Two Guns Bob, a Lonely Cowboy
di Michele Tetro
Recensione di «Sfida al Canyon infernale» di Robert E. Howard, Fratini Editore.
«Era un cowboy solitario, e viaggiava tutto solo…»: Elvis Presley avrebbe potuto benissimo avere in mente Robert E. Howard in questa sua canzone. Howard, scrittore pulp per eccellenza degli anni Trenta, considerato l’inventore del sottogenere fantastico Sword and Sorcery (Spada e Stregoneria), padre narrativo di barbarici e sanguinanti eroi come Conan il Cimmero, Kull di Valusia, Bran Mak Morn, Solomon Kane, poeta e narratore versato in ogni genere di avventura basata su azione, azione, azione, era fondamentalmente questo: un puro cowboy texano, in più particolarmente dotato nello scrivere. Lo era nell’animo, nella mente, nel contesto storico (gli anni della Depressione americana, il boom del petrolio) e geografico (nato nel cuore desertico del Texas), nelle attitudini, nelle bravate (vere o immaginarie), nelle idiosincrasie, nelle amicizie e nelle rivalità. Un cowboy letterato. E ogni racconto da lui scritto è in realtà un western, nonostante appartenga nominalmente ad altri generi, perché in ogni suo racconto lui è sempre presente anima e cuore. Ormai notissimo anche in Italia, soprattutto per le saghe fantasy, per i fumetti e le versioni cinematografiche tratte dalle sue opere, Howard era praticamente ancora sconosciuto proprio come autore di western, il genere che poco prima di morire aveva ipotizzato come suo definitivo campo d’interesse, esaurita l’inventiva puramente fantasy con l’ultimo racconto di Conan Chiodi rossi. Profondo conoscitore di tutte le vicende storiche texane, degli usi e dei costumi, Howard scrisse molte novelle western, adottando anche lo strumento della parodia. Ma gli otto racconti compresi nell’antologia «Sfida al canyon infernale» – edita da Fratini nella collana pulp Mellonta Tauta (e acquistabile solo sul sito dell’editore) che va finalmente a coprire una zona ignota della conoscenza italiana di questo mercuriale autore) – sono la quintessenza del vero western, con tutti gli ingredienti che ci aspetteremmo di trovare: eroi e banditi, cavalieri solitari e biscazzieri, ladri di bestiame e soldati, fanciulle in pericolo e cercatori d’oro, praterie infinite e montagne scoscese, fumosi saloon e canyons frastagliati, sparatorie rimbombanti e galoppate forsennate, il tutto con taglio cinematografico perfettamente visivo e nell’ottica della regola d’oro della narrativa pulp, quel celebre diktat editoriale all action che voleva che allo sceriffo si sparasse nel primo paragrafo. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, a livello contenutistico? Nessuna nuova prospettiva di lettura, nessuna pretesa di revisionismo storico, nessuna ricerca di nuovi stilemi inediti? Via, queste cose non ci interessano, di fronte al fatto che questi racconti li ha scritti un vero cowboy, quel Two Guns Bob che era capace di viverli in prima persona e farli vivere altrettanto profondamente al suo lettore. Perché Howard è davvero vivo, dentro queste rutilanti novelle, come lo era in ogni altro suo racconto, e questa era la chiave della sua straordinaria popolarità, ieri come oggi. E se il lettore abituato alle scorrerie tutte muscoli, spada e magia del suo prediletto Conan potesse esitare di fronte a questa raccolta, non perda invece l’occasione di leggerla, perché Conan vi è presente, senza dubbio, nel racconto «Il nido dell’avvoltoio». Ed è proprio lui, anche se si chiama Big Mac ed è «un mandriano texano dalle spalle ampie, torace incassato, muscoli duri come l’acciaio, occhi di un vulcanico azzurro e capelli neri, ricci e mossi». Non ha la spada, ma una .45 dal calcio consunto dall’uso, «che aveva ruggito durante numerose faide e guerre di confine scoppiate tra cowboy dal Sabine fino al Milk». Godetevi la galoppata, godetevi le avventure del cantore giunto dal Texas… ne vale la pena.