Turchia: le guerre di Erdogan e la speranza di Ocalan

Domani conferenza on line. A seguire potete leggere un’intervista a Chiara Maritato, l’analisi di Giuseppe Centomo e un invito a conoscere i libri di Apo (Abdullah Ocalan).

Democratizing the Middle East; Free Öcalan-Free Kurdistan

sabato 19 dicembre (ore 18) su www.facebook.com/Retekurdistan

 

Nel 2015 oltre 10 milioni di persone in tutto il mondo hanno sottoscritto una petizione per la liberazione di Abdullah Öcalan, sostenendo che «la libertà di Öcalan segnerà una svolta per la democratizzazione della Turchia e la pace in Kurdistan».

Più di cinque anni dopo, osserviamo quanto sia vero. Quando nel 2015, il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha interrotto i colloqui di pace fra lo Stato turco e il Partito dei Lavoratori curdo, di cui Öcalan è fondatore e portavoce, ha lanciato una nuova fase di attacco contro il popolo curdo. Una escalation di atti repressivi e violenti, partendo dalla militarizzazione del Bakur e l’invasione del nord Iraq, passando per la distruzione della città di Hasankeyf (patrimonio UNESCO allagata a causa dei lavori della diga di Ilisu) fino agli arresti di massa di giornalist*, avvocat*, attivist* ed esponenti del Partito Democratico dei Popoli e allo scioglimento di ogni forma di opposizione della società civile.

Nel frattempo le popolazioni della Siria settentrionale, ispirate da Öcalan e dal progetto politico del Confederalismo democratico, hanno dato via alla rivoluzione del Rojava, trasformando la loro terra in baluardo della democrazia in Medio Oriente.

Erdoğan ha deciso di annientare quest’esperienza sostenendo prima i fondamentalisti di Daesh, finanziando, fornendo armi e proteggendo lo Stato Islamico, per poi attaccare direttamente la Siria, a partire dall’occupazione di Afrin nel 2018 e alle più recenti occupazioni di Serêkaniyê e Girê Spî, senza fermarsi nemmeno durante la pandemia globale.

Consiglio d’Europa, Corte europea per i diritti umani e Comitato contro la tortura (CPT) non sono riusciti a garantire nemmeno i diritti umani basilari per Abdullah Öcalan e per l’autodeterminazione dei popoli di quella regione.

L’isolamento di Öcalan nel carcere di Imrali, la massiccia repressione all’interno delle regioni curde della Turchia e gli attacchi nel nord-est della Siria sono tutti aspetti dello stesso approccio: attaccare le forze della democrazia, soprattutto l’esperienza dell’autonomia curda, con ogni mezzo possibile.
La solidarietà internazionale deve rispondere! Sosteniamo la lotta per la libertà, la democrazia e la pace per i curdi e tutti i popoli del Medio Oriente.

Ne parliamo con :

Antonio Ruggieri – Giornalista, direttore della rivista “il bene Comune”

Giovanni Russo Spena – Portavoce del comitato “Libertà per Öcalan” già parlamentare, professore universitario.

Nilüfer Koç – portavoce per le relazioni internazionali del Congresso nazionale del Kurdistan

Salih Muslim – Membro del consiglio di co-presidenza del PYD in Rojava.

Chiara Cruciati – Giornalista del quotidiano “il manifesto”

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Turchia, nuove condanne per il golpe del 2016

di Marco Magnano (*)

Si è chiuso il processo contro i presunti responsabili del fallito colpo di Stato di quattro anni fa. Ma l’onda lunga di quegli eventi è lontana dall’esaurirsi. Intervista a Chiara Maritato (Università di Torino)

foto di Maurice Flesier: manifestazioni contro il colpo di Stato del 2016

 

Nell’estate del 2016, in Turchia andava in scena un tentativo di colpo di Stato con l’obiettivo di rovesciare il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Quell’azione fallì e fu seguita da una repressione durissima, che ha portato a decine di migliaia di licenziamenti, migliaia di arresti e a una più generale stretta sulle opposizioni politiche.

