Tua per sempre: la violenza sulla natura
di Giorgio Nebbia, dal numero 3 di «CNS – Ecologia politica» (*)
“Tua per sempre”. E’ il messaggio che ci arriva da ciascuna delle conseguenze negative, durature, di tante violenze ambientali cui sono esposte la nostra e molte future generazioni. Molti anni fa negli Stati Uniti un gruppo di studiosi pubblicò un libro intitolato: «Il ruolo dell’uomo nel cambiare la faccia della Terra», una storia delle modificazioni a lungo termine provocate dalle attività umane sulla natura, e quindi sulla salute e sul benessere umano. Diecimila anni fa gran parte della superficie del pianeta era coperta da foreste; i nostri antenati hanno imparato presto a trarre dal bosco legna per scaldarsi o per ricavare metalli dai minerali, per costruire solidi edifici o navi con cui solcare i mari e estendere i commerci.
L’impoverimento delle risorse forestali è stato tuttavia lento; ancora nel Medioevo era possibile andare da Roma a Parigi senza uscire mai dalle foreste; Federico II poteva andare a caccia nei boschi della Puglia. L’industrializzazione e l’aumento della popolazione e dei bisogni materiali hanno accelerato la distruzione di crescenti superfici dei boschi per conquistare campi coltivabili e per costruire grandi città; spazi di suolo sempre più grandi sono rimasti nudi, esposti alle piogge e all’erosione. Queste azioni sono la causa delle frane e alluvioni e dei relativi costi e dolori della nostra e delle future generazioni, eredità lasciataci da centinaia di generazioni del passato.
Peraltro non possiamo prendercela con i nostri predecessori perché (eccetto pochi filosofi o naturalisti inascoltati) non potevano prevedere la violenza a cui avrebbero condannato noi. Noi invece oggi sappiamo bene che molte nostre azioni avranno effetti negativi duraturi su quelli che verranno in futuro, eppure non smettiamo di compierle e anzi di aggravarle. Un breve elenco di queste violenze è contenuto in un recente numero della rivista «Resources». Intanto continuiamo anche noi nella distruzione delle foreste per accedere ai preziosi minerali nascosti nel loro sottosuolo, o per avere spazi liberi da coltivare con una agricoltura intensiva, pur sapendo che questo modo di produrre piante economiche alimentari, o destinate alla trasformazione in carburanti “biologici”, provoca altre alluvioni e sapendo che molti dei terreni strappati alle foreste, dopo poco tempo, diventano inadatti alla coltivazione di qualsiasi cosa da parte nostra e di chi verrà dopo di noi.
Altre modificazioni, durature nel futuro, della Terra sono provocate dall’inquinamento dell’atmosfera, dovuto al consumo di combustibili fossili e a molti processi industriali e responsabile del lento inarrestabile riscaldamento globale; è questa la causa delle improvvise tempeste, dei periodi di freddi intensi, dell’avanzata dei deserti e di mesi di siccità, spesso nelle stesse zone che poco prima erano state afflitte da devastanti piogge. I governanti dei vari Paesi del mondo si affannano nel proporre di rallentare tale inquinamento, cioè di inquinare ogni anno un po’ meno dell’anno precedente, facendo finta di dimenticare che i disastri climatici sono dovuti alla continua aggiunta di nuove masse di gas a quelli ormai esistenti e permanenti per secoli futuri.
Altri effetti e pericoli duraturi sono dovuti ai rifiuti solidi e liquidi che vengono immessi nell’ambiente; ci si scandalizza, giustamente, per quelli che bruciano all’aria aperta, ma si dimentica che altrettanto grave e inarrestabile è il danno potenziale anche di tutti i rifiuti che sono sepolti nel sottosuolo in innumerevoli luoghi sconosciuti, in Italia e in tutti i Paesi; gli agenti chimici presenti, di cui nessuno conosce natura o composizione o quantità, lentamente si disperdono nelle acque sotterranee e finiscono nei fiumi e nelle falde idriche che forniscono acqua per l’irrigazione e per le città. Anche in questo caso i governi, dopo breve indignazione, propongono bonifiche che non vengono portate a termine, o neanche avviate, sia perché costano, sia perché richiederebbero analisi e trattamenti a cui le università e le industrie sono impreparati. Si pensi soltanto che la mortale “diossina”, oggi sulla bocca di tutti benché presente da secoli nell’ambiente, quarant’anni fa era quasi sconosciuta.
E fra i rifiuti una posizione specialissima, per i duraturi pericoli e danni futuri, hanno quelli radioattivi, i residui delle attività di preparazione dell’uranio e del plutonio impiegati nelle bombe nucleari e nelle centrali nucleari commerciali. Le oltre quattrocento centrali nucleari che nel mondo ogni anno producono 2600 miliardi di chilowattore, il 12 % dell’elettricità totale, generano ogni anno come sottoprodotti centinaia di migliaia di tonnellate di elementi, radioattivi per secoli, che lasciamo come eredità a centinaia di future generazioni. Senza contare che sulle nostre teste il cielo è affollato da “spazzatura” costituita da pezzi dei satelliti artificiali che non funzionano più, e che spazzatura spaziale eterna – fino a quando non ci cascherà sulla testa – diventeranno in pochi decenni le migliaia di satelliti che oggi ci rendono felici con le trasmissioni televisive, o i collegamenti telefonici, o ci spiano anche quando andiamo a fare la spesa.
Voi direte che questo è il progresso, ma si potrà ben pensare un “progresso”, una “civiltà”, meno violenti per coloro che verranno. Se esiste (si fa per dire) una etica che impone rispetto del prossimo, vicino e contemporaneo, non sarà il caso di elaborare una etica che induca a rispettare il “prossimo del futuro” ?
(*) Riprendo questo testo dal numero 3 – molto ricco – della nuova serie on line della rivista «CNS – Ecologia Politica» (www.ecologiapolitica.org) della quale si è parlato più volte in blog. Ad accompagnare il nuovo numero questo breve appello: «Abbiamo lanciato una sottoscrizione, per far sì che la rivista possa continuare ad uscire e crescere. Troverete tutte le informazioni nella home page del nostro sito internet. Sperando di sentirvi numerosi con le vostre critiche e suggerimenti, cordiali saluti, per la redazione Giovanna Ricoveri e Giovanni Carrosio»