Teniamo gli occhi su Rafah

articoli e video di Norman Finkelstein, Ilan Pappe, Qasem Waleed, Jeremy Scahill, Ramzy Baroud, Gideon Levy, Alex Levac, Andrea Zhok, Ivan Kesic, The Mexican Family

 

Il sostegno degli ebrei non sionisti alla Palestina – Ilan Pappe

Fin dal momento in cui è apparso, il Movimento Sionista ha incontrato un’opposizione di principio e ideologica da parte di molti ebrei. Quando emerse alla fine del diciannovesimo secolo, il suo argomento principale era che l’unica soluzione al crescente antisemitismo in Europa era la ridefinizione del giudaismo come nazionalismo attraverso la colonizzazione della Palestina.

Gli ebrei socialisti e comunisti credevano che una rivoluzione internazionale fosse la soluzione migliore e gli ebrei liberali riponevano la loro fiducia in un mondo più democratico e liberale. Per loro l’ebraismo era una fede, alla quale aderivano in modi diversi, ma che avrebbe dovuto portarli a prendere parte al rendere il mondo nel suo insieme un posto migliore.

Queste controvoci si spensero per un po’ durante e dopo l’Olocausto. Il Genocidio degli ebrei in Europa ha dato credito agli occhi di molti ebrei alla necessità di uno Stato Ebraico, anche a costo di distruggere la Palestina e i palestinesi.

Il più importante sostegno ebraico al sionismo e poi a Israele venne dalla comunità ebraica americana. Fino al 1918 questa comunità era in gran parte indifferente al sionismo, e molti dei suoi membri erano addirittura ostili all’idea.

Tuttavia, a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, e in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, la comunità ebraica americana venne sionizzata in modo esponenziale. Anche prima della comparsa dell’AIPAC, i gruppi filo-sionisti avevano cominciato a influenzare la politica americana nei confronti della Palestina e poi di Israele. (Ho appena finito di scrivere un libro che ripercorre quella storia in dettaglio: Lobbisti per il Sionismo su Entrambi i Lati dell’Atlantico – Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic.)

Dalla creazione dello Stato di Israele, alcuni organismi come il Consiglio Americano per l’Ebraismo (American Council for Judaism) sono rimasti critici nei confronti del sionismo e di Israele, e sebbene questo gruppo sia diminuito di numero e abbia ammansito le sue critiche nei confronti di Israele dal 1967, serve ancora a ricordare che uno può essere un ebreo americano senza essere sionista.

In questo secolo ci sono due principali voci antisioniste tra gli ebrei americani. Una è una sezione degli ebrei ortodossi in America, le comunità Satmar e Neturei Karta. La prima, la comunità più numerosa, è più non sionista che antisionista, mentre la seconda partecipa attivamente al Movimento di Solidarietà filo-palestinese.

L’altra è la Voci Ebraiche per la Pace (Jewish Voice for Peace – JVP) fondata nel 1996 da tre studentesse ebree americane di Berkeley. Sono ufficialmente impegnati ad agire contro le violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi e sostengono pienamente la campagna BDS. Il JVP è diventato una parte molto importante delle manifestazioni filo-palestinesi dopo che Israele ha iniziato la sua Politica Genocida nella Striscia di Gaza.

Più di cento anni dopo il successo del Movimento Sionista nel sionizzare ampi settori della comunità ebraica americana, sembra che i problemi inerenti a tale approccio stiano tornando a perseguitare gli ebrei americani in generale e i sostenitori di Israele in particolare.

La prima sfida era quella di una duplice lealtà. Se gli ebrei sono una nazione a sé stante, quali interessi servono? La soluzione trovata dai sionisti americani fu che il giudaismo non è nazionalismo in America ma solo in Israele. La cosa ha funzionato per un po’, anche se l’AIPAC ha violato le leggi americane sul lobbismo incanalando denaro per fare pressioni per conto di un Paese straniero. La questione diventerà più acuta in futuro, quando atti come il Genocidio a Gaza saranno visti da molti americani come in conflitto con l’interesse nazionale americano.

L’altra vecchia sfida era che fin dall’inizio era chiaro che gli alleati “naturali” degli ebrei sionisti americani erano i sionisti cristiani. Il forte sostegno di quest’ultimo gruppo a Israele ha un prezzo. La coalizione di cristiani fondamentalisti appoggiava incondizionatamente Israele poiché desiderava vedere gli ebrei in Israele e non negli Stati Uniti, ed era fiduciosa che la giudaizzazione della Palestina fosse parte del piano divino per il ritorno del Messia e la fine dei tempi ( che prevedeva la conversione degli ebrei al cristianesimo). Nel frattempo è imperativo che i fedeli diano un sostegno incondizionato a Israele, ma ciò non nasconde facilmente il forte antisemitismo del Sionismo Cristiano. Oggigiorno viene identificato chiaramente con i coloni ebrei fondamentalisti in Cisgiordania e con le fazioni più estreme all’interno del sistema politico israeliano.

Ma è la nuova sfida che porta molti di noi a credere che la prossima generazione di ebrei americani avrà una visione diversa del sionismo e di Israele. A partire dal 1967, gli ebrei americani furono gradualmente esposti alla portata dell’oppressione da parte di Israele dei palestinesi che vivevano nella Cisgiordania Occupata e nella Striscia di Gaza e trovarono difficile sostenere Israele.

La sfida morale di sostenere Israele è diventata ogni anno più ardua dal 1967. L’assedio di Gaza iniziato nel 2006 ha aumentato il numero di giovani ebrei in America che non solo voltavano le spalle a Israele ma si impegnavano profondamente nel Movimento di Solidarietà con i palestinesi.

Pertanto, non sorprende che molti più giovani ebrei siano scesi in strada quando è iniziato il Genocidio israeliano a Gaza. La loro importante partecipazione ha rivelato qualcosa di più profondo, o almeno ha messo in luce un potenziale fenomeno prospetticamente più profondo per il futuro. Questa particolare solidarietà indica un futuro in cui, per molti ebrei americani, il sionismo non sarà l’unica opzione per definire il loro ebraismo e, a maggior ragione, essi potrebbero condividere l’idea che il loro ebraismo li contrappone a Israele e alle sue politiche.

Se ciò dovesse accadere, si tradurrebbe nella transizione dall’indifferenza degli ebrei americani al sionismo nella decisione di abbandonare del tutto il sionismo. (Il verbo gettare a mare in questo contesto è stato suggerito da Peter Beinart, la cui personale fuoriuscita dal sionismo incarna questo possibile scenario futuro.)

Se questo è uno scenario valido, è un’interessante chiusura di un ciclo etico e ideologico, forse anche una rettifica dell’ingiustizia storica. Gli ebrei americani erano spesso fedeli ai valori universali (siano essi liberali o socialisti) che li collocavano al centro delle importanti lotte per la giustizia sociale negli Stati Uniti. Questi valori furono messi da parte nei confronti di Israele, creando un’ipotetica posizione, conosciuta nel gergo comune come PEOP: Progressista Tranne che Sulla Palestina.

I cambiamenti radicali sono chiaramente dominio dei Millennials (nati tra gli anni ’80 e ’90) e della Generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012), il che accentua la prospettiva di un cambiamento radicale nel futuro che potrebbe non essere ancora facilmente individuabile nel presente. Ma la possibilità per molti ebrei, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, di dissociarsi da Israele, e non pochi di loro svolgono un ruolo centrale nel tentativo di isolare e rendere Israele uno Stato reietto, è una prospettiva fattibile per il prossimo futuro.

Senza un forte sostegno da parte della comunità ebraica americana, e con la possibile erosione di tale sostegno da parte delle comunità ebraiche altrove, l’attività di lobbismo per Israele sarà mantenuta dai Sionisti Cristiani e dai Repubblicani di destra, mentre a livello mondiale Israele dovrà fare affidamento su partiti e movimenti nazionalisti fascisti e di destra. Una tale coalizione minerà il pilastro morale su cui poggia il Progetto Sionista e potrebbe successivamente influenzare anche il pilastro materiale delle alleanze strategiche nella regione e nel mondo in generale.

All’interno di questo possibile scenario, potrebbe essere interessante seguire alcuni esempi più concreti. Il primo è il movimento Voci Ebraiche per la Pace, che ha assunto un ruolo cardinale nell’attivismo filo-palestinese dopo il 7 ottobre 2023. Si tratta ancora di un movimento marginale, ma il suo collegamento organico con il Movimento generale di Solidarietà palestinese potrebbe espanderlo esponenzialmente in futuro.

Un altro caso di studio da seguire è l’enorme movimento studentesco nei plessi universitari americani noto come Hillel House. I membri di questo movimento si sono ribellati alla loro organizzazione madre dopo l’assalto israeliano a Gaza nel 2014 e hanno fondato un’organizzazione molto più critica nei confronti di Israele chiamata Open Hillel.

