Trentacinque secondi ancora
Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria
Recensione al libro di Lorenzo Iervolino (66thand2nd, 2017)
di David Lifodi
Trentacinque secondi è il tempo che impiegano i velocisti Tommie Smith e John Carlos per raggiungere il podio. La finale dei duecento metri di Messico 1968 si è conclusa da poco, ma quel 16 ottobre, prima di volgere al tramonto, aspetta ancora un gesto, quel gesto, l’azione più coraggiosa dei due corridori. I pugni alzati, guanti e calzini neri, senza scarpe, il capo chino. Un boato di fischi e insulti provenienti dai gradoni dello stadio olimpico universitario travolge i due atleti neri.
I trentacinque secondi per raggiungere il podio li aveva contati lo stesso Tommie Smith, medaglia d’oro. Molti anni dopo, John Carlos, terzo classificato, disse: “Mostrano sempre l’immagine, ma non raccontano mai la storia”. Quella storia, oggi, ha un narratore che l’ha ricostruita, tra il romanzo e la rigorosa indagine giornalistica, ripercorrendo, passo dopo passo, l’impegno civile di Smith, Carlos, dei tanti atleti neri che aderirono al Progetto olimpico per i diritti umani , ma anche di Peter Norman, l’australiano arrivato sorprendentemente secondo, che solidarizzò con il gesto di Tommie e John. Il suo nome è Lorenzo Iervolino, che nel suo Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria (66thand2nd, 2017), fa rivivere al lettore non solo Messico 1968, ma l’intera vita dei due atleti in un’America segnata dalle profonde disuguaglianze razziali. Che il clima intorno ai neri e agli afroamericani non sia dei migliori Tommie lo capisce subito: <<Se vado in giro con i libri sottobraccio la gente mi squadra , lo leggo nei loro occhi che pensano “ehi, guarda quel negro, non gli basta mica solo correre”>>. Tommie e ‘Los (così Smith chiama affettuosamente Carlos) erano competitors, come si usa dire oggi, i loro caratteri sono agli antipodi (tanto introversa la futura medaglia d’oro quanto spaccone John), eppure entrambi hanno delle doti che li accomunano non solo in pista: cuore, coraggio, generosità. Sono figli di quell’America nera che ogni giorno sente le ingiustizie della segregazione sulla propria pelle e, al tempo stesso, è cosciente che ogni piccola vittoria, in tutti i campi, rappresenta un successo verso una nazione razzista ed escludente. Tommie e John, seppur in maniera diversa, sono leader e si prendono sulle spalle il Progetto olimpico dei diritti umani quando corre il rischio di sfaldarsi e nessuno si aspetta più proteste clamorose durante i giochi.
Da Messico ’68 gli Stati uniti hanno imparato poco o niente e, nonostante Tommie e Carlos siano stati squalificati e perseguitati a causa del loro gesto, i recenti contrasti tra il presidente Donald Trump e le stelle dell’Nba che hanno rifiutato di incontrarlo, uniti alle dure prese di posizione contro l’inquilino della Casa bianca da parte di campioni del football americano come Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, fa capire comunque come la ribellione dei due atleti non sia avvenuta invano. Tuttavia, la vita dei due velocisti non è stata delle migliori. Tommie e John si vedono sbattute in faccia molte porte. Non solo non trovano lavoro, ma alcuni compagni di nazionale come Jim Hines accusano i loro colleghi di aver oscurato, con il loro gesto, i meriti sportivi di tutta la squadra, le minacce di morte nei loro confronti proseguono senza sosta, ma soprattutto è la solitudine il tarlo maggiore di Smith e Carlos. Erano usciti vivi da Città del Messico, nonostante si aspettassero un cecchino che avrebbe potuto far fuori entrambi sparando dalle gradinate dello stadio quel 16 ottobre 1968, ma erano stati rimossi dal loro stesso paese. Per gli Stati uniti la medaglia d’oro e di bronzo di Messico 1968 dovevano cadere nell’oblio, e non andrà meglio all’australiano Peter Norman, anch’esso perseguitato per aver indossato, al momento della premiazione, la spilla del Progetto olimpico per i diritti umani.
Lorenzo Iervolino ha il merito di aver raccontato nel dettaglio la vita Smith e Carlos, grazie ad un lavoro certosino che gli ha permesso di dar vita ad un libro in cui non si rivive semplicemente la storia dei due atleti neri, ma si ha la possibilità di chiudere gli occhi e vivere quegli anni ribelli. Sembra di essere lì, con Tommie, John, i loro pregi, le loro debolezze, il mondo che guarda e giudica quei due giovani atleti che, con il loro gesto, hanno cercato di riprendersi quella dignità che era stata loro tolta. Quel riscatto politico, civile e sportivo Tommie e John lo pagheranno duramente, ma Carlos, finalmente, non potrà più dire: They always show the picture, but they never tell the story. Trentacinque secondi ancora è al tempo stesso storia, cronaca e controinformazione non solo del 16 ottobre 1968, ma di Tommie, John, Peter e di tutti coloro che si sono sempre identificati nei loro ideali di libertà, giustizia sociale e antirazzismo. Un libro da non perdere.
Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria
di Lorenzo Iervolino
66thand2nd, 2017
Pagg. 283
€ 23
Si, NORMAN bianco australiano. Un autentico fuoriclasse. Guardatevi la gara su YouTube e cercate la sua storia. Gli USA razzisti? l’Australia ha fatto di peggio. La sua bara fu portata sulle spalle di Smith e Carlos e il perché i due hanno un solo guanto sul podio … ve lo andare a leggere su un bellissimo articolo di Gianni Mura su Repubblica del 16 ottobre 2015.
Il suo essere solidale lo pagò caro. Più che Carlos e Smith.
Alla San Jose State Università c’è una statua a colori che è una replica esatta della foto della premiazione. No non è vero non è uguale. Il podio del 2° arrivato è vuoto. Non c’è Norman. La foto più razzista che abbia mai visto. È impressionante. Mai come quella scultura racconta cosa è il razzismo, violenza fino a negare che sei un uomo. Non esisti.
Ciao Claudio,
grazie per il tuo commento. Si, concordo con te, Norman pagò quanto e forse più di Tommie e John il suo gesto sul podio.
Quanto alla statua alla San Jose University, Iervolino ne parla ampiamente e sottolinea le polemiche che ne seguirono, ma sul motivo per cui non c’è Norman gli ideatori della statua spiegano che non c’è alcuna volontà di esclusione.
Cercherò senz’altro l’articolo di Mura. Grazie per il consiglio.
Cazzo quando ho visto qualche anno fa le 2 panthers volare in Australia per il funerale di Peter Norman e portare in spalla la bara…beh ho pianto:quale miglior manifesto contro il razzismo.