«Da queste parti, quelli che parlano, rischiano». Queste parole si accompagnano a immagini che comunicano uno scenario distopico: un accatastarsi monumentale di centrali, silos, turbine, depositi, altiforni, pozzi, vasche, antenne, accanto a spiagge con bagnanti, mare esteso, campi coltivati, bestiame al pascolo e abitazioni.
Una ragazza fotografa il paesaggio costellato da onnipresenti ciminiere, un ragazzo incappucciato si aggira con una bomboletta fra bui capannoni, una donna al mercato si informa della provenienza di ogni prodotto.
Sono le battute iniziali del documentario Toxicily di François-Xavier Destors e Alfonso Pinto (Francia-Italia, 2023, 75’) che nasce per dare voce alle persone che vivono a nord di Siracusa, dove la quotidianità è avvelenata dalla convivenza con uno dei più grandi petrolchimici d’Europa.
NEL 1949 L’ARRIVO DELLA RAFFINERIA ha permesso di superare le miserie di un’economia agricola durissima e precaria.
I pescatori, i contadini e i pastori sono diventati a poco a poco operai, evitando così quell’ineluttabile destino che ha segnato generazioni di loro conterranei: l’emigrazione. L’opportunità di un lavoro stabile e duraturo è ancora il fattore alla base di una rassegnazione e di un silenzio sulle conseguenze di una gestione criminale degli impianti, che ha reso in 70 anni il territorio tra Augusta, Priolo, Gargallo e Melilli, fino alle porte di Siracusa, un vero e proprio «quadrilatero della morte»: i livelli di inquinamento di spingono oltre ogni immaginazione, basti pensare che nelle acque della rada di Augusta, le fabbriche hanno sversato senza soluzione di continuità sostanze tossiche di ogni tipo — mercurio, piombo, idrocarburi pesanti, esaclorobenzene e policlorobifenili.
Mescolandosi con i fondali hanno formato un impasto tossico gigantesco.
Cinquecento tonnellate dal 1959 al 1981 e poi si stima altre 250.
OLTRE LA RADA, POI, L’INQUINAMENTO si è insinuato dappertutto, ha pervaso il suolo e il sottosuolo, i pozzi d’acqua e anche l’aria.
Un avvelenamento progressivo e costante che in superficie si manifesta nel colore del mare, che da cristallino è diventato marrone e nell’odore nauseabondo che caratterizza ogni giornata; mentre in profondità, provoca tumori, malformazioni e altre patologie che nella zona raggiungono valori vertiginosi, al di sopra delle percentuali nazionali, come accertato annualmente dallo studio epidemiologico Sentieri. E’ così che la prospettiva lavorativa si è trasformata nel più classico dei ricatti: lavoro o salute.
«MEGLIO MORIRE DI CANCRO CHE DI FAME» è la frase agghiacciante che si sussurra fra le persone e grida dai muri.
Chi parla affinché questa ingiustizia non venga sottaciuta, come i protagonisti del documentario, non sempre è apprezzato. Le loro storie appena accennate sono le porte aperte su un universo tragico vissuto senza rassegnazione: don Palmiro, sacerdote, che dal 2014 tiene il conto delle persone di ogni età morte per cancro e le nomina ad una ad una durante la messa domenicale, Lina e sua figlia Chiara che dall’età di sette anni lotta contro una rara malformazione congenita, Andrea che ha tentato durante tutta la sua vita di operaio di limitare nel suo piccolo i danni dell’industria sull’ambiente e sulla salute, Nino che malgrado la sua cecità lotta contro l’inquinamento anche delle menti.
E POI C’E’ GIUSI, IL CUI PADRE, entrato in fabbrica all’età di 18 anni nella sezione lubrificati, si è ammalato di leucemia ed è morto quando lei stava facendo l’Università: un lutto che l’ha portata a decidere di cambiare corso di studi, da lingue a giurisprudenza, per poi specializzarsi in diritto dell’ambiente ed avere gli strumenti per individuare e far riconoscere i crimini commessi.
