Le guerre che saranno, la guerra che è già

    1. “Ue chiama alle armi” (*)
    2.  nave Usa fa scalo a Livorno per portare armi di Camp darby in Medio Oriente (**)
    3. Armi all’Arabia Saudita, Moby rivela: “Trasporto su precisa richiesta (o prepotente pressione informale??????????????)  del Ministero della Difesa”.
    4. L’ industria miltare pilastro del sistema Italia (***)

 

Difesa comune europea, l’UE chiama alle armi

L’Europa chiama alle armi. Certo, non per una guerra, ma sempre di soldati e carri armati stiamo parlando. Esercito europeo, integrazione militare o cooperazione sulla sicurezza, le alternative sul tavolo sono diverse. Quello che è certo è che Bruxelles intende seguire la formula più Europa anche nel campo della sicurezza.Il rapporto Riflessioni sul futuro di una difesa comune europea della Commissione europea tratta approfonditamente l’argomento. Il paper segue le considerazioni contenute all’interno del Libro bianco sul futuro dell’Unione europea presentato pochi giorni prima del vertice di Roma del 25 marzo, in cui Capi di Stato e Governo dei Paesi membri e le alte cariche dell’Unione si incontrarono per celebrare i 60 anni dal Trattato costitutivo della Cee. E per rilanciare l’integrazione di un’Europa percepita oramai come obsoleta.“L’Ue ha portato un lungo periodo di pace nel continente” si legge nell’incipit del documento. Un settantennio di prosperità che tuttavia “risulta ora a rischio per l’instabilità dei Paesi confinanti, come per il sorgere di nuove minacce globali, che costituiscono una sfida alla sicurezza comune”.E ancora, “i cittadini sono sempre più preoccupati a causa di queste nuove minacce, e confidano che l’Unione salvaguardi la loro sicurezza” sostiene lo studio, che evidenzia poi quanto sia necessario che “la difesa e la sicurezza debbano avere un ruolo di primo piano nel futuro del progetto europeo”.

I Paesi dell’Est Europa che si trovano ad affrontare minacce legate alla sicurezza militare ed energetica; il diffondersi di conflitti nei Paesi del Mediterraneo e in vaste aree dell’Africa sub-sahariana e l’emersione di vuoti di potere che vengono spesso riempiti da gruppi terroristici e criminali; e ancora, l’aumento delle tensioni tra potenze e un drammatico exploit delle vittime civili nei conflitti regionali, che comporta crisi migratorie di vaste proporzioni – sono circa 60 milioni gli sfollati di tutto il mondo; last but not least, i cambiamenti climatici e la crisi demografica che contribuiscono all’instabilità globale. Queste saranno le prossime sfide che l’Europa si troverà ad affrontare nei prossimi anni.

Le perplessità e le incognite sul futuro dell’Unione sul fronte della difesa sono ancora molte. Ma su una cosa la Commissione non ha dubbi, e mette nero su bianco che “l’Europa assieme agli Stati Uniti e ai loro alleati devono contribuire al mantenimento della pace e della stabilità globale”. Ma per fare questo, secondo Bruxelles, è necessario che l’Ue “spenda di più per la difesa, spenda meglio, e spenda assieme”.

E stavolta sono i cittadini che lo chiedono all’Europa, e non il contrario: secondo un sondaggio di Eurobarometro, dal 2002 al 2016 la percentuale di cittadini europei che chiede una sicurezza e una difesa comune non è mai scesa sotto il 70%, con una punta, nell’ultimo anno, vicina al 77%. Mentre alla domanda “secondo te l’Europa dovrebbe contare di più nel mondo”, quasi il 70% ha risposto in maniera affermativa.

Ma quali sono i limiti che il Vecchio continente si trova ad affrontare? Mercati della difesa frammentati, mancanza di inter-operabilità, contributi diversi a seconda degli Stati. “In un mondo connesso e complesso, gli Stati membri europei sono troppo piccoli per provvedere alla loro difesa”, sostiene il paper, mentre “le potenze continentali sono molto meglio attrezzate potendo contare su economie di scala di vaste dimensioni per migliorare l’efficacia e l’efficienza della difesa”.

Ma l’Europa si trova ad affrontare, da una parte, i vincoli fiscali imposti dai trattati, cosa che frena gli investimenti; dall’altra a fare concorrenza alle superpotenze che spendono molto di più nel budget della difesa, soprattutto per quanto riguarda la ricerca che permette il riammodernamento di armi e armamenti. Per accogliere queste sfide, secondo la Commissione, è necessario “integrare le capacità tecnologiche e industriali degli Stati membri”.