Lo scorso 26 novembre si è concluso il processo per le persone ritenute responsabili, soprattutto tra le gerarchie militari, chiudendo un cerchio le cui conseguenze sono ancora difficili da valutare in modo definitivo. Sono 337 le condanne all’ergastolo per questo colpo di Stato fallito, mentre altri 60 imputati sono stati condannati a pene minori e 75 sono stati assolti. Chiara Maritato, assegnista di ricerca del dipartimento di culture, politiche e società dell’università di Torino, racconta che «si condannano ufficiali dell’esercito soprattutto per aver organizzato, orchestrato e poi materialmente realizzato questo tentato golpe. Si tratta di ufficiali, molti dei quali di una base aerea vicino ad Ankara, Akıncı, che secondo l’accusa sono stati condannati perché da lì sono partiti gli ordini che hanno portato, per esempio, a bombardare il Parlamento, attuare quel colpo di Stato e di tentare di rovesciare il governo». Recentemente, Chiara Maritato ha presieduto, insieme a Bilge Yabanci (Università Ca’ Foscari di Venezia), un seminario organizzato dall’Università di Torino, insieme all’Università Ca’ Foscari di Venezia, l’Orientale di Napoli e l’Osservatorio Balcani e Caucaso–Transeuropa, dedicato allo stato dell’arte dell’opposizione a un potere sempre più presente.

Al di là delle cariche, chi viene condannato?

«È importante precisare che sono stati condannati all’ergastolo 100 ufficiali anche in riferimento all’appartenenza al movimento Gülen, movimento che era alleato di Erdogan, ma che secondo Ankara è dietro al colpo di Stato. L’accusa per questi ufficiali è di prendere ordini da Gülen,  l’ex alleato che oggi sta in Pennsylvania e che in questo modo avrebbe quindi fatto sì che venisse attuato il golpe. A partire soprattutto dal 2017, il movimento Gülen è considerato da Ankara un’organizzazione terroristica, proprio in virtù dell’accusa di aver partecipato alla realizzazione di questo colpo di Stato».

Al netto della natura terroristica o non terroristica, possiamo ritenere veramente l’organizzazione di Fethullah Gülen una realtà sovversiva rispetto all’ordine dello Stato turco?

«Possiamo dire che il movimento di Fethullah Gülen è stato da sempre, soprattutto con l’arrivo al potere di Erdogan, capace di inserirsi nelle istituzioni, anche appunto per la stessa volontà di Erdogan. Sono stati alleati, per Erdogan è stato sicuramente importante avere il supporto di questo movimento e dei suoi affiliati anche ovviamente per vincere le elezioni. Ma in cambio il movimento ha ottenuto che molti dei suoi membri entrassero poi a far parte delle istituzioni statali, anche in alte cariche dello Stato. Quindi non possiamo dire che il movimento fosse estraneo alla realtà politica o militare del Paese, proprio perché gli anni di governo avevano permesso di penetrare dentro la burocrazia. Questo ci porta a leggere poi il motivo delle “purghe”, delle espulsioni che ci sono state in seguito al colpo di Stato di molti dipendenti, della burocrazia, degli uffici pubblici, oltre che tra le più alte cariche dello Stato, proprio perché considerati appartenenti al Movimento Gülen. È importante ricordare però che in realtà i rapporti si erano incrinati già prima del colpo di Stato. Tutti ricordiamo le manifestazione di Gezi Park del 2013: nel dicembre di quell’anno e l’anno successivo, si era attuato il primo grande allontanamento tra l’ex alleato e il governo di Ankara. Quella delle tensioni tra i due leader va avanti da ben prima del colpo di Stato. Si tratta effettivamente di due leader, nel senso che ovviamente la loro alleanza sanciva poi una possibilità di governare il Paese, ma non c’è più spazio per entrambi, almeno al momento, in Turchia».

Quel golpe sarà pure fallito, ma ci ha consegnato una Turchia che vista dall’esterno è sicuramente diversa. C’è stato un reale cambiamento in termini di esercizio del potere?

