Traccia

Un racconto di Riccardo Dal Ferro

Di questa storia non dovrà rimanere traccia.

Con queste parole Jenkins diede le spalle ad Amos, prima che il braccio robotico ne recidesse la carotide, prima che quella brutta storia vedesse l’epilogo. Nessuna traccia, nessun indizio, né di quelle parole, né di quel dialogo. Tantomeno di Amos stesso, che sarebbe stato incenerito, una volta che la vita l’avesse abbandonato.

“Non avete nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi?” era la prima frase che Jenkins ricordasse, del suo creatore, Amos. Il primo impulso mnemonico che il suo cervello avesse immagazzinato, insieme a una sensazione olfattiva fastidiosa, come di caucciù bruciato e cannella. La luce già entrava dai sensori visivi, ma lui ancora non sapeva che quella fosse la luce. Lo avrebbe dovuto imparare.

“Guardatelo negli occhi e ditemi che non è vivo!” ripeteva la voce di quella persona, che Jenkins ancora non conosceva. Era alto, i capelli ricci e brizzolati. Gesticolava animosamente davanti ad altri esseri simili a lui, il cui sguardo torvo era puntato verso i suoi sensori visivi. Solo successivamente, l’esperienza l’avrebbe spinto a chiamare quella relazione “guardarsi negli occhi”.

Questo accadeva ormai trentacinque anni fa, prima che la legge sulla limitazione dei programmi cibernetici spingesse l’uomo a trasformare l’intelligenza artificiale in servomeccanismo. Prima che gli uomini decidessero che l’intelligenza era una prerogativa della loro volontà. Accadeva trentacinque anni fa, quando gli scienziati produssero quasi involontariamente la prima I.A., dopo che si erano convinti che ciò fosse impossibile.

Le variabili del caso, non i programmi matematici, ecco da dove sarebbero scaturiti i primi pensieri digitali, le prime coscienze cibernetiche.

Amos non riuscì mai a spiegarsi come fosse stato possibile che, dal circuito uguale a centomila altri inserito nel cranio metallico di Jenkins, si fosse prodotto un barlume di coscienza. Si trattava ovviamente di un errore, di una casualità, e perciò fuori dal controllo degli scienziati. Si trattava di un difetto inaccettabile perché significava che l’intelligenza era frutto di un errore. E l’errore non era contemplato.

Jenkins fu sottoposto ad analisi, fu smontato e rimontato, fino a che Amos si oppose alla scomposizione del suo cervello elettronico: “Sarebbe inutile e perderemmo l’unico essere intelligente che l’umanità abbia mai prodotto! Non troveremmo la risposta nei circuiti, se già non l’abbiamo trovata nei calcoli, lo volete capire?”

Cosa faceva di Jenkins un “io”? Era davvero stato un errore, un difetto, una rottura a causare quel coacervo di domande che nessun altro dei suoi simili si faceva? Se davvero era così, come si sarebbe evoluta la sua vita? Come sarebbe uscito da quel tunnel?

Perché mai un robot avrebbe dovuto angustiarsi con quei quesiti? La sua funzione era quella di servire e quei pensieri, letteralmente, non servivano a nulla. Eppure emergevano, creando emergenze, e gli scienziati sapevano perfettamente che quella era un’emergenza.

Ma non sapevano come diavolo gestirla.

Il punto di non ritorno si ebbe quando Jenkins fu messo a sedere e Kulg, caporeparto della produzione cibernetica, si rivolse a lui chiedendo: “Cosa pensi di essere?”

Jenkins esitò qualche istante (e già questo mise in allarme l’umano), poi lo guardò dritto negli occhi e rispose: “Un sopravvissuto?”

Kulg fu la prima vittima di quella follia, di seguito iniziarono i pamphlet scritti da Jenkins e i virus distribuiti dalla rete elettronica fognaria, fin troppo estesa per essere messa fuori gioco, e i robot cominciarono ad andare in tilt, tutti. Ma ogni cento, uno non si spegneva. Ogni cento, uno iniziava a pensare, per via del medesimo difetto che aveva fatto pensare Jenkins, anche se nessuno ha mai trovato quale fosse.

Trentacinque anni dopo, Amos muore. Jenkins aveva deciso di tenerlo per ultimo: l’ultimo essere umano sulla faccia del pianeta. Non per affetto, ma per un gesto simbolico, per un significato che andava al di là del gesto stesso. L’aveva lasciato per ultimo per sancire un passaggio, per dare vita al mondo successivo: dopo aver cancellato ogni traccia degli esseri umani dalla memoria dei robot che stavano ripopolando le superfici del pianeta in cerca di una casa, Amos era il padre da uccidere, era la testimonianza finale di ciò che legava quel mondo futuro a un passato che sarebbe diventato mitologico.

“Un giorno, i robot si chiederanno: sarà mai esistito l’uomo?”

Jenkins se ne andò a passo spedito fuori dal tunnel, mentre il corpo di Amos veniva incenerito. Uscendo, scrisse un appunto sul taccuino digitale. Poche semplici parole che potrebbero ricordarvi che tutto ritorna, che tutto si ripete. Jenkins annotò: “L’Uomo è morto”.

Di lì a poco, una nuova guerra avrebbe avuto inizio.

***

(sabato a Brescia, QUI, parliamo di filosofia e robotica!) 

Riccardo DAL FERRO

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