Infine, c’è il caso di un movimento chiamato ReturnTheBirthright (Ritorno per Diritto di Nascita). È emerso come un antidoto alla Legge Israeliana del Ritorno. Secondo questa legge, ogni ebreo nato nel mondo può diventare immediatamente cittadino israeliano. L’iniziativa ha respinto questa offerta israeliana “trasferendo” il diritto ai rifugiati palestinesi e ai loro discendenti. La logica alla base di ciò è che mentre i palestinesi che sono stati espulsi dalla Palestina non possono tornare, e i parenti dei palestinesi nella Palestina storica non possono riunire le loro famiglie, è gravemente ingiusto concedere questo trattamento preferenziale agli ebrei ovunque si trovino.

Pertanto, il sostegno degli ebrei non sionisti alla liberazione della Palestina può svolgere, e svolgerà, un ruolo in futuro. Di per sé, non si tratta di un processo di trasformazione, ma all’interno di una matrice di altri cambiamenti fondamentali nell’opinione pubblica, nell’equilibrio del potere sul campo e nell’implosione della società ebraica israeliana dall’interno, può aiutare ad abbreviare gli inevitabili giorni bui che precedere una nuova alba sia per gli ebrei che per gli arabi nella Palestina Storica.

Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È autore del recente Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic (Lobbisti per il Sionismo su Entrambi i Lati dell’Atlantico) di The Ethnic Cleansing of Palestine, The Modern Middle East (La Pulizia Etnica della Palestina, il Medio Oriente Moderno); A History of Modern Palestine: One Land, Two Peoples (Una Storia Della Palestina Moderna: Una Terra, Due Popoli) e Ten Myths about Israel (Dieci Miti su Israele). Pappé è descritto come uno dei “Nuovi storici” israeliani che, dal rilascio dei pertinenti documenti del governo britannico e israeliano all’inizio degli anni ’80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Cosa vuol dire essere usato come scudo umano dall’esercito israeliano – Qasem Waleed

A Khan Younis I soldati israeliani hanno radunato Ahmad Safi e i suoi familiari maschi e li hanno costretti a stare in cima a una duna di sabbia per 12 ore, mentre i soldati si riparavano dietro di loro durante uno scontro a fuoco con i combattenti della resistenza palestinese. Questa è la loro storia.

Circondato da dozzine di soldati, carri armati, auto blindate, droni ronzanti e cani dell’esercito, Ahmad Safi si è ritrovato a guardare un enorme buco nel terreno.

“Di tutti gli scenari di morte in cui mi sono immaginato dall’inizio della guerra, non avrei mai sospettato che avrei visto la mia tomba”, ha detto a Mondoweiss il 26enne residente di Khan Younis.

Ahmad e i suoi parenti maschi sono stati arrestati dall’esercito israeliano e arruolati con la forza per stare di fronte a una base militare della resistenza, mentre i soldati israeliani si riparavano dietro di loro. Si sono così trovati nel bel mezzo di uno scontro a fuoco tra i soldati e la resistenza.

Nella notte del 22 gennaio, l’esercito israeliano ha lanciato un attacco improvviso nella parte occidentale di Khan Younis, dove si trovavano cinque rifugi per sfollati.

Nel cuore della notte, le truppe israeliane sono avanzate verso gli edifici di Tiba, dove Ahmad e la sua famiglia si erano rifugiati nel mezzo della “zona sicura” designata da Israele. Questi edifici erano circondati dall’Università di al-Aqsa, dall’Ospedale al-Khair, dall’Industrial College, dal Centro della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese e dall’area costiera di al-Mawasi, che ospitavano tutti decine di migliaia di palestinesi sfollati.

Quella notte Ahmad si era reso conto che i droni quadricotteri israeliani avevano occupato completamente il cielo. Sapeva cosa significava in base alla sua esperienza accumulata nelle tattiche di guerra israeliane: l’esercito preferiva lanciare operazioni importanti con  la copertura del buio della notte.

Ahmad ha sentito degli spari in lontananza, ma era relativamente lontano, quindi ha continuato a guardare uno spettacolo di animazione per distrarsi.

Qualche istante dopo, il rumore degli spari si è intensificato e si è fatto più vicino, e all’improvviso ha sentito delle urla provenire dalla stanza opposta. Suo cugino era stato colpito da un proiettile. Quando gli spari hanno iniziato a intensificarsi ulteriormente, Ahmad si è gettato sotto il letto, mentre il resto della sua famiglia si è precipitato nella  stanza portando con sé il cugino ferito.

E’ stato  allora che i soldati israeliani hanno fatto irruzione nel loro appartamento, entrando  nella stanza tra i fasci delle torce elettriche.

“Era la prima volta che vedevo un soldato israeliano nella vita reale”, ha detto Ahmad a Mondoweiss.

L’esercito ha separato le donne dagli uomini e ha costretto le donne a fuggire a sud, a Rafah. Gli uomini  sono stati legati e tenuti sotto la custodia dell’esercito.

Un comandante israeliano ha ordinato ad Ahmad e agli uomini della sua famiglia di scendere le scale in fila indiana. Poi ha ordinato loro di inginocchiarsi contro il muro sud del loro appartamento, che si affaccia su una base militare della resistenza.

Il corpo di Ahmad tremava in modo incontrollabile. Le sue labbra tremavano e il suo respiro era pesante.

“Ho cercato di ricompormi”, ha raccontato Ahmad. “Ma quando ho sentito mia madre salutarci mentre veniva trascinata fuori dai soldati israeliani, non ho potuto trattenere le lacrime”.

La mattina successiva, il 23 gennaio, i soldati israeliani hanno ordinato ad Ahmad, a suo padre, a suo fratello e al resto dei suoi cugini di spostarsi all’aperto e di muoversi orizzontalmente davanti ai veicoli militari blindati.

“Quando ci hanno ordinato di fermarci e di restare fermi, mi sono ritrovato di nuovo a pochi metri dalla base militare della resistenza”, ha detto Ahmad. “Quello è stato il momento in cui ho capito che venivamo usati come scudi umani.”

I soldati li hanno costretti a inginocchiarsi in mezzo alla strada mentre si riparavano dietro Ahmad e i suoi parenti maschi.

Indossavano abiti leggeri nel freddo invernale e le loro mani erano legate con una fascetta così stretta che non riuscivano a sentire le dita. I soldati hanno ripetutamente sparato proiettili vicino ai loro piedi nel tentativo di terrorizzarli, forse per renderli disponibili a eseguire gli ordini.

“Ogni volta che ci sparavano, davo subito un colpetto alla schiena per controllare se ero ancora vivo”, ha detto Ahmad, ricordando le risatine dei soldati per quanto fossero spaventati lui e la sua famiglia.

Altre volte, un carro armato si muoveva rapidamente verso di loro, per poi tornare indietro, a meno di un metro di distanza. Ahmad si rese conto che i soldati stavano giocando con loro.

Ad un certo punto, i soldati hanno preso il fratello di Ahmad, Saeed, e lo hanno torturato, rompendogli la mascella. Gli hanno preso a calci i genitali come se stessero “colpendo un pallone da calcio”, secondo Saeed. Lo hanno picchiato così duramente che ad un certo punto ha perso i sensi.

“Sospettavano che fosse un combattente della resistenza a causa del suo aspetto. Per i soldati israeliani, qualsiasi uomo con la barba che abbia il segno del sujoud sulla fronte, è un membro di Hamas”, ha spiegato Ahmad.

Pochi istanti dopo, c’è stato un intenso scambio di colpi di arma da fuoco mentre Ahmad e la sua famiglia si trovavano senza riparo tra i soldati israeliani e i combattenti della resistenza. Si sono distesi a terra, nel tentativo di sfuggire ai colpi.

“Continuavamo a gridare in arabo, ‘smettetela di sparare’, e pochi istanti dopo le sparatorie si sono fermate”, ha detto a Mondoweiss Ammar, un altro dei cugini di Ahmad.

Sono stati costretti a rimanere lì per oltre 12 ore, come scudi umani . Alla fine erano disidratati e riuscivano a malapena a stare in piedi.

A mezzogiorno, in un momento di scarsa sorveglianza, Ahmad ha deciso di eseguire la preghiera di mezzogiorno con gli occhi, un metodo consentito nell’Islam quando una persona è paralizzata o sta morendo. Nella situazione di Ahmad, pensava, si applicavano entrambi i casi.

Prima del tramonto è scoppiato nuovamente lo scontro a fuoco. Tre soldati israeliani si sono precipitati verso Ahmad e il resto degli uomini e li hanno trascinati verso una grande duna di sabbia, sulla quale li hanno costretti a stare in piedi in modo che fossero visibili ed esposti alla linea di fuoco. Mentre si trovavano in cima alla duna, guardarono in basso e dall’altra parte videro un grande fossato

I soldati li hanno costretti  a stare lì sulla duna, esposti alla linea di fuoco e con il fossato incombente sotto.

