Turchia: le password della rivolta
La prima impressione di Istanbul nel percorso dall’aereoporto al centro è di una città in pieno boom economico. Edifici nuovissimi, strade affollate, cantieri grandi e piccoli un po’ ovunque. I dati sembrano confermarlo: il Pil è cresciuto negli ultimi anni al ritmo dell’8,5 per cento fino ad arrivare anche all’11. L’anno scorso però si è fermato solo al 4 complice soprattutto la crisi della zona euro dalla quale la Turchia dipende per molti versi. E qui cominciano le contraddizioni che sono l’altra impressione che si coglie non appena si gratta via la patina di «modernismo» che Recep Tayyip Erdoğan, con il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ha impresso stando al governo di questo paese da almeno due legislature (sulla «politica populista neoliberale», con relativo boom di debiti per le classi medie e povere, esplosa in Turchia negli ultimi mesi ragiona Taylan Tosun in La resistenza di Gezi Park).
La prima, e la più evidente, è la convivenza di sfarzo e miseria. Non è improbabile girare per Istanbul e trovare ristoranti di lusso dietro l’angolo di case fatiscenti. Ma anche quella di un melting polt di «culture» e confessioni religiosi che fa in modo, tanto per dire, che il più importante centro religioso per la chiesa ortodossa abbia sede in un quartiere mussulmano. «Nulla di strano, è la nostra storia – racconta Sebastian, trentaquattro anni, nome di fantasia come è opportuno fare nella Turchia di oggi e guida per giri poco turistici in questo viaggio – ovvero quella di un paese con 8.500 anni di storia da sempre al confine tra oriente ed occidente». Una storia fatta di simboli moderni e antichi. Come quelli delle due mila moschee e dei loro minareti che cinque volte al giorno diffondono in città il canto dei muezzin declamati rigorosamente dal vivo. Per questo sono edificate tutte nella parte alta della città. Per farsi sentire e mostrare un senso tangibile di potere. «Come vorrebbe fare anche il nostro premier Erdoğan – continua Sebastian – che a a Çamlıca, su una delle colline più alte della città tanto che è sede di ripetitori televisivi, vorrebbe costruire una ennesima moschea per 25.000 persone». Un accenno per nulla casuale. Sebastian, è stato uno delle diverse migliaia di ragazzi che a ha cominciato ad occupare Gezi Park a fine maggio. Dopo qualche domanda più diretta lascia da parte il suo ruolo di accompagnatore turistico per raccontare un po’ di quelle giornate.
«Io non sapevo nulla di Gezi Park. E’ cominciato tutto da alcuni ragazzi che hanno visto il primo bulldozer cercare di abbattere gli alberi. Hanno chiamato alcuni amici costringendo gli operai ad andare via. A quel punto sono arrivati i primi poliziotti ma erano solo mille e noi già 50.000. Ecco perché hanno subito usato idranti, gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Il sabato successivo eravamo già 250.000 con molte persone che già si accampavano nel parco». Una mobilitazione spontanea e diffusa che conferma in questi giorni anche un sondaggio fatto dall’istituto Konda: solo il 15 per cento ha detto di essere in piazza per gli alberi contro il 49 per cento venuto per la violenza della polizia. L’età media è di 28 anni. Il 79 per cento non ha affiliazioni politiche e il 45 per cento protesta per la prima volta (su come la protesta non sia solo ecologica o simbolica ha scritto Wu Ming in #Occupy Landscape). Solo il 7 per cento è venuto a conoscenza della protesta tramite la tv, mentre il 15 per cento tramite amici. «E questo è ovvio – continua ancora Sebastian – i media sono pesantemente influenzati dal governo in Turchia. Durante i primi giorni di protesta hanno preferito mandare in onda documentari sui pinguini piuttosto che raccontare quello che stava succedendo in piazza. Per questo abbiamo utilizzato i social network; soprattutto Facebook e Twitter. Quando abbiamo capito che la polizia stava schermando i cellulari, gli abitanti vicino al parco per solidarizzare con la protesta hanno aperto il loro wifi mettendo alle finestre cartelli con username e password».
Una situazione di pressione che conosce gran parte della generazione di Sebastian. Qui il 40 per cento della popolazione è sotto i trent’anni, ha aspettative di diritti e benessere come quelli che sono formalmente assicurati ai coetanei europei ma vive un contesto sociale piuttosto conservatore. «Il problema con Erdogan – continua ancora Sebastian – è che ha vinto le elezioni con poco più del 50 per cento ma pensa di poter decidere tutto: dalle grandi opere alle limitazioni sull’aborto. Dall’imposizioni sul numero di figli alla nuova legge per vietare l’alcol. Questo è il mio paese non voglio vederlo cambiare così. Dove non c’è una legge che lo dichiara esplicitamente ma perfino le effeusioni in pubblico sono vietate».
Il primo banco di prova sarà il prossimo Gay Pride che si tiene ogni anno da quattro anni anche ad Istanbul. Quest’anno sarà il 30 giugno e dopo un primo divieto i manifestanti hanno ottenuto il fatto che partirà da Gazi Park. Si aspettano almeno cento mila partecipanti. «Il suo problema – conclude Sebastian – è che nel marzo 2014 ci saranno le legislative ed il partito di Erdogan corre per una nuova conferma e per assicurare alla Turchia un ruolo tra le nazioni che contano al mondo. Per questo è importante l’attenzione dei media sulle nostre proteste, perché questo governo ci deve ascoltare e soprattutto deve smettere con le violenze e le intimidazioni che hanno prima portato in carcere quarantanove avvocati, e solo perché erano difensori dei manifestanti, per poi rilasciarli dopo tre ore».
Articolo su puublicato su Comune-Info.net