del tempo. Ma le intenzioni del personaggio possono essere legittimamente definite libertarie. Infatti l’intento di Newman non è la restaurazione del regime passato. Ciò a cui aspira è la liberazione dell’uomo e di tutti gli aspetti della sua vita materiale dai limiti posti dall’indeterminatezza dello scorrere del tempo. Non a caso chi detiene il potere in questa società post-sincronica si è dotato di un mezzo specifico per impedire che ciò possa avvenire, la già citata Polizia del Tempo. Del resto il protagonista può essere visto come una sorta di eroe donchisciottesco che combatte contro i mulini a vento del potere senza volto che si frappongono fra lui e la funzione salvifica degli orologi, fino al momento in cui il principio di realtà prevale e il prezzo che deve pagare per la sua folle illusione è la reclusione.
L’avventura di Newman è concepita come un viaggio simultaneamente nel tempo e nello spazio. Nel tempo perché la sua decisione di stabilirsi nella città abbandonata, nella sua ribellione verso la società del presente da cui proviene, lo riporta a una condizione del passato. E nello spazio perché materialmente attraversa il confine immaginario che separa la città nuova in cui è nato dalla città vecchia tra le cui rovine si adatta a vivere in clandestinità.
La conclusione di Chronopolis vede il fallimento dell’utopia di Newman. L’uomo nuovo vede frustrato il suo tentativo di costruirsi una dimensione autonoma, di libertà, a causa del prevalere delle misure di controllo poliziesco poste in essere da una società di tipo orwelliano. Il risultato finale è che, nel conflitto tra il non-luogo e il non-tempo, il luogo ucronico ha la meglio sul tempo utopico.
Si può azzardare una doppia lettura del concetto di cronotopo in Chronopolis. La prima vede, canonicamente, da un lato la componente spaziale, il viaggio di Newman dalla città nuova verso il centro di quella originaria, e dall’altro quella temporale, dal presente della vita normale, quotidiana, al passato della città, costituito dal suo centro disabitato. Mano a mano che il viaggio procede il paesaggio architettonico muta gradualmente: «Mile by mile, the architecture altered its character; buildings were larger, ten-fifteen-storey blocks, clad in facing materials of green and blue tiles, glass or copper sheathing. They were moving forward […], back into the past of the fossil city» (ibid.: 161)9.
La seconda lettura, complementare alla prima, prende spunto dal concetto di psicogeografia, introdotto da Guy Debord nel 1955. Nel primo numero del bollettino dell’Internazionale Situazionista, pubblicato nel 1958, la psicogeografia viene presentata come «lo studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui»10.
A partire da questa definizione possiamo affermare che l’influenza dell’ambiente sul suo comportamento sia uno dei fattori alla base dell’improvvisa decisione di Newman di fuggire da Stacey, la sua guida all’interno della città abbandonata. Non per niente l’interazione psiche-ambiente è uno dei pilastri della poetica ballardiana. Ci si può spingere fino a sostenere che non di rado il paesaggio sia addirittura uno dei protagonisti delle sue opere, tanto alto è il livello di interazione con i personaggi. Secondo Dan Lockton
One of the many ‘obsessions’ running through Ballard’s work is what we might characterise as the effect of architecture on the individual [corsivo dell’autore]. […] “I use ‘architecture’ here in a wide sense, including the whole of the constructed environment – physical, technological and social – because while, for example, High-Rise very clearly explores the way that architectural decisions can directly impact on human behaviour, some of Ballard’s more recent works such as Running Wild, Millennium People and Kingdom Come concentrate more on the effects of constructed social and psychological environments on their inhabitants/users, and Crash of course examines intimately the interface between technology and our bodies, and how the technological landscape shapes our own obsessions. Indeed, the phrase “psychological effects of technological, social or environmental developments” in the Collins English Dictionary definition of ‘Ballardian’ is, while necessarily broad, impressively concise. (Lockton 2008)11
Newman si sposta da una posizione territoriale di partenza (la città nuova) che lo identifica come cittadino anonimo, a una posizione territoriale di arrivo (la città vecchia) che gli conferisce uno status nuovo, quello dell’eroe prometeico che sfida il volere degli dei (più prosaicamente: delle autorità) per consegnare all’Uomo il sacro fuoco del controllo del Tempo.
Non appena arriva nel cuore della Chronopolis abbandonata Newman si rende conto di essere giunto in quella che per lui è come una sorta di terra promessa. Ma non si tratta di una consapevolezza razionale. La sua fuga non è qualcosa di premeditato, è puramente istintiva. Qualcosa dentro di lui risponde a quel particolare call of the wild che proviene dall’essenza stessa della città fantasma. In questa ottica il protagonista del racconto è letteralmente l’uomo nuovo, un potenziale nuovo Adamo. Un uomo che il ‘richiamo della foresta’ della città mette in condizioni di restaurare quello stato edenico (che pure, come abbiamo visto, nella realtà dei fatti è tutt’altro che tale), primigenio, in cui il fluire del tempo e la possibilità della sua misurazione erano alla portata dell’uomo, inteso come singolo individuo. Ma è un Adamo vittima della sua illusione: così come il tabù infranto della mela, simbolo (dell’albero) della conoscenza, costa all’Adamo originale e a tutta la sua discendenza la perdita del Paradiso, allo stesso modo il tabù infranto dell’orologio, simbolo della conoscenza del tempo, costa a Newman la perdita della libertà.