Lo studio riporta poi alcuni dati del Sipri per farci capire quanto spendiamo poco. Secondo l’istituto di Stoccolma, l’Europa a 28 spende 227 bilioni di euro all’anno, l’1,34% del Pil complessivo; gli Usa invece spendono quasi il doppio: 545 bilioni, il 3,3% del prodotto interno. Le cifre sono diverse anche per quanto riguarda gli investimenti per singolo soldato: rispetto all’Unione, gli Usa spendono il quadruplo – 27 milioni di euro contro 108. Le tipologie di armi usate sono molto più omogenee negli States – se ne contano circa 30 tipologie – rispetto all’Europa (dove sono 178).

E quindi che fare? Il documento delinea alcune strategie da adottare entro il 2025. In primo luogo è necessaria più cooperazione tra i Paesi dell’Unione. In secondo luogo, serve una definizione delle sfide e delle minacce comuni, che in alcuni casi variano da Paese a paese: per questo servono decisioni e azioni comuni, quanto una solidarietà finanziaria a livello europeo. In terzo luogo, serve rafforzare la cooperazione di difesa con l’Alleanza atlantica, visto che ben 21 Paesi su 28 sono membri Nato. Bisogna poi aumentare i campi di applicazione nella spesa per la difesa: per raggiungere questo obiettivo bisogna, innanzitutto, aumentare di circa il doppio i budget militari dei singoli Paesi e istituire un coordinamento a livello europeo della spesa e la creazione, oltre a un Fondo europeo di difesa comune per aumentare l’efficienza delle forze armate di tutto il continente. Infine, serve un mercato unico della difesa: questo significa un incoraggiamento la concorrenza industriale, l’accesso delle industrie più piccole nella catena di approvvigionamento, la possibilità per i fornitori di sfruttare economie di scala, un’ottimizzazione della capacità produttiva e una diminuzione dei costi.

Il documento, infine, ipotizza tre scenari da qui al 2025: situazioni che non sono né definitive né che si escludono l’una con l’altra, ma che possono essere viste come fasi verso la costituzione di una difesa europea comune.

Il primo scenario si basa sulla complementarietà degli sforzi finanziari tra Stati membri e organismi prettamente europei: nel raggiungimento degli obiettivi viene introdotto il criterio di solidarietà finanziaria tra i Paesi (chi ha di più contribuisce maggiormente, e viceversa). Il modus operandi è quello di una cooperazione sulla sicurezza e sulla difesa comune senza arrivare all’integrazione o alla costituzione di una forza comune, con l’Europa che supporta gli sforzi sostenuti dagli Stati membri. Capisaldi di questa fase sono la gestione delle crisi di bassa entità, una cooperazione tra le intelligence dei Paesi nello scambio di informazioni e missioni di capacity building. Continua come allo stato attuale, invece, la cooperazione tra Ue e Nato.

Nel secondo scenario l’Unione integra gli sforzi degli Stati, e la solidarietà finanziaria diviene la norma. Nello specifico, questo scenario prevede l’avvio di programmi di cooperazione per salvaguardare la sicurezza sia internamente che esternamente, attraverso una più serrata collaborazione tra i servizi segreti degli stati membri, un potenziamento della Guardia Costiera Europea e una gestione comune anche delle crisi più complesse. In questo caso l’UE e l’Alleanza atlantica intensificano gli sforzi di cooperazione per coprire un più ampio spettro di crisi. La costituzione di un Fondo Comune di difesa europea permetterebbe agli Stati di acquisire capacità omogenee in diversi settori (ad esempio il pilotaggio di aerei o la difesa satellitare) e di costituire un budget unitario per la difesa europea.

Il terzo e ultimo scenario vede la costituzione di una vera e propria difesa comune, come previsto dal Trattato sull’Unione europea. È lo scenario più avanzato tra quelli esaminati: in questo caso, un vero e proprio organismo esecutivo sarebbe deputato a dirigere le operazioni di sicurezza europee, monitorare e valutare le minacce comuni. Si prevede inoltre la costituzione di unità comune sulla cyber sicurezza, di un Servizio Civile Europeo e la Guardia Costiera Europea diverrebbe l’unico organismo a proteggere i confini. Il bilancio e i finanziamenti ai singoli Stati diverrebbero affare dell’Europa. Nato e Ue diventerebbero organismi perfettamente complementari.