Giusi è fra le poche ma tenaci persone che fanno parte del comitato Stop veleni che dal 2014 cerca di ottenere giustizia. «Ci additano strumentalmente come quelli che vogliono far chiudere il petrolchimico, ma non è così. Sappiamo bene che sarebbe un disastro dal punto di vista lavorativo. Quello che vogliamo è mettere fine a questo sistema di sversare tutto nell’ambiente, di fregarsene totalmente delle normative e della salute della gente, devono mettersi in regola».
ANCHE GRAZIE AL LAVORO DI DENUNCIA, al momento sono aperti due filoni d’inchiesta: la prima denominata No Fly riguarda i miasmi industriali e le molestie olfattive che da anni torturano i cittadini residenti giorno e notte con turni regolari avvicendati, in base a come spirano i venti.
L’accusa iniziale è quella d’inquinamento ambientale in concorso. I dati di analisi raccolti da consulenti e tecnici hanno, nella buona sostanza, rilevato «concentrazioni stabilmente elevate delle sostanze» prese in considerazione dalle misurazioni effettuati presso le centraline di rilevamento; «ripetuti eventi di picchi di l’elevata concentrazione d’inquinanti», la mancata utilizzazione delle «migliori tecniche disponibili» da parte dei responsabili degli stabilimenti. In sintesi, gli stessi consulenti tecnici hanno altresì evidenziato di avere raccolto elementi che «inducono a ritenere che la qualità dell’aria nel territorio interessato si sia fortemente degradata».
NEL CORSO DELLE INDAGINI è stato disposto il sequestro del depuratore IAS di Priolo, un impianto dove convergono sia le acque urbane che quelle del polo petrolchimico, che secondo i magistrati non ha mai funzionato.
Un provvedimento ora messo a rischio dal cosiddetto decreto in stile «salva Ilva», quello che in caso di sequestro preventivo da parte dell’autorità giudiziaria di stabilimenti industriali dichiarati di interesse strategico nazionale o di impianti o infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva (il depuratore Ias, appunto), consente al giudice di autorizzare la prosecuzione dell’attività se sono state adottate misure di bilanciamento tra le esigenze dell’attività produttiva e dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente.
Tuttavia la procura di Siracusa ha sollevato di fronte alla Consulta la questione di legittimità costituzionale di una delle norme del decreto, si attende quindi una decisione da parte della corte costituzionale che per i residenti è cruciale.
L’ALTRO FILONE D’INCHIESTA RIGUARDA invece il nesso eziologico fra quanto immesso nell’ambiente dal petrolchimico e le malattie, al momento sono in corso le indagini preliminari. Il comitato stop veleni ha anche contribuito tramite un progetto di Citizen Science allo sviluppo dell’applicazione NOSE (Network for OdourSEnsitivity, Sistema di segnalazione emissioni odorigene) realizzata da CNR-ISAC ed Arpa Sicilia per consentire ai cittadini di segnalare, in maniera anonima, i miasmi avvertiti.
E mentre i cittadini si attivano, le istituzioni languono: nel 1998 la zona è stata dichiarata Sito d’interesse Nazionale (SIN) ai fini della bonifica dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del Mare. Sono passati 25 anni e non è ancora stata effettuata nessuna operazione di bonifica.
SELEZIONATO AL FIPADOC DI BIARRITZ, menzione speciale al Festival dei Popoli di Firenze, Toxicily arriva nei cinema con un tour che parte dalla Sicilia: il 18-19 aprile è stato proiettato a Palermo, il 19 a Messina e il 20 nella «sua» Siracusa, alla presenza dei registi e dei protagonisti. Sarà poi anche in Veneto e in Puglia, dove girerà dal 2 al 6 maggio a partire da Taranto.
(*) Tratto da Il Manifesto.
Qui l’intervista ad Alfonso Pinto su RaiNews.
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Sulla tragica situazione di inquinamento delle aree costiere e dell’ entroterra di Priolo, Melilli ( Augusta, Siracusa) gia’ parecchi decenni addietro Giuseppe Fava – giornalista, scrittore catanese, ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984 – mise in opera un importante docufilm ( 7 minuti), che testimoniava il dramma provocato dagli impianti chimici, alle persone residenti nella grande area territoriale e al contesto ambientale tutto.
Buona visione.
https://youtu.be/McfgxeFR3Ew?si=UttWw95uVQRjtgsc