“Mio cugino Ammar ci ha detto di tenerci le dita l’uno dell’altro e di incrociare i piedi, così che se un proiettile avesse colpito uno di noi, non sarebbe caduto in quella fossa comune”, ha detto Ahmad a Mondoweiss.

Immagini di civili sepolti vivi attraversavano le loro menti, esattamente come avevano sentito fosse accaduto all’ospedale indonesiano nel novembre 2023. Ciò era avvenuto anche ben prima che, nell’aprile di quest’anno, si diffondessero le notizie sui massacri e sulle fosse comuni scoperte all’ospedale  al-Shifa e all’ Ospedale Nasser, rivelando centinaia di cadaveri.

Una volta terminato lo scontro a fuoco, i soldati israeliani hanno portato Ahmad e il resto degli uomini all’interno di un edificio. L’edificio era al buio, tranne la stanza in cui Ahmad e la sua famiglia venivano tenuti. Le pareti sud e est della stanza erano distrutte, rendendoli visibili dalla base della resistenza.

Ogni tanto un soldato veniva e puntava un laser rosso verso di loro per qualche minuto, poi se ne andava.

“Penso che stesse cercando di far capire ai combattenti della resistenza che anche noi eravamo all’interno di quell’edificio, poiché ci stavano usando, ancora una volta, come scudi umani”, ha spiegato Ahmad.

Qualche istante dopo, i soldati li hanno portati uno per uno in un’altra stanza. Era la prima volta in più di 18 ore di prigionia che cominciavano a interrogarli.

I soldati hanno iniziato a prenderli a calci e ad insultarli mentre chiedevano informazioni. Hanno costretto il fratello di Ahmad, Saeed, a dire cose degradanti su sè stesso, solo per poter ridere di lui quando lo faceva.

“Il comandante dell’intelligence mi ha chiesto di localizzare la mia casa grazie alle riprese dal vivo di un drone”, ha detto Ahmad a Mondoweiss. “All’inizio non potevo, perché tutta la zona sembrava appiattita. Per fortuna, l’ho individuato prima del secondo pugno”.

“Quello è stato il momento in cui ho saputo che la mia casa era stata distrutta”, ha aggiunto.

Dopo circa due ore, i soldati hanno liberato Ahmad e la sua famiglia e hanno ordinato loro di spostarsi verso sud facendoli seguire un raggio laser.

Avanzando con difficoltà, Ahmad e la sua famiglia sono finalmente riusciti a raggiungere una scuola delle Nazioni Unite, che ospitava un certo numero di sfollati, a circa un miglio di distanza.

“Quando abbiamo raggiunto la scuola e abbiamo sentito le voci di alcune persone all’interno, siamo scoppiati in lacrime miste a risate isteriche”, ha detto Ahmad. “Non potevamo credere di essere sopravvissuti a questo incubo.”

La scuola era chiusa a chiave, quindi uno di loro ha dovuto saltare i muri e chiamare qualcuno per aprire. Le persone li hanno aiutati con acqua e un po’ di pane, ma Ahmad era occupato a cercare la tenda di suo zio e sua madre e le sue sorelle. Alla fine le ha trovate con suo zio.

La mattina dopo, l’intera famiglia è fuggita a Rafah, lasciando dietro di sé tutto ciò che aveva.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org

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UNICEF: 600.000 bambini palestinesi a Rafah non possono “evacuare” in sicurezza – Jeremy Scahill

“La realtà per i bambini che vivono lì è scioccante, onestamente”, ha detto un funzionario che recentemente è tornato da Gaza. “La gente vive in condizioni davvero squallide”.

Inviando i suoi carri armati questa settimana a Rafah, nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano si è mosso rapidamente per prendere il controllo del lato palestinese del valico di frontiera con l’Egitto. Il presidio ha reciso l’unico corridoio che collega i palestinesi di Gaza alla terra non controllata da Israele. In un atto volutamente simbolico, un carro armato israeliano ha demolito il monumento “I love Gaza” (“Amo Gaza”) che accoglieva i visitatori mentre attraversavano il territorio dall’Egitto.

L’attacco, e l’imminente invasione su vasta scala di Rafah minacciata da Israele nonostante le forti obiezioni della Casa Bianca, lascia i civili palestinesi a sopportare il peso dell’implacabile assalto. Israele ha rapidamente chiuso il valico di frontiera di Rafah. La chiusura lascia praticamente chiusi i rubinetti degli aiuti a Gaza.

I residenti di Gaza sono ancora una volta costretti a partecipare a un doppio gioco in cui devono affrettarsi per comprendere le mappe create dagli israeliani, indicando in quale area devono spostarsi per scampare a morte certa. Le immagini trasmesse sui social media dal portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano hanno dato istruzioni ai civili di Rafah di tornare verso il centro di Gaza, a Khan Younis, un territorio lasciato in rovina dopo i continui attacchi aerei e terrestri israeliani.

Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, UNICEF, chiede al governo israeliano e ai suoi sostenitori di cessare il fuoco e invertire la rotta sui piani per un’invasione su vasta scala di Rafah.

“Ci sono 600.000 bambini che cercano rifugio a Rafah e molti di loro sono già stati sfollati più volte”, ha detto Tess Ingram addetta delle comunicazioni dell’UNICEF, recentemente tornata da Gaza. “Sono esausti, traumatizzati, malati, affamati e la loro capacità di evacuare in sicurezza è limitata”.

“L’area verso la quale viene loro ordinato di evacuare non è sicura. Non è sicura perché non ci sono servizi per soddisfare i loro bisogni primari, acqua, servizi igienici, ripari”, ha detto in un’intervista. “Ma non è sicura anche perché sappiamo che quella zona è stata oggetto di bombardamenti nonostante fosse una cosiddetta zona sicura. Quindi siamo davvero preoccupati per l’impatto di un’offensiva di terra su una delle aree più densamente popolate del mondo”.

Prima dell’inizio della guerra di terra bruciata di Israele contro Gaza, Rafah era una città di circa 250.000 abitanti. A causa della fuga dei palestinesi dagli attacchi israeliani, la popolazione è attualmente stimata a 1,4 milioni.

“La realtà per i bambini che vivono lì è scioccante, onestamente. Le persone vivono in condizioni davvero squallide”, ha detto Ingram. “È uno spazio incredibilmente affollato. Ovunque tu vada, sei quasi spalla a spalla con un’altra persona. I rifugi improvvisati si espandono dagli edifici lungo il marciapiede fino alla strada. Le persone vivono ovunque possano trovare spazio, sotto teloni o coperte. E questo si espande a perdita d’occhio”.

Ingram ha detto che l’UNICEF non è riuscita a portare rifornimenti o carburante a Gaza da domenica 5 maggio.

“Stiamo davvero raschiando il fondo del barile ora con il carburante che abbiamo lasciato a Gaza. Non siamo stati più in grado di entrare”, ha detto. “E quel carburante è la linfa vitale delle operazioni umanitarie a Gaza. E senza di esso, sistemi importanti come gli impianti di desalinizzazione, gli ospedali, la consegna di cibo e i camion, cesseranno tutti di esistere”.

Il Portavoce del Dipartimento di Stato Matt Miller ha confermato le affermazioni di Ingram, affermando in una conferenza stampa mercoledì pomeriggio che nessuna fornitura di carburante era entrata né dal valico di Rafah né da Karem Shalom, nonostante le sollecitazioni degli Stati Uniti. Ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno detto a Israele che, prendendo il controllo del valico, ora hanno la responsabilità di aprirlo rapidamente. Anche se i camion degli aiuti ricominciassero ad entrare a Gaza, ha aggiunto, gli aiuti non potranno essere distribuiti senza carburante.

Israele non farà marcia indietro

L’inizio delle terribili condizioni è arrivato mentre le forze israeliane continuavano a bombardare Rafah e a spostare forze nei dintorni, conquistando strategicamente territori come il valico di frontiera e ammassando truppe in preparazione per un’invasione totale.

Negli ultimi sette mesi di attacchi incessanti contro la popolazione civile della Striscia, durante i quali sono stati uccisi più di 35.000 palestinesi, funzionari e portavoce israeliani hanno detto al mondo che Israele non ha intenzione di Occupare Gaza. La presa di Rafah ci ricorda con forza che questa era e rimane una bugia.

Anche senza i suoi carri armati posizionati al valico, Israele esercita l’autorità suprema su ciò che attraversa il territorio assediato; Israele ha già avviato ispezioni di sicurezza da parte egiziana, che hanno ritardato la consegna degli aiuti dallo scorso anno. La presenza di carri armati sul lato di Gaza serve solo a formalizzare pubblicamente questa realtà.