«Sì, queste condanne non possono non richiamare altri arresti che senza sosta si stanno abbattendo sulla posizione politica e partitica in Turchia, oltre che appunto parlamentare. Se consideriamo il periodo post-Golpe, quindi negli ultimi quattro anni, ricordiamo che fino al 2018 la Turchia ha vissuto uno stato di emergenza, e che anche dopo il 2018 gli arresti hanno interessato giornalisti, attivisti, avvocati, difensori dei diritti umani, le opposizioni, in particolare il Partito Democratico dei Popoli (Halkların Demokratik Partisi – HDP), che ha molti esponenti in carcere, tra cui il leader Demirtas. Ultimamente continua anche la repressione nei confronti dei sindaci democraticamente eletti: a oggi si contano 151 sindaci eletti sospesi, di cui 73 in carcere. La maggior parte di questi sindaci appartengono proprio al Partito Democratico dei Popoli e sono stati eletti nel sud-est del Paese. L’accusa, anche qui, è di appartenere a organizzazioni terroristiche o di fare propaganda per esse. Questo ci fa comprendere prima di tutto l’erosione dello Stato di diritto, la presenza di una magistratura che sembra al servizio del potere politico. Ma credo ci sia anche un altro aspetto importante sia necessario aggiungere a questo quadro: quando i sindaci eletti vengono arrestati o sospesi, sono sostituiti da quelli che vengono chiamati Kayyum, quello che in Italia definiremmo “commissario”. È un termine che si utilizzava anche per riferirsi al guardiano della moschea, quindi un amministratore. In realtà si tratta di uomini vicini al governo, che si pongono alla guida di queste municipalità e che di fatto annullano la stessa funzione dei consigli comunali, per esempio non convocandoli. La politologa Sultan Tepe recentemente ha parlato di “Kayyumistan”, per indicare quella parte di Turchia che oggi trova amministrata con questa modalità. Non si tratta di comuni sparsi, una pratica che conosciamo anche bene nel nostro Paese, ma di un numero sempre maggiore di municipalità che sta quindi procedendo la sua vita politica senza rispettare la volontà espressa tramite le elezioni. Questo è un altro aspetto che sul lungo termine andrà a incidere su quella parte del paese».

Da un lato abbiamo una trasformazione in seno alla politica rappresentativa, dall’altra l’esperienza del 2016 ha dato vita a qualche nuovo movimento, soprattutto extra partitico, capace di rappresentare una nuova lettura dell’opposizione?

«Per quanto riguarda i movimenti sociali, in questi anni l’opposizione in Turchia ha continuato a svilupparsi nonostante la repressione. Penso soprattutto al movimento femminista, la pluralità di cui questo è costituito, ma che continua a opporsi ai numerosi tentativi di approvare per esempio leggi sul cosiddetto matrimonio riparatore, o a opporsi più di recente alla revoca della Convenzione di Istanbul contro la violenza contro le donne firmata dallo stesso governo dell’Akp, in un’altra fase della sua vita politica, nel 2011. Anche di recente, il 25 novembre, nella ricorrenza della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la polizia ha attaccato la manifestazione. Di recente sono anche riprese alcune movimentazioni sindacali, soprattutto per quanto riguarda i minatori che tentano continuamente gli scioperare per porre all’attenzione la scarsità di diritti di cui con cui sono costretti a lavorare. Questo sicuramente è stato acuito anche dalla profonda crisi economica, questa ripresa anche dei movimenti sindacali e anche a seguito della crisi economica del 2018, che dal 2018 soprattutto sta attraversando, sta continuando a essere forte in Turchia. C’è poi ovviamente una opposizione partitica, che è sotto attacco soprattutto dopo la vittoria alle elezioni municipali nell’estate del 2019. Anche qui, è soprattutto il partito filo-curdo HDP a continuare a essere oggetto di una forte repressione, o comunque di una forte attenzione da parte del governo».

