Torna «Il vicario» di Rolf Hochhuth
recensione di Susanna Sinigaglia allo spettacolo messo in scena (18-28 febbraio)da Rosario Tedesco al teatro Elfo-Puccini
Pubblicato nel 1963, il testo suscitò ai tempi entusiasmi e furori, fino alla censura cui fu sottoposta la sua rappresentazione a Roma, nel 1965. E non c’è purtroppo da stupirsene. Con questo dramma Hochhuth affronta il tema delle responsabilità del Vaticano, e in particolare di Pio XII, nella tragedia della Shoà a causa della scelta papale di non condannare pubblicamente i nazisti e il loro operato. Vi si dice, attraverso le parole del personaggio-sacerdote che si ribella ai silenzi del Vaticano, che se Pio XII avesse invitato tutte le parrocchie d’Europa a salvare gli ebrei e a opporsi alla loro deportazione, forse i nazisti non avrebbero osato continuare ad attuare i loro piani di genocidio. Oggi, dopo l’apertura degli archivi vaticani e il “mea culpa” pubblico di papa Wojtyla, il testo può essere tranquillamente rappresentato “anche” nei teatri italiani.
Sul palco della sala Bausch al teatro Elfo-Puccini, i leggii sono stati sistemati quasi a ridosso del pubblico. Gli attori si alternano sulla scena interpretando volta per volta personaggi diversi; solo l’attore che interpreta il giovane sacerdote ribelle ricopre sempre lo stesso ruolo. La recitazione è tesa: sfilano in scena il prelato tedesco cui all’inizio si rivolge il sacerdote ribelle per sollecitarne l’intercessione a difesa delle comunità ebraiche minacciate, l’ebreo nascosto e il militare finto nazista che lo protegge; l’ebreo opportunista e rinnegato che, malgrado le azioni abiette cui si piega per salvarsi, verrà comunque deportato; il medico torturatore (Mengele?), interpretato dall’unica donna in scena che nel corso dello spettacolo si cimenterà in vari ruoli maschili; il padre del giovane sacerdote che lavora in Vaticano e si schiera a sostegno del figlio; infine il papa, Pio XII, che impone ai suoi interlocutori o il silenzio o il linguaggio subdolo che evita di chiamare le cose con il loro vero nome sperando in questo modo di deviare lo sguardo dall’evidenza, la scarna e nuda verità. Conclude lo spettacolo la lettura di un testo struggente sempre di Hochhuth, intitolato «La lettera di una ragazza ebrea di Ostia», effettuata magistralmente da Moni Ovadia che ha svolto il ruolo di “testimone” della serata. Infatti nei dieci giorni della sua rappresentazione, lo spettacolo prevede l’intervento di un testimone diverso ogni volta che avrà il compito di concluderlo con la lettura, appunto, di quella lettera.
Scelgo spesso di non assistere a spettacoli o film sulla Shoà perché il carico emotivo che mi impongono non viene quasi mai compensato dal sollievo che infonderebbe la presenza di alcuni elementi essenziali, in grado di fornire al pubblico gli strumenti per contestualizzare criticamente la tragedia. Manca in genere, per esempio, la citazione – se non fuggevole e superficiale – delle altre vittime della follia (?) nazista come i disabili, i rom e gli omosessuali, che sono ancora fortemente discriminati. Oppure, forse di conseguenza, non si collegano i fatti di ieri a quelli di oggi in riferimento a guerre e genocidi che non solo si svolgono sotto i nostri occhi, ma alle cui vittime una parte di noi occidentali vorrebbe sbattere, anzi sbatte, la porta in faccia. Sorgono perciò due semplici domande: serve a qualcosa ricordare in questo modo la Shoà? e chi, adesso, dovrebbe pronunciare l’equivalente di quelle parole di salvezza che si rimprovera a Pio XII di non aver allora pronunciato?
Per maggiori informazioni e per la visione del testo della «Lettera di una ragazza ebrea di Ostia» vedi al link http://www.elfo.org/stagioni/20152016/ilvicario.html