Alla fine, arriva un auspicio: “Le iniziative attualmente in corso indicano chiaramente che gli Stati membri e le istituzioni dell’UE hanno già intrapreso questa strada”, dice lo studio, che poi si domanda: “Ma quanto rapidamente gli Stati membri vogliono costruire un’autentica Unione europea per la sicurezza e la difesa? In che misura sono disposti ad anticipare piuttosto che reagire al contesto strategico?”. Domande, a cui ovviamente, nessuno può ancora dare risposta, nemmeno la Commissione. Non resta che aspettare il 2025 e vedere che succederà.

(*) ripreso da “Sbilanciamoci info”. L’immagine, scelta dalla “bottega”, è di Giuliano Spagnul. 


NAVE USA FA SCALO A LIVORNO PER TRASPORTARE ARMI DI CAMP DARBY IN MEDIORIENTE

Nel suo viaggio inaugurale  la «Liberty Passion», dopo aver fatto scalo a Livorno il 24 marzo,  aveva sbarcato il 7 aprile nel porto giordano di Aqaba 250 veicoli militari per le forze Usa e alleate operanti in Siria.

LIVORNO, 28 giugno 2017 — Ha fatto scalo a Livorno l’11 e 12 giugno, proveniente dagli Stati Uniti, la Liberty Promise: una delle navi militarizzate del Pentagono addette al trasporto di armi lungo un circuito che collega i porti statunitensi a quelli mediterranei, mediorientali e asiatici.
La nave di tipo Ro/Ro — lunga 200 metri, dotata di 12 ponti con una superficie totale di oltre 50000 m2 —  ha imbarcato a Livorno  un grosso carico di armi della base Usa di Camp Darby (scaricando probabilmente altre armi destinate alla stessa base).
La Liberty Promise ha quindi attraversato il Canale di Suez, facendo scalo il 24-25 giugno ad Aqaba in Giordania e, il 27-28 giugno, a Gedda in Arabia Saudita: qui ha scaricato armi destinate alle forze statunitensi e alleate impegnate nelle guerre in Siria, Iraq e Yemen.
La rotta della Liberty Promise e di altre navi della  «Liberty Global Logistics», una delle compagnie statunitensi che, con oltre 60 grandi navi,  trasportano armi per conto del Pentagono. Il porto di Livorno, limitrofo alla base Usa di Camp Darby, è il principale scalo nel Mediterraneo.
(**) NOTIZIA A CURA DELLA CAMPAGNA TERRITORIALE DI RESISTENZA ALLA GUERRA / AREA PISA-LIVORNO

 

Armi ad Arabia Saudita, Moby Lines rivela: “Trasporto su precisa richiesta del ministero della Difesa”

di MARCO PALOMBO, Rete No War Roma

Il 29 giugno sera l’onorevole Mauro Pili aveva denunciato l’ennesimo trasporto di ordigni dalla Sardegna con destinazione Arabia Saudita. Una fornitura che gia’, in alcuni momenti e senza troppa decisione da parte dei suoi critici, aveva fatto discutere.
I particolari dell’ultima spedizione sono ben riassunti in questo articolo di Francesco Santoianni (lo potete leggere su lantidiplomatico) che ha chiesto anche un commento all’ Ufficio Stampa della Moby Lines. Da questa richiesta, citata anche nello scritto, e’ arrivata poi la brevissima nota della Compagnia di navigazione dove si legge la frase: “trasporto su precisa richiesta del Ministero della Difesa”.

Queste parole sono importantissime.

A una prima lettura non ci ho fatto attenzione, dopo pochi minuti ne ho capito pero’ l’importanza e le ho giudicate “una gaffe” dell’ Ufficio stampa della Moby. Ma l’ultima impressione che ho avuto e’ che fossero invece conseguenza di un disagio, che la Moby Lines nell’ultimo giorno di giugno non abbia fatto volentieri questo trasporto di esplosivi e che sia arrivata veramente dal Ministero della Difesa una sollecitazione ad effettuarlo.

Spesso le tariffe nei trasporti sono diverse a seconda dei giorni e le corse per le isole degli ultimi giorni di giugno, la notte tra giovedi’ e venerdi’ poi, sono tra quelle piu’ costose. Ho lavorato nelle biglietterie dei traghetti, e sono convinto che l’ ultimo venerdi’ di giugno la Moby Lines avrebbe avuto di meglio da fare.

L’arrivo al porto di Piombino e’ addirittura incredibile, alle sette di mattina. A quell’ora lo scalo e’ frequentato da centinaia di pendolari per l’Elba e i traghetti per l’isola sono quasi sempre completi per il passaggio di mezzi commerciali. L’ultimo venerdi’ di giugno a quell’ora stanno arrivando dall’Elba anche le macchine di turisti in partenza dopo le vacanze.