(*) ripreso da riforma.it

Turchia e Recovery Fund: riflessioni di Giuseppe Centomo (del «Comitato libertà Ocalan») sul recente Consiglio d’Europa

Analizzare le decisioni del Consiglio Europeo di questa settimana – in particolare sul quadro finanziario pluriannuale / recovery fund e Turchia – implica necessariamente partire dalla constatazione di ciò che l’Europa e non ciò che potrebbe essere. Quest’ultimo dibattito ha tutt’altra natura rispetto agli obiettivi dei paragrafi seguenti, che più semplicemente cercano di evidenziare alcune delle ragioni principali di natura europea (non necessariamente italiano-centrica) che hanno condotto i Capi di Stato e di Governo UE a quel tipo di conclusioni formali piuttosto che altre. Dando così per acquisito che, viste da una prospettiva di sinistra democratica europea ed europeista, avrebbero dovuto essere tutt’altro, in particolare sulla Turchia la cui involuzione liberticida e profondamente antidemocratica è evidente a tutti.

Partiamo intanto dall’approvazione definitiva del sostanziale pacchetto finanziario composto dal quadro pluriannuale del bilancio UE per il periodo 2021-27 e dal recovery fund, per un totale di 1.800 miliardi di euro. Come noto, il problema principale da affrontare era il veto formale posto da Polonia ed Ungheria all’intero pacchetto poiché in esso si lega la futura erogazione dei fondi al rispetto dei principi democratici e dello stato diritto, con un appoggio esterno del governo sloveno (l’unico peraltro nell’UE ad essersi congratulato con Trump per la sua “rielezione” a inizi novembre, non è uno scherzo, limitiamoci qui a sorridere per non piangere e a citare un possibile “effetto Melania” di cittadinanza slovena…).

In realtà le armi di Orban e di Morawiecki erano spuntate sin dall’inizio, ma tali comunque da produrre potenziali effetti nocivi legati soprattutto a possibili ritardi nell’implementazione del recovery fund. È bastata la minaccia diretta della Presidente della Commissione Von den Leyen, con la complicità della Presidenza di turno tedesca del Consiglio, che Bruxelles avrebbe comunque proceduto con altri strumenti giuridico-finanziari escludendo dall’erogazione dei fondi i due reticenti per indurli al compromesso. Ciò è stato fatto offrendo ad Ungheria e Polonia una prima rassicurazione di carattere procedurale e formale, una seconda che circoscrive la natura del potenziale intervento UE, ed infine una terza più significativa che riguarda la data dell’entrata in funzione del nuovo meccanismo “fondi vs. democrazia”.

La prima rassicurazione è un insieme di principi generali ed anche generici accompagnati da un impianto comitatologico a cui la burocrazia UE è abituata. Si afferma che “l’applicazione del meccanismo di condizionalità a norma del regolamento sarà obiettiva, equa, imparziale e basata sui fatti, garantendo l’equità dei procedimenti, la non discriminazione e la parità di trattamento degli Stati membri” (come potrebbe essere altrimenti?) collegata ad “una metodologia” che la Commissione inventerà “in stretta consultazione con gli Stati membri”, e così via.

La seconda, che traspare dal linguaggio burocratico-formale tipico dei comunicati europei, limita in punto di diritto le ragioni politiche per le quali la Commissione potrà attivare il meccanismo di sanzione. Anche se poi, come sempre, rimarrà da vedere come saranno interpretati giuridicamente eventuali punti di conflitto. Quando nel documento finale del Consiglio Europeo si dice che “l’applicazione del meccanismo rispetterà il carattere sussidiario dello stesso”, o che “la semplice constatazione di una violazione dello Stato di diritto non è sufficiente ad attivarlo”, o (soprattutto) che i fattori di attivazione “vanno letti e applicati come un elenco chiuso di elementi omogenei e non devono essere aperti a fattori o eventi di diversa natura” non riguardando “carenze generalizzate”, ciò significa che la Commissione non potrà intervenire in qualsiasi circostanza o “contro” qualsiasi legge ad esempio di violazione dei diritti civili (si vedano le recenti iniziative anti-aborto in Polonia o anti-LGTBI in Ungheria). In sostanza, diciamo che la Commissione potrà farlo di fronte a violazioni del quadro costituzionale nazionale generale incompatibile con i principi democratici fondativi dell’UE. Di sicuro non mancano tali ragioni a Varsavia e Budapest. Va poi notato che il meccanismo è parte integrante del nuovo ciclo di bilancio e pertanto “si applicherà a decorrere dal 1° gennaio 2021” e “solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation EU”.