L’amministrazione Biden ha passato settimane a diffondere nei media la narrazione secondo cui Rafah rappresenta una linea rossa per l’amministrazione. Eppure, quando il Presidente Joe Biden ha parlato con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu prima dell’Operazione, un alto funzionario israeliano ha detto: “Biden non ha obiettato durante la presa del valico di Rafah”.

La Casa Bianca ha espresso alcune lievi preoccupazioni circa la presa del confine una volta arrivati i carri armati, ma il Portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l’Ammiraglio John Kirby, ha difeso la mossa israeliana, dicendo che l’amministrazione ha ricevuto assicurazioni dagli israeliani che non sarebbe stata “una grande operazione di terra”.

Mentre gli Stati Uniti hanno simbolicamente ritardato una spedizione di armi, i funzionari americani hanno chiarito che intendono continuare ad armare Israele. Israele ha minimizzato l’importanza del ritardo nella consegna delle armi e ha affermato che gli storici alleati stanno risolvendo la questione a porte chiuse.

Alcune delle tensioni celate sono emerse pubblicamente questa settimana, quando il funzionario del Likud Tali Gottlieb, membro della Knesset (Parlamento), si è scagliato contro gli Stati Uniti, minacciando un’intensificazione dei Crimini di Guerra in risposta al ritardo delle armi. “Gli Stati Uniti minacciano di non fornirci missili precisi. È così?” disse. “Bene, ho notizie per gli Stati Uniti. Abbiamo missili imprecisi. Li useremo. Faremo crollare solo una decina di edifici. Dieci edifici. Questo è quello che faremo”.

Interpellato sulla minaccia di Gottlieb, il Portavoce del Dipartimento di Stato ha denunciato: “Questi commenti sono assolutamente deplorevoli e i membri più anziani del governo israeliano dovrebbero astenersi dal farli”, ha detto Miller.

Mercoledì Biden è andato oltre, dicendo a Erin Burnett della CNN che se Israele invadesse Rafah, gli Stati Uniti taglierebbero le forniture di proiettili di artiglieria, bombe e altre armi offensive.

Il governo israeliano ha offerto una serie di giustificazioni per l’incursione di Rafah: sconfiggere quattro battaglioni di Hamas, chiudere le rotte del contrabbando, fare pressione su Hamas affinché firmi un accordo per il rilascio degli ostaggi israeliani. Le famiglie degli ostaggi israeliani, da parte loro, hanno organizzato grandi manifestazioni chiedendo a Netanyahu di firmare immediatamente un accordo per liberare i prigionieri.

Un simile accordo era sul tavolo quando Israele ha preso il valico di frontiera, ma i funzionari israeliani hanno raddoppiato la loro promessa di conquistare Rafah con o senza un accordo.

L’UNICEF stima che le persone a Rafah dispongano di circa 3 litri a testa di acqua potabile al giorno e debbano usarla per bere, cucinare, pulire e lavarsi. L’agenzia afferma che per le popolazioni in emergenza si raccomanda un minimo di 15 litri a persona al giorno. Attualmente è presente un bagno ogni 850 persone. La dissenteria è dilagante, le donne e le ragazze non hanno un accesso costante ai prodotti sanitari e i pannolini per i bambini scarseggiano.

“Le persone non possono aspettare ore per usare il bagno o non si sentono sicure nel farlo. E così devono ricorrere ad altri metodi, come la defecazione all’aperto”, ha detto Ingram, funzionaria dell’UNICEF. “Quando si cammina per Rafah, spesso si vede e si sente l’odore e ci si deve muovere tra le perdite di acque reflue perché i sistemi igienico-sanitari non funzionano correttamente e le persone non hanno altre opzioni”.

Se Israele espandesse le sue operazioni a Rafah, provocando un esodo di massa di persone, le aree verso cui sarebbero costretti a fuggire non avrebbero nemmeno le infrastrutture fragili e inadeguate.

“È difficile immaginare che una situazione già così grave possa peggiorare, ma può peggiorare per queste persone se sono costrette a evacuare in un’area non sicura, priva dei servizi di base di cui hanno bisogno per sopravvivere. E a Rafah mancano già entrambe queste cose”, ha detto Ingram.

“Quando parliamo di bambini vulnerabili che sono sopravvissuti a sette mesi di guerra e che portano le cicatrici di quella guerra, sia fisicamente che psicologicamente, la loro capacità di trasferirsi in questo tipo di aree e sopravvivere lì viene compromessa perché sono esausti e traumatizzati, e hanno bisogno di maggiore supporto, non di meno”.

Jeremy Scahill è corrispondente veterano e redattore generale presso The Intercept. È uno dei tre redattori fondatori. È un giornalista investigativo, corrispondente di guerra e autore dei best-seller internazionali “Guerre Sporche: Il Mondo è Un Campo di Battaglia” e “Blackwater: L’ascesa del Mercenario più Potente del Mondo”. È stato corrispondente dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Somalia, dallo Yemen, dalla Nigeria, dall’ex Jugoslavia e da altre parti del mondo. Scahill è stato corrispondente per la sicurezza nazionale per The Nation e Democracy Now!. Il lavoro di Scahill ha dato il via a diverse indagini del Congresso e ha vinto alcuni dei più alti riconoscimenti del giornalismo. Ha ricevuto due volte il prestigioso Premio George Polk, nel 1998 per i servizi giornalistici esteri e nel 2008 per “Blackwater”. Scahill è un produttore e scrittore del pluripremiato “Guerre Sporche”, che è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel 2013 ed è stato nominato all’Oscar.

Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Israele vuole distruggere Gaza e annettere la Cisgiordania, ma i palestinesi cosa vogliono? – Ramzy Baroud

Ciò che sta succedendo nella Palestina occupata non è un conflitto fra, più o meno, uguali, ma un inequivocabile caso di occupazione militare illegale, apartheid, pulizia etnica e un vero e proprio genocidio di una parte pesantemente armata, Israele, contro un’altra largamente disarmata, i palestinesi. Coloro che insistono nell’usare un linguaggio “neutrale” per descrivere la crisi in Palestina stanno danneggiando il popolo palestinese ben oltre le loro parole apparentemente innocue.

Questo linguaggio moderato ed eticamente evasivo è quanto sta avvenendo ora a Gaza. È là che si sente di più il danno di questa “imparzialità”. “Se sei neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto il lato dell’oppressore,” disse il defunto arcivescovo Desmond Tutu, attivista anti apartheid sudafricano. La sua saggezza è eterna.

Se in tutto il mondo la maggioranza dei Paesi e delle persone non sta di certo prendendo le parti dell’oppressore israeliano, alcuni, intenzionalmente o meno, lo fanno. Ci sono quelli che stanno prendendo le parti di Israele alimentando e finanziando direttamente la macchina omicida israeliana nella Striscia di Gaza, mentre danno la colpa ai palestinesi per la guerra e il suo devastante impatto, come se la storia fosse cominciata solo il 7 ottobre: non è così.

Tuttavia sostenere Israele non implica solo la fornitura di armi,  i legami commerciali o proteggerlo da dover dar conto delle sue azioni ai sensi del diritto internazionale. Ignorare le priorità palestinesi e mettere in evidenza il dibattito politico e le aspettative israeliane sono anche un modo di sostenere Israele denigrando la Palestina e il suo popolo.

Fin dal 7 ottobre ci si è chiesti cosa Israele voglia a Gaza. Il 7 novembre mentre prometteva di distruggere Hamas, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele doveva mantenere “la responsabilità in materia di sicurezza” sulla Striscia di Gaza per “un periodo indefinito”.

Gli americani sono d’accordo. “Non si può tornare allo status quo,” ha detto il presidente USA Joe Biden il 26 ottobre, il che “significa garantire che Hamas non possa più terrorizzare Israele e usare i civili palestinesi come scudi umani.”

Gli europei, che si sono spesso presentati come partner equidistanti tra Israele e l’Autorità Palestinese, hanno adottato un atteggiamento simile. Per esempio Josep Borrell, capo della politica estera dell’UE, ha esposto una proposta per Gaza, includendo una versione “rinforzata” dell’attuale AP, “con una legittimità da definire e decidere da parte del Consiglio di Sicurezza [ONU]” invece che del popolo palestinese.

Appena è diventato ovvio che la resistenza palestinese era troppo forte per permettere a Israele di ottenere qualcuno dei suoi nobili obiettivi, funzionari governativi, esperti e analisti dei media hanno cominciato a mettere in guardia lo Stato di occupazione che nella Striscia non era possibile nessuna vittoria militare. Essi hanno sostenuto che Israele deve anche sviluppare una strategia “realistica” per governare Gaza dopo la distruzione della resistenza. Alcune di queste affermazioni sono state applaudite persino dai media filopalestinesi, arabi e mediorientali, come un esempio del cambiamento della narrazione occidentale sulla Palestina.