Chronopolis è in qualche modo anche un non-luogo, cioè, letteralmente, un utopia. Come sottolinea Matt Smith, Ballard gioca volentieri con il concetto di utopia:
«One might say that Ballard is playing on the idea of Utopia. The word literally means ‘no place’ or ‘non-place’ and these areas that proliferate in Crash, Concrete Island and High Rise are precisely that: non-places, outside time, not of this world or of any other. As Marc Augé has said, “non places are the real measure of our time…. The airports and railway stations, hotel chains, leisure parks, large retail outlets”» (Smith s.d.).12
Si tratta quindi di un’utopia negativa, che sa di desolazione, vale a dire una distopia, altro asse portante di gran parte della narrativa di Ballard, che lo mette in qualche modo in relazione con autori quali Orwell (1984, Animal Farm), Huxley (Brave New World), Burgess (A Clockwork Orange). Nonostante il concetto di non-luogo sia utilizzato da Augé in un’accezione piuttosto circoscritta (sostanzialmente i non-luoghi sono tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici, quindi luoghi di transito, come aeroporti e grandi centri commerciali) la si può adattare, forzandola un po’, alla Chronopolis in cui Newman vive dopo la fuga da Stacey.
E’ un non-luogo in quanto non destinato (non più) ad accogliere le manifestazioni vitali dei suoi ormai ex-abitanti. Ed è anche un non-tempo, un eterno presente in cui la scansione del tempo non ha più diritto di cittadinanza. La città del tempo è stata abbandonata per prendere le distanze dalla società distopica che l’aveva creata, e il tempo trascorso l’ha trasformata in un insieme di luoghi fatiscenti, uffici e abitazioni in rovina, un paesaggio architettonico desolato. Più ballardianamente, in Chronopolis la distopia risiede nella testa di Newman, come nota ancora Rick McGrath a proposito di un altro racconto di Ballard: «in the short story Low-Flying Aircraft (1976) Ballard uses three paintings from his favourite surrealist, Dali, to make his definitive point: “The ultimate dystopia is the inside of one’s own head”. Ballard is saying Dali was right when he expressed memory’s persistence in terms of time, death and beach fatigue desolation – we see the future through our repressed past» (McGrath 2008).13
Come detto, dopo la sua fuga Newman decide di stabilirsi in questa città del tempo fuori dal tempo ufficiale, che nella città nuova da cui proviene è un non-tempo poichè il Tempo è stato dichiarato ufficialmente illegale, essendo vietata la sua misurazione. Insomma, siamo arrivati all’ucronia. Anche in questo caso l’uso del termine, in senso stretto, si riferisce in particolare a un tipo di narrazione che descrive un presente alternativo, come ad esempio nel caso di The Man in the High Castle di Philip K. Dick, una ricostruzione ipotetica di eventi ipotetici. Ma possiamo comunque adoperarlo in riferimento all’essenza stessa della città di Chronopolis, nell’accezione di assenza di tempo.
Questa analisi di Chronopolis giunge così, con un coup de theatre, alla eccentrica conclusione che in questo racconto il cronotopo alla fine della storia risulta essere sostanzialmente privo di contenuto, come svuotato di senso. Se lo spazio è un non-luogo e il tempo un non-tempo, il punto d’intersezione tra spazio e tempo si colloca laddove il risultato della somma algebrica tra i due valori è uguale a zero. Nel momento in cui nel grafico cartesiano sul quale possiamo rappresentare il racconto l’asse delle ascisse interseca quello delle ordinate nel punto zero, Chronopolis non è più visibile. La città del tempo non c’è più.
Ignazio Sanna
Università degli studi di Cagliari
Email: ignazio.sanna@amm.unica.it
PICCOLA NOTA Questo articolo fa parte degli atti del convegno del Compalit del 2009 pubblicati sul sito web della rivista Between: http://ojs.unica.it/index.php/between/issue/view/7/showToc
1 «[…] la tipica forma circolare dell’orologio acquista, agli occhi del personaggio, le sembianze di un vero e proprio mandala che, secondo la definizione junghiana, si configura come simbolo di “un ampliamento della sfera della coscienza e della vita psicologica cosciente” (Carl Gustav Jung, Dizionario di psicologia analitica, Torino, 1977, p. 85)».