Infine, una terza rassicurazione di natura giuridica (dal sapore molto politico) che riguarda l’entrata in vigore del meccanismo “fondi vs. democrazia”. Il Consiglio Europeo ha deciso che “qualora venga introdotto un ricorso di annullamento in relazione al regolamento, le linee guida saranno messe a punto successivamente alla sentenza della Corte di giustizia, in modo da incorporarvi eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza (…) Fino alla messa a punto di tali linee guida la Commissione non proporrà misure a norma del regolamento”. Ungheria e Polonia, ovviamente, hanno già fatto sapere che si appelleranno alla Corte di Lussemburgo, è previsto che la procedura prenda tra i 12 e 18 mesi, il che significa spostare al 2023 l’entrata del meccanismo sanzionatorio. C’è una ragione non dichiarata alla base di questa decisione del Consiglio Europeo, ovvero che in quel frangente di tempo ci saranno elezioni politiche in entrambi in Paesi, e la speranza degli altri 25 Stati UE è che tali elezioni producano novità significative. In Polonia non si può escludere un cambio di maggioranza politica, più difficile immaginarlo almeno in questo momento in Ungheria, ma la scommessa silenziosa dei 25 è che se “cade la Polonia” l’ungherese Orban sarà ulteriormente isolato. Sempre che non sia qualche altro Paese tra i 25 ad “orbanizzarsi” nel frattempo…

Sulla Turchia, invece, il gioco è di tutt’altra natura. Una necessaria linea di fermezza contro Erdogan non esiste per varie ragioni, tra cui (soprattutto) le resistenze di Germania e… Italia. Non dimentichiamo che a nome del governo italiano il nostro Ministro degli Esteri di Maio, il Giggino nazionale, gioca un ruolo nefasto nel garantire impunità alla Turchia. Nulla è trapelato ad esempio dal suo colloquio telefonico avuto pochi giorni prima del Consiglio Europeo del 10-11 dicembre con l’omologo turco Cavusoglu, se non (confermano fonti turche) che hanno discusso di Unione Europea, Cipro e relazioni bilaterali.

L’Italia è ormai tra gli ostacoli principali all’elaborazione di una necessaria linea europea più severa e determinata nei confronti della Turchia.

Ricordando che il ragionamento qui proposto parte da ciò che l’Europa è, si può dire che il Consiglio Europeo ha sviluppato il suo ragionamento sulle relazioni con la Turchia su quattro punti principali, con un non detto che traspare nell’ultimo.

Il primo, è il giochino (inutile) del bastone e della carota che fa sorridere… Il Consiglio Europeo afferma che “la Turchia ha purtroppo intrapreso azioni unilaterali e lanciato provocazioni, così come ha intensificato la sua retorica nei confronti dell’UE, degli Stati membri dell’UE e dei leader europei”, salvo poi ribadire “l’interesse strategico dell’UE a sviluppare relazioni di cooperazione reciprocamente vantaggiose con la Turchia. L’offerta di un’agenda positiva UE- Turchia resta valida, a condizione che la Turchia si dimostri disponibile a promuovere un partenariato autentico con l’Unione e i suoi Stati membri e a risolvere le divergenze attraverso il dialogo e nel rispetto del diritto internazionale. Tale agenda potrebbe riguardare i settori dell’economia e del commercio, i contatti interpersonali, i dialoghi ad alto livello e il prosieguo della cooperazione in materia di migrazione. Il Consiglio europeo sottolinea l’importanza di mantenere aperti i canali di comunicazione tra l’UE e la Turchia”.