In realtà, però, la narrazione è rimasta la stessa. Quello che è cambiato è il livello senza precedenti della resilienza palestinese, sumud, che ha ispirato il mondo e spaventato gli alleati di Israele sul drammatico scenario che attende Tel Aviv se le sue forze di occupazione subissero una sconfitta totale a Gaza.

Anche se molti fra gli alleati occidentali di Israele possono essere sembrati critici verso Netanyahu, essi si stanno ancora comportandosi prima di tutto perché preoccupati per Tel Aviv, senza amore né rispetto per i palestinesi. Non c’è nulla di nuovo in tutto ciò.

Dalla distruzione della patria palestinese, la Nakba avvenuta nel 1948, sono emerse due narrazioni. Quella israeliana è stata abbracciata in toto dai principali media, politici e accademici occidentali che si sono impegnati a travisare il “conflitto”. Hanno descritto Israele come uno “Stato ebraico” che lotta per sopravvivere in un mondo arabo ostile e fra interessi arabi in competizione fra loro, e i palestinesi come faziosi e disuniti che si trovano d’accordo su una cosa sola: vogliono distruggere Israele.

La narrazione palestinese è che la giustizia è indivisibile e che la pietra angolare di ogni pace durevole in Palestina è la restituzione della loro patria ai rifugiati palestinesi spossessati, tramite il loro legittimo Diritto al Ritorno, che è stato sempre negato da Israele.

Quando nel 1967 Israele ha occupato il resto della Palestina storica ed esteso il suo sistema di apartheid ai territori recentemente occupati è stato solo naturale che la fine all’occupazione militare israeliana e lo smantellamento del sistema razzista diventasse una richiesta palestinese fondamentale. Tuttavia questo è avvenuto senza ignorare l’ingiustizia originaria che ha colpito tutti i palestinesi nel 1948.

Gli alleati di Israele in occidente hanno usato l’occupazione israeliana come un’opportunità per distogliere l’attenzione dalle cause alla radice del “conflitto”. Con il tempo hanno ridotto il dibattito sulla Palestina a quello delle colonie illegali che Israele ha cominciato a costruire, violando il diritto internazionale, dopo averne completato l’occupazione militare nel 1967.

Ogni palestinese che sostenga che il problema non è per niente un “conflitto” e che la causa prima è la creazione dello Stato di Israele in Palestina, era, e continua ad essere, definito un radicale o peggio. Questo pensiero riduzionista è ora applicato a Gaza, dove ogni riferimento storico è intenzionalmente accantonato e dove il discorso politico palestinese è evitato a favore del linguaggio menzognero di Israele.

Comunque, non importa quanto spesso i media occidentali continuino a parlare del “terrorismo palestinese” e della necessità di rilasciare gli ostaggi israeliani e di dare la priorità alla sicurezza israeliana, mentre ignorando il terrorismo israeliano, i detenuti e le aspirazioni politiche palestinesi non ci sarà una soluzione di questo problema, ora o in futuro, se i diritti palestinesi non sono accettati, rispettati e soddisfatti.

Né il suo passato né il suo futuro possono essere capiti o immaginati senza comprendere la lotta palestinese in tutta la Palestina, inclusa quella dei palestinesi autoctoni dell’odierno Israele, il 20% della sua popolazione.

Questa non è un’opinione, ma la vera essenza del dibattito politico proveniente da tutti i gruppi politici di Gaza. La stessa asserzione può essere fatta circa il dibattito politico dei palestinesi in Cisgiordania, nella Palestina storica, e di quelli della diaspora, shatat.

Israele e gli USA possono provare a immaginare tutti i futuri che vogliono per Gaza, e possono anche cercare di ottenere un futuro con missili, bombe stupide [a caduta libera] e missili anti bunker. Però nessuna potenza militare o dispiegamento di armamenti può alterare la storia o ridefinire la giustizia.

In definitiva quello che Gaza vuole è il riconoscimento dell’ingiustizia storica, il rispetto del diritto internazionale, la libertà per tutti i palestinesi e che Israele venga chiamato a rispondere giuridicamente dei suoi crimini. Queste non sono affatto posizioni estreme, specialmente quando paragonate alla molto evidente politica israeliana di distruggere Gaza, annettere la Cisgiordania e portare a termine la pulizia etnica del popolo palestinese. Washington e i suoi alleati occidentali capiranno e riconosceranno mai questo fatto?

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

da qui

 

 

Un palestinese rilasciato dal carcere israeliano descrive i pestaggi, la violenza sessuale e la tortura – Gideon Levy e Alex Levac

 

Amer Abu Halil, un abitante della Cisgiordania che è stato attivista di Hamas ed è stato incarcerato senza processo, racconta la quotidianità in tempo di guerra che ha vissuto nel carcere israeliano di Ketziot

Non vi è somiglianza tra il giovane seduto insieme a noi per ore nel suo cortile questa settimana e il video del suo rilascio dalla prigione la settimana scorsa. Nella clip lo stesso giovane – con la barba, trasandato, pallido e scarno – sembra camminare a stento; ora è ben curato e sfoggia una giacca rossa con un fazzoletto a quadretti infilato nel taschino. Per 192 giorni in prigione è stato costretto a indossare gli stessi abiti – forse questo spiega la sua attuale estrema eleganza.

E non vi è neppure somiglianza tra ciò che lui racconta in un ininterrotto fiume di parole che è difficile arrestare – resoconti sempre più scioccanti, uno dopo l’altro, supportati da date, esemplificazioni fisiche e nomi – e ciò che sapevamo finora riguardo a quanto accade nelle strutture carcerarie israeliane dall’inizio della guerra. Dal momento del suo rilascio lunedì della scorsa settimana non ha mai dormito di notte per la paura di essere nuovamente arrestato. E vedere un cane per strada lo terrorizza.

La testimonianza di Amer Abu Halil, della città di Dura vicino Hebron, già attivista di Hamas, su quanto avviene nel carcere di Ketziot nel Negev è persino più scioccante dello spaventoso racconto riportato su queste colonne un mese fa da un altro prigioniero, Munther Amira di 53 anni, detenuto nella prigione di Ofer. Amira paragonava la sua prigione a Guantanamo, Abu Halil chiama Abu Ghraib il suo carcere, evocando la famigerata struttura nell’Iraq di Saddam Hussein utilizzata in seguito dagli alleati dopo la caduta di Saddam.

Tra i candidati alle sanzioni USA il Servizio Penitenziario Israeliano dovrebbe essere il prossimo della lista. È palesemente l’ambito in cui gli istinti sadici del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir trovano sfogo.

Siamo stati accompagnati in visita a casa di Abu Halil a Dura questa settimana da due ricercatori sul campo di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: Manal al-Ja’bari e Basel al-Adrah. Il trentenne Abu Halil è sposato con la 27enne Bushra ed è padre di Tawfiq di 8 mesi, nato mentre lui era in prigione. Abu Halil lo ha incontrato per la prima volta la scorsa settimana, ma per lui è ancora emotivamente difficile tenere in braccio il neonato.

Abu Halil è laureato in comunicazioni all’università Al-Quds di Abu Dis, adiacente a Gerusalemme, dove è stato attivo nel settore scolastico di Hamas ed è un ex portavoce dell’agenzia palestinese per le comunicazioni cellulari e wireless Jawwal.

Dal suo primo arresto nel 2019 ha passato un periodo totale di 47 mesi nelle carceri israeliane, molti dei quali in “detenzione amministrativa” – in cui il detenuto non è sottoposto a processo. Una volta lo ha trattenuto anche l’Autorità Nazionale Palestinese, ma non ha riferito dell’interrogatorio. Come alcuni dei suoi fratelli Amer è attivista di Hamas, ma non è “una figura di spicco di Hamas”, dice nelle poche parole in ebraico apprese in carcere.

I fratelli: Umar, di 35 anni, vive in Qatar; Imru, che soffre di un tumore, è detenuto nel carcere di Ofer per la sua attività in Hamas e ha passato sette anni in carceri israeliane e 16 mesi in una prigione palestinese; il 23enne Amar è seduto con noi in una veste bianca e una kefiah – è imam della moschea di Dura e spera di ricoprire presto lo stesso ruolo in una moschea in Nord Carolina, dove vorrebbe emigrare. Dal 2013 tutti i fratelli – Amer, Amar, Imru e Umar, non si sono mai seduti insieme a un pranzo di festa. Qualcuno di loro era sempre in carcere.

Una volta Amer Abu Halil è stato convocato per un interrogatorio dal servizio di sicurezza (interna) Shin Bet con una telefonata a suo padre: “Perché ultimamente non sei andato a pregare in moschea?” gli ha chiesto l’agente dello Shin Bet. “La tua tranquillità è sospetta”. “Quando sono tranquillo mi sospettate, quando non lo sono, ugualmente”, ha detto a chi lo interrogava. Ecco come lo hanno “incastrato”, come si suol dire.