2 «Il tempo è uno dei temi principali della mia narrativa. […] Se guardiamo i dipinti del Rinascimento, Vermeer o Rembrandt, o gli impressionisti, Monet o Renoir, ci troviamo il tempo reale. Sono le tre del pomeriggio e la donna nel quadro fa il bagno o prende il tè in giardino. Ci si può regolare l’orologio con quei dipinti. Invece il surrealismo è del tutto differente: c’è un mondo oltre il tempo. Il tempo non esiste più. Credo che tutta la mia narrativa sia in realtà un tentativo di entrare in un regno diverso, al di là del tempo» [Trad. mia]
3 «Credo nella morte del domani, nell’esaurirsi del tempo, nella nostra ricerca di un tempo nuovo nei sorrisi di cameriere di autostrada e negli occhi stanchi dei controllori di volo in aeroporti fuori stagione. […] Credo nella non esistenza del passato, nella morte del futuro, e nelle infinite possibilità del presente». Ciò in cui credo, trad. it. di Giancarlo Carlotti e Sandrina Murer in Re/Search Edizione italiana. J.G. Ballard, Milano, Shake Edizioni, 1994, pp. 203-205.
4 «Chronopolis è incentrato sull’idea che il tempo sia collegato alla coercizione psicologica e ad un’effettiva oppressione politica (come esemplificato dalla ribellione dell’eroe contro le ‘Leggi temporali’ che vietano la misurazione del tempo)» [Trad. mia].
5 «Perciò, come figura sia temporale che spaziale, il cronotopo genera non soltanto gli incontri che fanno avanzare la trama, ma anche i principali modelli simbolici e metaforici di un’opera» [Trad. mia].
6 «[…] punti nella geografia di una comunità in cui il tempo e lo spazio si intersecano e si fondono. Il tempo si incarna rendendosi visibile per l’umana contemplazione. Allo stesso modo lo spazio si fa carico, rendendosene responsabile, dei movimenti del tempo e della storia […]. In tal modo i cronotopi si ergono come monumenti della comunità stessa, come suoi simboli, come forze che danno forma all’immagine che i suoi membri hanno di se stessi» [Trad. mia].
7 «In Chronopolis l’autore prevede che se anche dovesse verificarsi una rivolta contro l’irreggimentazione disumanizzante di una società tecnologica, questa potrebbe tranquillamente venire sostituita da altre forme di oppressione. In questo caso, le Leggi temporali, la Polizia del Tempo e le loro forze» [Trad. mia].
8 «“Quello”, continuò Stacey indicando l’enorme quadrante bianco, “veniva chiamato il Grande Orologio e su di esso erano regolati tutti gli altri. Il Comando Centrale del Tempo, che era in effetti un vero e proprio Ministero del Tempo, finì poco per volta con l’invadere i vecchi edifici parlamentari, man mano che le loro funzioni legislative diminuivano. Chi veramente comandava nella città erano i programmatori”». Chronopolis, trad. it. di Beata della Frattina, in Incubo a quattro dimensioni, Milano, Mondadori, 1978, p. 166.
9 «A un centro suburbano ne succedeva un altro e chilometro dopo chilometro l’architettura cambiava. Gli edifici si facevano più imponenti, arrivavano ai dieci, quindici piani e avevano le facciate di piastrelle azzurre o verdi, con rifiniture di vetro o rame. […] avanzavano a ritroso nel tempo, verso il cuore della città fossile».
10 V. Internazionale situazionista 1958-69 (Raccolta dei numeri della rivista), Torino, Nautilus, 1994.
11 «Una delle tante ossessioni ricorrenti nelle opere di Ballard è quella che potremmo descrivere come l’effetto dell’architettura sull’individuo. Uso il termine ‘architettura’ in un senso ampio, che include tutto ciò che è ambiente costruito, fisico, tecnologico e sociale. Laddove, per esempio, High-Rise esplora l’impatto diretto dell’ambiente architettonico sul comportamento umano, alcuni dei suoi lavori più recenti come Running Wild, Millennium People e Kingdom Come si concentrano di più sugli effetti degli ambienti sociali e psicologici sugli abitanti/utenti, e Crash esamina intimamente l’interfaccia che collega la tecnologia ai nostri corpi e come il paesaggio tecnologico dia forma alle nostre ossessioni. Non c’è dubbio che l’espressione “effetti psicologici degli sviluppi tecnologici, sociali o ambientali” nella definizione di ‘ballardiano’ contenuta nel Dizionario Inglese Collins sia assolutamente precisa, ancorché necessariamente generica» [Trad. mia].
12 «Si potrebbe dire che Ballard giochi con il concetto di utopia. Letteralmente la parola significa ‘non-luogo’, il che è precisamente ciò che sono le zone ampiamente descritte in Crash, L’isola di cemento e Condominium: non-luoghi, fuori dal tempo, non di questo mondo né di altri. Come afferma Marc Augé, “i non luoghi danno l’esatta misura del nostro tempo… aeroporti e stazioni ferroviarie, catene alberghiere, parchi ricreativi, centri commerciali”» [Trad. mia].
13 «Nel suo racconto Il pastore aereo, Ballard si serve di tre opere del suo pittore surrealista preferito, Dalì, per sostenere la sua tesi di fondo: “la distopia fondamentale è l’interno della propria testa”. Ballard vuol dire che Dalì aveva colto nel segno esprimendo la persistenza della memoria in termini di tempo, morte e desolazione da sfinimento da spiaggia. Vediamo il futuro attraverso il nostro passato represso» [Trad. mia].