Proprio il momento giusto per scatenare polemiche, che ancora non sono arrivate. Ma, se si diffondera’ la notizia, giungeranno anche queste, sicuramente nei commenti orali degli elbani e di tutti gli addetti ai lavori.

Il Ministero della Difesa nei mesi passati aveva piu’ volte smentito un proprio impegno diretto nella vendita di armi alle monarchie del Golfo, e questa volta probabilmente smentira’ la richiesta alla Moby Lines.

Lo dovra’ fare se tutti insieme diffonderemo questa vicenda e romperemo il silenzio, perche’ e’ necessario impegno per fare emergere queste notizie.

Chiudo allora con un invito a tutti: impegnamoci insieme per fermare la vendta di armi, soprattutto questa all’ Arabia Saudita che riguarda forniture immediatamente utilizzate per bombardare lo Yemen, dove tra l’ altro infuria il colera e c’e’ un’ emergenza umanitaria.

Buon lavoro a tutti noi pacifisti.

Bart de Light, studioso ed attivista nonviolento olandese, negli anni 30 fu condannato a 26 giorni di prigione per queste parole pronunciate in un discorso; “Nel nome di Gesu’ Cristo, nel nome di Marx, nel nome di Bakunin, nel nome di Tolstoi, vi scongiuro di non collaborare piu’ con qualsiasi lavoro malvagio, sia esso il servizio militare, la costruzione di caserme e prigioni, la produzione di materiale bellico” (da “Mahatma Gandhi: Lettere ai pacifisti” Centro Gandhi Edizioni, 2013, Pisa).

Facciamole nostre e facciamole conoscere a chi ci sta intorno, magari troppo scoraggiato e convinto, sbagliando, di non poter far niente contro le terribili guerre in corso e contro il criminale mercato delle armi.

L’IMMAGINE, reperita in rete, è “Pistol Art” di Michael Murphy

 

ITALIA. L’INDUSTRIA MILITARE PILASTRO DEL SISTEMA PAESE (***)

[GRILLOnews.it – 28.06.2017] Il mensile «Nigrizia» di giugno ospita un dossier sulla produzione e commercio internazionale delle armi italiane, e sul coinvolgimento collaborativo e interessato delle banche, che mettono a disposizione dell’industria bellica servizi di intermediazione ben remunerati e conti correnti.

Come recita l’incipit, «l’industria militare è il pilastro del sistema Paese. È ciò che pensa il governo. E i dati lo confermano. Cresce la spesa e l’export di armamenti conosce un vero boom. Soprattutto verso i regimi della penisola arabica. Cala, invece, la vendita verso l’Africa. Le banche sostengono il business seppellendo ogni tentennamento etico».
ITALIA. L’INDUSTRIA MILITARE PILASTRO DEL SISTEMA PAESE[Gianni Ballarini – Nigrizia n.6, giugno 2017] Il 19 aprile scorso si è assistito a uno scarico di blindati e armi alla cabina tabani, nel porto di Piombino. Ancorata c’era la nave Excellent, una grande imbarcazione noleggiata dal Ministero della difesa italiano, battente bandiera maltese. Dopo aver imbarcato un gran quantitativo di armamenti e aver effettuato uno scalo tecnico ad Augusta, s’è diretta a Gedda, in Arabia Saudita, attraversando il canale di Suez. Secondo l’autorità portuale di Piombino quelle armi e quei blindati erano destinati a un corso di addestramento bellico di militari italiani nella penisola arabica.L’unico ad alzare la mano e a chiedere spiegazioni su questo singolare traffico è stato il parlamentare di Sinistra italiana-Possibile, Giulio Marcon, il quale ha giudicato «gravissima» l’iniziativa: «L’Arabia Saudita è coinvolta in Yemen in una guerra sanguinosa, è sotto il banco d’accusa dall’Onu per la violazione dei diritti umani e ha sostenuto alcune fazioni terroristiche in Medioriente. Chiediamo —ha proseguito Marcon— l’immediato blocco del trasferimento delle armi nella penisola arabica, lo stop alle esercitazioni e a ogni vendita di armi all’Arabia Saudita».Governo silente. Media in gran parte distratti (tranne il Tirreno, Italia Oggi e Manifesto). Opinione pubblica ignara. Il tema delle spese belliche e della vendita di armi anche a paesi in conflitto è oramai sdoganato e non più avvolto da alcun tabù. Secondo il rapporto del Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma), la spesa militare italiana è salita nel 2016 a 27,9 miliardi di dollari. Calcolata in euro corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni. Un flusso irrefrenabile. Ma diventato normale. Quasi ovvio.