Il secondo, necessariamente più determinato perché riguarda un’aggressione diretta ai confini dell’Unione, riguarda la questione cipriota e le attività illegali in punto di diritto internazionale della Turchia nel Mediterraneo orientale. Il Consiglio Europeo “condanna le azioni intraprese unilateralmente dalla Turchia a Varosha (Cipro) e chiede il pieno rispetto delle risoluzioni 550 e 789 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”, “appoggia la rapida ripresa dei negoziati, sotto l’egida dell’ONU, continua ad impegnarsi pienamente a favore di una soluzione globale della questione cipriota nel quadro dell’ONU e in conformità delle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nonché in linea con i principi su cui si fonda l’UE, e si attende lo stesso dalla Turchia”.

Il terzo è relativo a (minori) nuove sanzioni mirate contro persone ed entità specifiche turche in relazione a quanto accade con le attività illegali della Turchia nel Mediterraneo rispetto al futuro sfruttamento dei giacimenti di gas. I Capi di Stato e di Governo UE invitano “il Consiglio ad adottare ulteriori inserimenti in elenco sulla base della sua decisione dell’11 novembre 2019 concernente misure restrittive in considerazione delle attività di trivellazione non autorizzate della Turchia nel Mediterraneo orientale”. Ad Erdogan non tremeranno certo le gambe, diciamo…

Più interessante, forse, è il quanto punto, che “invita l’alto rappresentante e la Commissione a presentare un rapporto sullo stato delle relazioni politiche, economiche e commerciali UE-Turchia nonché sugli strumenti e le opzioni relativi alla via da seguire, compresa l’estensione dell’ambito di applicazione della decisione summenzionata (ulteriori sanzioni, NDR), affinché tale rapporto possa essere esaminato al più tardi in occasione del Consiglio europeo di marzo 2021”, da mettere in relazioni con la volontà esplicita di “coordinarsi con gli Stati Uniti sulle questioni relative alla Turchia e alla situazione nel Mediterraneo orientale”. È evidente che l’UE attende l’insediamento a Washington di Joe Biden quale 46mo Presidente USA per capire come muoversi ulteriormente e in maniera coordinata con gli Stati Uniti nell’ambito di quelle che saranno le (sicuramente ritrovate) relazioni transatlantiche dopo l’incubo-Trump e le personali relazioni autocratiche di complicità Erdogan-Trump. Joe Biden non ha mai nascosto la sua avversità nei confronti di Erdogan, arrivando più volte a dire che il ruolo della sua amministrazione sarà anche quello di facilitare un’unione dell’opposizione in vista dei prossimi appuntamenti elettorali in Turchia, suscitando più volte le ire di Erdogan. Va poi notato che questo venerdì il Senato USA ha approvato a stragrande maggioranza il (massiccio) bilancio della sua politica industriale di difesa che contiene sanzioni politico-economiche contro la Turchia per le sue recenti decisioni in materia militare, si veda ad esempio l’acquisto del sistema missilistico russo S-400 che la NATO ritiene “incompatibile” con l’Alleanza. Il prevedibile tentativo europeo sarà certamente quello di stringere ulteriormente il cerchio attorno ad Erdogan coordinandosi con gli Stati Uniti, sapendo però anche che la NATO ed i vari circoli militari occidentali non vorranno “regalare” la Turchia alla Russia, e che Erdogan ha sin qui dimostrato di essere capace di giocare su vari piani sfruttando la posizione geostrategica importante del suo Paese.

È tempo di letture impegnative e liberatorie: gli scritti di Ocalan, il leader curdo in isolamento, da 21 anni, nel carcere dell’Isola di Imrali.

ABDULLAH ÖCALAN
SCRITTI DAL CARCERE

CIVILTÀ E VERITÀ

OLTRE LO STATO, IL POTERE E LA VIOLENZA

LA ROAD MAP VERSO I NEGOZIATI

IL PKK E LA QUESTIONE KURDA NEL XXI SECOLO

GLI EREDI DI GILGAMESH

Per saperne di più (sinossi, prezzi ecc): www.puntorosso.it/libri-di-ocalan.html

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La vignetta in alto è di Benigno Moi.

 

Redazione
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