Thea Djordjadze e Fausto Melotti alla Triennale di Milano
di Susanna Sinigaglia
Abbandonando un’era che abbiamo trovato invivibile
Entriamo, al primo piano della Triennale, in un grande ambiente pieno della luce che vi plana dalle ampie finestre e i lunghi lucernari. La giornata è bellissima e il parco è una cornice perfetta per questa mostra raffinata e sorprendente. Sorprendente perché le opere di Fausto Melotti che si affacciano dalle pareti – i “teatrini” – per i materiali usati, la stilizzazione delle figurine, per i soggetti scelti sembrano appartenere al progetto di una mostra futuribile e, insieme, almeno alcune ricordano le costruzioni in miniatura di interni, intagliati nel legno, con cui giocavano i bambini d’un tempo. Forse da tali caratteristiche è stata affascinata Thea Djordjadze, che con queste opere ha dialogato creando un allestimento semplice e discreto ma nello stesso tempo ben presente, intervenendo sullo spazio espositivo anche con grandi sculture che possono servire da posti dove
sedersi, per esempio, o sulle colonne portanti con un materiale simile a stucco che introduce un che di grezzo, una nota stonata nella sala altrimenti immacolata, quasi asettica nella sua luminosità e perfezione formale.
Probabilmente tuttavia, le affinità che la Djordjadze ha trovato nelle opere di Fausto Melotti sono molteplici e vanno dall’uso di tanti materiali diversi nella stessa creazione, al gusto per le linee minimaliste e il lato nascosto delle cose che traspare fin dal titolo della mostra.
Le opere possono essere raggruppate in tre categorie.
I teatrini veri e propri di terracotta, grezza o dipinta, a forma quadrata o rettangolare cui Melotti ha aggiunto in certi casi altri materiali – come il metallo o la stoffa – e il cui interno è suddiviso in ripiani sui quali sostano o si aggrovigliano le figurine; i titoli sono a volte semplici, a volte curiosi e un po’ misteriosi. Qui sotto vediamo, dall’alto in basso, “Teatrino per Scheiwiller”, “Il diavolo che tenta gli intellettuali” e “Le maldicenti”. Come si può osservare per quanto riguarda questo primo gruppo di opere, tranne che in alcuni casi come nel “Teatrino per Scheiwiller”, l’intervento della Diordjadze è piuttosto discreto, a volte quasi impercettibile.
Le scene “libere”, ossia non inquadrate in qualche struttura e su cui, in genere, è più evidente l’intervento di Thea Diordjadze: per esempio, “Gli addii”, dove troviamo l’ottone, il rame, il tessuto e il bronzo esaltati dalla struttura metallica scura da cui l’opera appare incorniciata;
o “Persiphae visita il Minotauro” in legno dipinto, ottone, ferro, tessuto, terracotta dipinta inserita nella struttura formata dal pannello rosso e dal ripiano argenteo;
o “Il passo della zingara”, di ottone (dipinto, ndr.) e tessuto, inquadrata da pannelli di metallo leggero.
Le opere dove prevale la pittura, particolarmente poetiche, come “Il gregge è fuggito” di gesso dipinto ma dove non mancano il legno, l’ottone e il bronzo;
o “Scale” di cartone dipinto, ottone e grafite.
Un discorso a parte meritano infine i disegni preparatori di alcune delle opere in mostra o semplicemente eseguiti e poi non utilizzati, tutti senza titolo, ma non per questo meno belli come i seguenti:
Una piccola mostra quindi, una trentina di opere in tutto, ma che porta alla luce certi aspetti ancora troppo poco noti dell’opera di Melotti (Rovereto, 8 giugno 1901 – Milano, 22 giugno 1986) e la sua attualità, sottolineata in modo magistrale e poetico da un’artista Thea Djordjadze (Tbilisi, Georgia, 1971), appartenente a un’altra generazione, a un altro retaggio culturale ma, come appare, non così diverso.