L’ultima Relazione governativa sugli armamenti rivela come il Belpaese stia conoscendo una crescita esponenziale soprattutto nell’export armato. Il valore è aumentato dell’85% rispetto al 2015 raggiungendo il valore di 14,6 miliardi di euro. Pesa la mega vendita (oltre 7 miliardi di euro) di caccia Eurofighter Typhoon (28) al Kuwait. Si tratta della più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica/Leonardo. Ma nei primi 11 posti della classifica delle nazioni destinatarie troviamo Arabia Saudita (427,5 milioni), Qatar (341 milioni), Turchia (133,4 milioni) e Pakistan (97,2), che fanno parte di coalizioni di guerra o che sono conosciuti come paesi fortemente repressivi.
Nel Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa, la nuova bibbia governativa, si legge come sia «essenziale che l’industria militare sia pilastro del sistema paese, perché contribuisce al riequilibrio della bilancia commerciale». Per cui merita ogni sostegno possibile.

Africa in calo

In questo contesto, si distingue l’Africa. I 136 milioni di euro, valore delle licenze italiane di esportazione nel 2016, rappresentano il secondo dato più basso dal 2008. Peggio dell’anno scorso è stato solo il 2014. Il calo è stato del 43,4% (oltre 240 milioni di euro nel 2015), con un dato particolarmente negativo per il Nordafrica (-56%). Negli ultimi 5 anni il calo di export verso la sponda sud del Mediterraneo è stato importante: si è passati dai 308,4 milioni del 2012 ai 38,5 dell’anno scorso (-87,5%). A colpire, in particolare, è la chiusura dei rubinetti con l’Algeria, uno dei paesi con cui lavoravano maggiormente le aziende belliche italiane. L’anno scorso hanno commerciato armi per 25,2 milioni di euro. Nel 2012 il dato sfiorava i 263 milioni di euro.
Nell’Africa subsahariana spicca il dato dell’Angola, non propriamente la culla della democrazia e della difesa dei diritti civili: si è passati dai pochi spiccioli del 2015 (72mila euro) agli 88,7 milioni di euro nel 2016, posizionando il paese al 13° posto della classifica dei paesi acquirenti.

Conti armati

E accanto a un’industria bellica italiana in piena espansione, il 2016 ha segnato pure l’esplosione dei conti correnti armati. Gli istituti di credito, infatti, hanno definitivamente seppellito ogni tentennamento morale per rituffarsi a corpo morto sul business delle armi. In un solo anno il valore delle transazioni bancarie legate all’export definitivo di armamenti è passato dai 4 miliardi del 2015 ai 7,2 miliardi del 2016 (+80%), frutto di 14.134 segnalazioni, rispetto alle 12.456 dell’anno precedente. Un boom inarrestabile se si osserva la crescita rispetto a soli due anni fa: +179% (2,5 miliardi di euro, nel 2014).

A occupare il primo posto è il gruppo Unicredit con oltre 2,1 miliardi di euro, pari a circa il 30% dell’ammontare complessivo movimentato per le sole esportazioni definitive, e con una crescita del 356% rispetto al 2015 (474 milioni di euro). Dopo Unicredit, compare il gruppo Deutsche bank, con oltre un miliardo di euro e al terzo posto la banca britannica Barclays bank, con oltre 771 milioni di euro e con una crescita del 113,8% rispetto ai dati del 2015 (360,9 milioni).

Sorprendente la “performance” della bresciana Banca Valsabbina. In un anno le sue transazioni armate sono cresciute del 763,8% passando dai 42,7 milioni di euro del 2015, ai 369 milioni circa dell’anno scorso. Questo istituto –che ha la sua sede a Vestone, piccola realtà della Comunità montana della Valle Sabbia, e la direzione generale a Brescia– evidentemente rappresenta un punto di riferimento per tutto il settore armiero della zona.

Sono i paesi mediorientali, in genere, a essere ottimi clienti delle banche, avendo fatto transitare sui conti bancari del Belpaese una massa enorme di denaro: quasi 4,3 miliardi di euro, pari al 59% del totale. Anche i paesi africani fanno un balzo in avanti, passando dai 300 milioni del 2015 ai quasi 320 milioni del 2016. È l’area subsahariana a incidere maggiormente, con una crescita del 153% (dai 42 milioni del 2015 ai 106,4 dell’anno scorso). Le banche armate, evidentemente, generano fiducia anche al di là del Mediterraneo.
[Fonte: Nigrizia n.6 – Giugno 2017]

(***) https://www.grillonews.it

Redazione
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