È passato da un interrogatorio all’altro fino al 4 dicembre 2022 quando la sua casa è stata devastata nel cuore della notte, lui è stato nuovamente arrestato e nuovamente posto in detenzione amministrativa senza processo. Questa volta è stata per 4 mesi, rinnovati per due volte, ogni volta per ulteriori 4 mesi. Abu Halil doveva essere scarcerato nel novembre 2023. Ma è scoppiata la guerra e nelle carceri è avvenuto un cambiamento radicale. I termini previsti per il rilascio di tutti i prigionieri di Hamas, tra i quali Abu Halil, sono stati prorogati automaticamente e radicalmente.

Nell’ultimo periodo lavorava come cuoco nel braccio del carcere riservato a Hamas. Il giovedì prima dello scoppio della guerra pensava di preparare dei falafel per i 60 detenuti del reparto, ma poi ha deciso di rimandare i falafel a sabato. Venerdì ha tenuto il sermone per le preghiere del pomeriggio ed ha parlato di speranza.

Sabato si è svegliato alle 6 del mattino per preparare i falafel. Ma i detenuti non avevano più il permesso di prepararsi il cibo o tenere sermoni. Poco più tardi Channel 13 trasmette immagini di fuoristrada di Hamas che attraversano Sderot e una pioggia di razzi sparati da Gaza cade nell’area del carcere, che si trova a nord di Gerusalemme, in Cisgiordania. “Allahu akbar” – “Dio è grande” – dicono i prigionieri di conseguenza, come una benedizione. Si sono rifugiati sotto i letti per ripararsi dai razzi; per un attimo hanno pensato che Israele fosse stato conquistato.

Intorno a mezzogiorno sono arrivati gli agenti penitenziari ed hanno requisito tutte le televisioni, le radio e i telefoni cellulari che erano stati fatti entrare di contrabbando. Il mattino seguente non hanno aperto le celle. L’ammanettamento, le percosse e le violenze sono cominciati il 9 ottobre. Il 15 ottobre numerose forze sono entrate nel carcere ed hanno confiscato tutti gli oggetti personali nelle celle, compresi orologi e addirittura l’anello che portava Abu Halil ed era appartenuto al defunto padre. Quello è stato l’inizio di 192 giorni durante i quali non ha potuto cambiarsi d’abito. La sua cella, prevista per ospitare cinque persone, ne conteneva 20, poi 15 e più di recente 10. Molti di loro dormivano sul pavimento.

Il 26 ottobre numerose forze dell’unità Keter del Servizio Penitenziario, un’unità di intervento tattico, accompagnate da cani di cui uno slegato, sono entrate nel carcere. I guardiani e i cani si sono scatenati attaccando i detenuti le cui urla hanno gettato nel terrore l’intera prigione, ricorda Abu Halil. I muri si sono presto imbrattati del sangue dei reclusi. “Voi siete Hamas, voi siete ISIS, avete stuprato, ucciso, rapito e adesso è arrivato il vostro turno”, ha detto una guardia ai prigionieri. I colpi che sono seguiti sono stati brutali, i detenuti sono stati incatenati.

Le percosse sono diventate quotidiane. A volte le guardie chiedevano ai prigionieri di baciare una bandiera israeliana e declamare “Am Yisrael Chai!” – “Il popolo di Israele vive”. Gli si ordinava anche di ingiuriare il profeta Maometto. La solita chiamata alla preghiera nelle celle è stata proibita. I prigionieri avevano paura di pronunciare qualunque parola con la iniziale “h” per timore che le guardie sospettassero che avessero detto “Hamas”.

Il 29 ottobre è stata interrotta la fornitura di acqua corrente nelle celle, tranne che tra le 14 e le 15,30. E a ogni cella veniva concessa solo una bottiglia per riempirla d’acqua per l’intero giorno, che doveva essere spartita tra 10 compagni, compreso l’uso del bagno dentro la cella. Le porte dei bagni erano state eliminate dalle guardie; i detenuti si coprivano con una coperta quando facevano i loro bisogni. Per evitare il fetore nella cella cercavano di trattenersi fino a che l’acqua fosse disponibile.

Durante l’ora e mezza in cui vi era acqua corrente i prigionieri assegnavano cinque minuti nel bagno ad ogni compagno di cella. In assenza di prodotti per la pulizia, pulivano la toilette e il pavimento con il poco shampoo che gli era fornito, usando le mani nude. Non vi era elettricità. Il pranzo consisteva in una piccola scodella di yogurt, due piccole salsicce mezze crude e sette fette di pane. Alla sera ricevevano una ciotolina di riso. A volte le guardie consegnavano il cibo gettandolo in terra.

Il 29 ottobre i detenuti nella cella di Abu Halil hanno chiesto uno straccio per pulire il pavimento. La risposta è stata mandare nella loro cella la terribile unità Keter. “Ora farete come i cani”, ha ordinato la guardia. Le mani dei prigionieri sono state ammanettate dietro la schiena. Anche prima di essere ammanettati è stato loro ordinato di muoversi solo con la schiena curva. Sono stati portati in cucina dove sono stati denudati e costretti a sdraiarsi uno sopra l’altro, una pila di 10 prigionieri nudi. Abu Halil era l’ultimo. Sono stati picchiati con bastoni e gli hanno sputato addosso.

Poi una guardia ha cominciato a infilare carote nell’ano di Abu Halil e degli altri prigionieri. Ora, seduto in casa raccontando la sua storia, Abu Halil abbassa lo sguardo e il flusso di parole rallenta. E’ molto in imbarazzo nel parlarne. Poi, continua, i cani si sono avventati su di loro attaccandoli. Infine gli è stato permesso di mettersi le mutande prima di essere riportati in cella, dove hanno trovato i loro vestiti gettati in un mucchio.

L’altoparlante nella stanza non taceva un secondo, con insulti al leader di Hamas Yahya Sinwar o una prova suono nel mezzo della notte sulle note di “Svegliatevi maiali!”, per privare del sonno i prigionieri. Le guardie druse insultavano e offendevano in arabo. Sono stati sottoposti a controlli con un metal detector mentre erano nudi e lo strumento è stato usato anche per colpire i testicoli. Durante un controllo di sicurezza il 2 novembre sono stati costretti a cantare “Am Yisrael am hazak” (“Il popolo di Israele è un popolo forte”), una variazione sul tema. I cani hanno urinato sui loro sottili materassi, lasciando un’orribile puzza. Un prigioniero, Othman Assi di Salfit, nella Cisgiordania centrale, ha implorato un trattamento meno severo: “Sono disabile”. Le guardie gli hanno detto: “Qui nessuno è disabile”, ma hanno acconsentito a togliergli le manette.

Ma il peggio doveva ancora arrivare.

5 novembre. Era una domenica pomeriggio, ricorda. L’amministrazione ha deciso di spostare i prigionieri di Hamas dal blocco 5 al blocco 6. I detenuti delle celle 10, 11 e 12 sono stati fatti uscire con le mani legate dietro la schiena e la solita camminata curva. Cinque guardie, i cui nomi Abu Halil riferisce, li hanno portati nella cucina. Sono stati nuovamente denudati. Questa volta sono stati presi a calci sui testicoli. Le guardie gli si avventavano addosso e colpivano, ancora ed ancora. Una brutalità senza tregua per 25 minuti. “Noi siamo Bruce Lee”, gridavano le guardie. Li hanno sbattuti e spinti come palle da un angolo all’altro della stanza, poi li hanno spostati nelle loro nuove celle del blocco 6.

Le guardie sostenevano di aver sentito Abu Halil dire una preghiera per Gaza. A sera l’unità Keter è entrata nella sua cella e ha cominciato a picchiare tutti, compreso il 51enne Ibrahim al-Zir di Betlemme, che è ancora in prigione. Aveva un occhio quasi fuori dall’orbita per i colpi. Poi i prigionieri sono stati fatti stendere a terra mentre le guardie li calpestavano. Abu Halil ha perso conoscenza. Due giorni dopo c’è stato un altro pestaggio ed è nuovamente svenuto. “Questa è la vostra seconda Nakba”, hanno detto le guardie, riferendosi alla catastrofe subita dai palestinesi quando fu fondato Israele. Una delle guardie ha colpito Abu Halil alla testa con un elmetto.

Tra il 15 e il 18 novembre sono stati picchiati tre volte al giorno. Il 18 novembre le guardie hanno chiesto chi di loro fosse di Hamas e nessuno ha risposto. I colpi non hanno tardato ad arrivare. Poi è stato chiesto “Chi di voi è Bassam?” Di nuovo nessuno ha risposto, perché nessuno di loro si chiamava Bassam – e di nuovo è stata chiamata l’unità Keter. Sono arrivati la sera. Abu Halil dice che questa volta è svenuto prima che lo colpissero, per lo spavento.

In quel periodo Tair Abu Asab, un prigioniero di 38 anni, è morto nel carcere di Ketziot. Si sospetta che sia stato picchiato a morte dalle guardie per aver rifiutato di chinare la testa come ordinato. 19 guardie sono state trattenute per essere interrogate col sospetto di aver aggredito Abu Asab. Tutte sono state rilasciate senza accuse.

In risposta ad una richiesta di commento, questa settimana il portavoce del Servizio Penitenziario ha inviato a Haaretz la seguente dichiarazione:

L’Autorità Penitenziaria è una delle organizzazioni di sicurezza di Israele ed agisce secondo la legge, sotto la stretta supervisione di molte autorità di controllo. Tutti i prigionieri sono trattenuti secondo la legge e con rigorosa protezione dei loro diritti fondamentali sotto la supervisione di un personale penitenziario professionale e qualificato.

Non conosciamo le denunce descritte (nel vostro articolo) e per quanto ne sappiamo non sono corrette. Tuttavia ogni prigioniero e detenuto ha il diritto di lamentarsi tramite i canali riconosciuti e i loro reclami verranno esaminati. L’organizzazione opera sulla base di una chiara politica di tolleranza zero di ogni azione che violi i valori del Servizio Penitenziario.

Riguardo alla morte del prigioniero dovreste contattare l’unità per le indagini degli agenti carcerari.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

da qui

 

 

Andrea Zhok – La lettera di 12 senatori Usa alla CPI: “Siete stati avvertiti”

Mentre l’esercito israeliano prosegue nella sua attività di bullismo omicida su Gaza, emerge la notizia della simpatica missiva inviata da 12 senatori statunitensi al procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Khan. Come noto la CPI sta valutando, bontà sua, l’incriminazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e di altri alti funzionari israeliani in quanto responsabili diretti del più grande massacro di civili nel più breve tempo dal 1945. Che siano stati compiuti crimini di guerra a mazzi su base quotidiana a Gaza lo sa chiunque non si sia informato sui nostri tiggì.

Ma ciò che merita qui menzione è lo spirito della lettera dei senatori americani, che dopo aver spiegato le loro ragioni, alquanto idiosincratiche, per cui l’incriminazione non dovrebbe avvenire, passano nella chiusa a toni più consoni alla cultura da cui provengono:

“If you issue a warrant for the arrest of the Israeli leadership, we will interpret this not only as a threat to Israel’s sovereignty but to the sovereignty of the United States. Our country demonstrated in the American Service-Members’ Protection Act the lengths to which we will go to protect that sovereignty. (…) Target Israel e we will target you. If you move forward with the measures indicated in the report, we will move to end all American support for the ICC, sanction your employees and associates, and bar you and your families from the United States. You have been warned.”

[Se emetterete un mandato d’arresto contro la leadership israeliana, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità di Israele ma anche alla sovranità degli Stati Uniti. Il nostro Paese ha dimostrato con l’American Service-Members’ Protection Act fino a che punto ci spingeremo per proteggere tale sovranità. (…) Prendete di mira Israele e noi prenderemo di mira voi. Se andrete avanti con le misure indicate nel rapporto, ci muoveremo per porre fine a tutto il sostegno americano alla CPI, sanzioneremo i vostri dipendenti e associati e bandiremo voi e le vostre famiglie dagli Stati Uniti. Siete stati avvertiti.]

Credo che questa lettera meriti un’adeguata riflessione.

Il primo elemento da osservare è il rapporto tra gli USA e la Corte Penale Internazionale. Gli USA (come Israele) non hanno mai sottoscritto il trattato di Roma del 1998 che istituiva la corte, non ne sono dunque membri e non si ritengono ad essa sottoposti, tuttavia la finanziano. Il finanziamento è naturalmente un modo elegante di influire sugli orientamenti della Corte, che procede con l’approvazione americana finché si occupa di violazioni dei diritti umani in Congo, Uganda, Sudan, Georgia, Burundi, Kenya, Libia, Costa d’Avorio, Mali e altri luoghi della “giungla” mondiale (cit. Borrell).

Il secondo elemento da osservare è il concetto di “ordine definito dalle regole” (rules-based order, noto anche come Liberal International Order) di cui gli USA e i loro vassalli si riempiono la bocca quotidianamente. Si tratta di un ordine ferreo e inflessibile, che può condurre anche all’annichilimento militare del violatore, salvo naturalmente il violatore non sia un amico, perché, come diceva Giovanni Giolitti, “per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano.” E questo perché, per dirla con le immortali parole del Marchese del Grillo: “Io so io e voi non siete un cazzo.”

 

Il terzo elemento da sottolineare è il tono dell’ingiunzione dei senatori americani, che è quantomai caratteristico. Un elemento di lungo corso di buona parte della cultura americana è infatti la brutalità interpretata come schiettezza, la rozzezza travestita da pragmatismo. Si tratta di un elemento che corre in profondità nella cultura statunitense, ed è distintamente legata al modo in cui è nata. Questo tratto nasce inizialmente come lodevole rigetto dei formalismi aristocratici della Vecchia Europa nel nome della veracità popolare e della concretezza della “frontiera”. Ma gli USA divennero purtroppo con grande rapidità una potenza mondiale nella loro storia, e ciò non gli diede il tempo di elaborare quella sottile cultura informale che, almeno fino alla recente americanizzazione, ha contraddistinto la cultura europea, anche popolare. Divenuti una grande potenza non c’era più ragione di credere che ci fosse qualcosa da imparare perché nella cultura americana chi vince ha sempre ragione (l’offesa più sanguinosa verso qualcuno è dargli del “perdente” (loser)).

 

Ed è perciò che molto frequentemente la cultura espressiva americana oscilla tra la recitazione plastificata del Bene più zuccheroso e la brutalità del gangster.

Nella lettera al procuratore generale della Corte Penale Internazionale il tono è affine a quello di chi sta per farti trovare una testa di cavallo sotto il lenzuolo, solo un po’ meno elegante di Don Vito Corleone, che almeno adoperava perifrasi come “gli faremo un’offerta che non può rifiutare”.

da qui

 

 

USA: si intensifica l’epurazione dei professori filo-palestinesi – Ivan Kesic

Nelle ultime settimane, a più di sei mesi dall’inizio della guerra israeliana contro la Striscia di Gaza assediata, i campus universitari di tutti gli Stati Uniti sono teatro di massicce proteste a favore della Palestina.

Le amministrazioni universitarie insieme alle forze dell’ordine hanno cercato di reprimere queste manifestazioni, facendo uso di forza indiscriminata. Tuttavia, gli studenti hanno mantenuto le loro posizioni.

Gli studenti di decine di università negli Stati Uniti stanno protestando contro la guerra genocida israeliana a Gaza, dove quasi 34.600 persone sono state uccise dall’ottobre dell’anno scorso, principalmente donne e bambini.

Più di 1.000 persone sono state arrestate nei campus universitari statunitensi dal 18 aprile, quando un accampamento filo-palestinese presso la Columbia University di New York è stato brutalmente sgomberato dalla polizia.

Questi studenti universitari sono stati supportati anche dai loro docenti in accampamenti pro-Gaza su vari campus, dalla Columbia a Yale, dalla California a Boston fino alla Virginia.

Mentre molti studenti sono stati picchiati, arrestati e sospesi dalle rispettive università per protestare contro la guerra genocida israeliana a Gaza e chiedere il disinvestimento delle loro università, ci sono notizie anche di professori licenziati e sospesi dai loro lavori di insegnamento.

In tutto ciò, il ruolo dei gruppi di pressione filo-israeliani negli Stati Uniti ha avuto un ruolo prominente, che tradizionalmente hanno esercitato la loro influenza sui campus universitari statunitensi.

Negli ultimi due giorni di aprile da soli, i media degli studenti nordamericani hanno riportato che almeno sei docenti dell’Università di Washington a St. Louis, quattro dei quali sono stati arrestati durante la protesta dell’accampamento del 27 aprile, sono stati effettivamente banditi dal campus.

La loro posizione di solidarietà con la Palestina, a quanto pare, ha causato la perdita del lavoro. A loro è stato proibito di comunicare con altri membri del personale e studenti dell’università, anche al di fuori del campus.

“Libertà di parola soppressa”

“La mia libertà di parola è stata effettivamente soppressa”, ha dichiarato il professor Bret Gustafson, docente di antropologia presso la Washington University, uno dei sei docenti sospesi.

Gustafson è diventato famoso lo scorso novembre quando ha sostenuto una protesta non violenta davanti alla casa del presidente dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), un potente gruppo di pressione filo-israeliano, chiedendo la fine della guerra israeliana contro Gaza.

È stato immediatamente travisato e falsamente accusato di sostenere “lanci di bombole del gas fuori dalle case degli ebrei” da parte di organizzazioni di lobby pro-israeliane negli Stati Uniti.

Appena un giorno prima dell’accampamento a St. Louis, durante una protesta presso l’Emory University di Atlanta, le professoresse Noëlle McAfee e Caroline Fohlin sono state arrestate per aver messo in discussione l’uso di forza ingiustificata da parte della polizia contro gli studenti dell’università.

Secondo gli esperti, il loro futuro nell’accademia statunitense sembra essere ora incerto, considerando il numero di professori banditi e sospesi dall’inizio della guerra contro Gaza.

Nel novembre 2023, appena un mese dopo che il regime israeliano ha lanciato la sua campagna di bombardamenti su Gaza, la University of Arizona ha “temporaneamente sostituito” il professore assistente Rebecca Lopez e la responsabile delle relazioni comunitarie Rebecca Zapien per aver facilitato una discussione in classe sui crimini di guerra del regime israeliano.

All’inizio di marzo, Jairo Fúnez-Flores, professore presso la Texas Tech University, un istituto educativo di punta del Texas Tech University System, è stato sospeso per commenti filo-palestinesi sulla piattaforma X (precedentemente Twitter), definiti “odiosi, antisemiti e inaccettabili”.

A gennaio, dopo una petizione promossa dalla lobby pro-israeliana negli Stati Uniti, il professor Amin Husain è stato licenziato dalla New York University per aver messo in discussione la narrazione israeliana sulla guerra contro Gaza.

Lunga tradizione di censura sionista dei professori

La lobby israeliana negli Stati Uniti ha sempre cercato di plasmare la politica nordamericana nei confronti del regime israeliano e della regione più ampia in modo favorevole all’entità occupante a Tel Aviv, e ciò include il silenziamento dei sostenitori della causa pro-palestinese nei campus americani.

Secondo William Robinson e Maryam Griffin, curatori del libro “Non saremo silenziati”, nel quale numerosi professori dei campus USA hanno parlato delle loro esperienze, l’influenza della lobby israeliana sull’accademia americana è senza precedenti in termini di risorse e pressioni.

Migliaia di studenti, attivisti e personaggi mediatici provenienti da dozzine di organizzazioni sioniste, finanziate con decine di milioni di dollari, prendono attivamente parte a questi tentativi di zittire le voci pro-Palestina.

Gli sforzi per proteggere il regime israeliano dalle critiche hanno preso di mira oratori individuali, professori ospiti e docenti invitati, con l’obiettivo di creare un’atmosfera in cui l’espressione libera e il dibattito aperto non esistono e in cui l’apartheid israeliano e l’occupazione non vengono messe in discussione.

Tra i più antichi esempi conosciuti di censura accademica di questo tipo ci sono le pressioni contro l’apparizione di Pete McCloskey alla Stanford University nel 1984, quando AIPAC si è affidato ad attivisti studenteschi.

McCloskey, ex alunno di Stanford e ex deputato, era anche un critico di spicco del sostegno incondizionato degli Stati Uniti al regime israeliano, alle sue politiche e agli insediamenti illegali nella Cisgiordania occupata.

Le organizzazioni sioniste lo diffamarono come “antisemita” e contribuirono a garantire la sua sconfitta nella sua campagna per il Senato del 1982, e in quell’occasione, chiesero che gli fosse impedito di insegnare o che includesse punti di vista pro-AIPAC nel programma del suo corso.

La revisione della facoltà dell’Università di Stanford trovò il gruppo studentesco pro-israeliano colpevole di gravi violazioni della libertà accademica, quindi McCloskey ricevette infine delle scuse formali dal provost dell’università.

Negazione dell’ospitalità ai relatori ospiti

Uno dei casi più notevoli è il divieto a Desmond Tutu, attivista di fama mondiale contro l’apartheid sudafricana, di tenere un discorso presso l’Università di St. Thomas nel Minnesota.

Fu invitato alla conferenza dai membri del programma di Studi sulla Giustizia e la Pace, e la sua partecipazione fu contrastata dall’Organizzazione Sionista d’America (ZOA) e dal Consiglio delle Relazioni Comunitarie Ebraiche del Minnesota e dei Dakota.

Come motivo della loro opposizione, le organizzazioni citarono “commenti particolarmente dolorosi” in cui Tutu aveva criticato le violazioni dei diritti umani del regime israeliano nei territori palestinesi occupati.

Il presidente dell’università cedette alla pressione della lobby israeliana e cancellò la visita di Tutu, comunicandoglielo in una lettera da Cris Toffolo, presidente del programma che lo aveva invitato.

Nella stessa lettera, Toffolo espresse il suo disaccordo con la decisione dell’università, e ciò spinse l’amministrazione di St. Thomas a rimuoverla rapidamente dalla carica di presidente del programma di Studi sulla Giustizia e la Pace.

Dopo un’ondata di critiche da parte degli studenti e della comunità internazionale, l’università inviò nuovamente un invito a Tutu, ma lui condizionò la sua venuta al ripristino di Toffolo alla sua precedente posizione, cosa che non avvenne, quindi lui rifiutò irrevocabilmente di tenere il tanto atteso discorso.

Una situazione simile si verificò alcuni anni prima quando l’Università di Harvard invitò Tom Paulin, professore di Oxford e uno dei più eminenti poeti britannici, a tenere un discorso presso il Dipartimento di Inglese.

L’invito fu ritirato dopo che allora il presidente di Harvard espresse la sua opposizione, a causa delle critiche di Paulin al sionismo e alle politiche dell’apartheid israeliano. Anche se il dipartimento successivamente annullò la decisione e inviò nuovamente l’invito, Paulin rifiutò di visitare il campus.

Vittime sia ebree che palestinesi-statunitensi

L’Università di Harvard ha visto numerosi altri casi di cancellazione di conferenze programmate da parte di critici del regime israeliano, tra cui lo storico Norman Finkelstein e il biologo Robert Trivers.

A causa della stessa campagna di pressione, Finkelstein ha perso il posto di professore alla DePaul University e la Anti-Defamation League e altri gruppi di pressione pro-Israele hanno chiesto agli editori accademici di bandire diversi suoi libri.

Anche Mehrene Larudee, assistente alla cattedra e membro di Jewish Voice for Peace, ha perso il suo posto alla DePaul University di Chicago a causa della sua difesa della Palestina.

Anche altri ebrei nordamericani di spicco, come Sara Roy, Noam Chomsky e Lisa Rofel, hanno dovuto affrontare la censura accademica per la loro opposizione al trattamento selvaggio dei palestinesi da parte del regime israeliano.

Professori americani-palestinesi, tra cui Joseph Massad, Rashid Khalidi, Edward Said, Nadia Abu El-Haj, Sami Al-Arian, Rabab Ibrahim Abdulhadi e Amin Husain, hanno dovuto affrontare molestie continue.

Il gruppo universitario pro-Israele The David Project (TDP), parte della più ampia Israel on Campus Coalition (ICC), ha prodotto nel 2004 il film diffamatorio Columbia Unbecoming, che accusava Massad di “antisemitismo”.

Una commissione universitaria ha poi interrogato più di cento persone nel campus e ha concluso che non c’erano dichiarazioni antisemite o altre dichiarazioni controverse da parte di Massad.

Sebbene sia stato assolto, hanno cercato di perseguitarlo con numerose e-mail contenenti materiale offensivo e minaccioso, e contro di lui è stata condotta una sistematica caccia ai media.

Anche Rashid Khalidi ed Edward Said hanno subito accuse simili e bombardamenti di e-mail con spam, così come il poeta Remi Kanazi, che durante le sue visite ai campus universitari statunitensi è stato sistematicamente attaccato attraverso i social network da eserciti di troll affiliati alla CPI.

Nel 2007, gli attivisti pro-Israele hanno cercato senza successo di negare la cattedra alla Columbia University alla professoressa di antropologia Nadia Abu El-Haj, solo perché in uno dei suoi libri aveva messo in discussione la manipolazione religiosa dell’archeologia a favore dell’odiosa ideologia sionista.

Sami Al-Arian, professore associato di origine palestinese, di informatica, presso l’Università della Florida del Sud, ha trascorso anni in prigione con false accuse di “terrorismo” ed è stato infine espulso dagli Stati Uniti nel febbraio 2015 in Turchia.

I gruppi sionisti hanno condotto una campagna diffamatoria simile contro Rabab Abdulhadi, direttrice degli studi sulle etnie arabe e musulmane e sulle diaspore presso la San Francisco State University, a causa delle sue opinioni filo-palestinesi.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

da qui

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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