Un delitto è per sempre
O dell’immortalità
di Mauro Antonio Miglieruolo
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Gli uomini non lo sanno, né lo vogliono sapere, ma con il loro avvento all’esistenza hanno creato l’immortalità. L’invenzione dell’autocoscienza, corollario dell’intelligenza, ha determinato il superamento del binomio antitetico vita/morte, stabilendone un secondo costituito da: l’arco temporale in cui si consuma l’esperienza del vivere (Alfa e Omega); e l’inevitabile continuità nel tempo che caratterizza gli esseri senzienti giunti a un determinato stadio del loro sviluppo.
Si tratta della conseguenza che assume la vita intelligente nel Quaternario, stadio specifico in cui il reale assume una dimensione paragonabile all’oggettività, essere del mondo; stadio in cui la cultura gioca un ruolo altrettanto importante che la natura. Si tratta comprensibilmente di una facoltà esclusiva propria all’Umanità, dalla quale sono esclusi gli altri viventi. Sono gli animali che (probabilmente) si estinguono con la morte, non le persone. Le persone continuano, si perpetuano, sono eterne. Questa verità è tenuta nascosta occultata e mistificata insieme a tutte le altre relative alla fine (la morte, terrore della cultura occidentale). Il primo atto che l’Uomo ho posto in essere al momento della produzione dell’intelligenza/autocoscienza, è stato quello di nascondere la morte, nascondendo in questo modo anche la sua (come specie) non morte: l’Umanità probabilmente continuerà a essere anche dopo l’estinzioone della specie. Altri essere senzienti, altre creature probabilmente erediteranno la Terra che stiamo costruendo. Di questo molto poco vogliamo sapere (dovremmo sapere troppo d’altro per poterlo accettare), utilizzando lo scudo di una falsa e impossibile immortalità (eco di quella ancestrale attribuida agli Dei); una immortalità materiale, anticulturale, l’impossibile permanere di un essere nello stesso stato (nella medesima coscienza); pretesa illogica che contrasta con l’esperienza che abbiamo sul visibile di ciò che ci circonda (= la precarietà che informa tutto) e con le scoperte intorno all’invisibile che comunque ci condiziona*: tutto è transitorio suggerisce la filosofia e tutto è in mutamento, suggerisce la scienza. L’inestinzione della quale parlo non è relativa dunque alla dilatazione del tempo breve compreso tra l’alfa e l’omega nel quale ci è concesso vivere, ma a quello più lungo che riguarda il grande insieme di cui facciamo parte (le persone e i legami personali e sociali tra le persone del passato, presente e futuro). Il che mi induce a ipotizzare che se l’umanità darà luogo a una seconda umanità, l’eventuale homo superior, questo permanere durerà il tempo più lungo di questo auspicabile ulteriore avvento. Cioè ci prolungheremo in questo secondo uomo collettivo, di là da venire.
Ognuno di noi, ce lo dice la scienza della psiche, non è uno ma una moltitudine di uni in lite o in accordo, in cooperazione o boicottaggio reciproco; ed è uno all’interno della stessa moltitudine di moltitudini definita umanità. Costituita da tutti i contemporanei e tutti i predecessori, ed è estendibile a coloro che verranno. Un uomo è tutti gli uomini sia perché porta in sé le caratteristiche che definiscono l’umano in quanto tale, ma soprattutto perché è il risultato di un incrociarsi di scelte, influenze, relazioni che entrano nella determinazione del singolo e di tutti i singoli; il che equivale a dire che ognuno è la determinazione di una infinità di individui che, in piccola o grande misura, entrano a far parte della sua formazione. Biologicamente i genitori sono due, culturalmente la platea dei dante vita è sterminata: una labirintica catena di influenze che si sommano e si modificano a vicenda.
Naturalmente non tutto di noi, neppure biologicamente (tra genitori e figli esistono differenze non riconducibili alla sola somma dei proto/elettroni, detti geni, messi in campo), è effetto dell’attività degli altri; così come non tutto di noi si riproduce negli altri. Nel processo qualcosa si perde. È certo però che qualcosa anche si conserva. Si conservano in particolare gli effetti che le nostre parole e le nostre opere producono sul vicino di pianerottolo, sul collega di lavoro, sulla nostra amata/amato. Ma questo avviene, come è tiepidamente riconosciuto, non solo in seguito all’attività dei grandi (grandi musicisti, poeti, scrittori, scienziati, Maestri di Vita, innovatori sociali e dirigenti politici e religiosi); avviene anche con il contributo dei piccoli e piccolissimi, che alla costruzione dell’umanità partecipano con apporti invisibili e però significativi.
Svolge questo ruolo, ad esempio, colui che vi parla in questo momento (purché abbiate attivato la relativa capacità d’ascolto, nonché la vostra molta pazienza); lo svolgeranno coloro che sceglierete quali interlocutori; e lo svolgerete voi stessi nel momento in cui decideste di rispondermi o di volgervi all’interlocutore qualsiasi scelto per dargli qualcosa di voi. Per informarlo, per contribuire alle sue conoscenze, per essere partecipe della sua formazione. La realtà umana più vera è appunto quella del manifestarsi permanentemente di ognuno quale Maestro e Allievo nell’incontro, con effetti a volte inavvertiti, ma di certa efficacia. Contano allora, per riassumere, le parole e le azioni (il visibile che produce effetti visibili e invisibili); e contano gli stati d’animo, le emozioni, la costruttività, la premura, l’amore (l’invisibile che produce effetti visibili e invisibili): effetti che dureranno. Che entrando in uno (o in molti) innescheranno processi discreti e pressoché permanenti. E contano gli opposti, il negativo che con tanta incoscienza spargiamo come seminatori intorno a noi. Il negativo dura altrettanto che il positivo. Bisogna tenerne conto. Un delitto, come ogni cattivo pensiero, è per sempre. Non smette mai di produrre effetti.
Dunque, essi continueranno a essere presenti e operare anche dopo la nostra morte; e opereranno anche se la nostra attività è ignorata o dopo che saremo stati dimenticati. Io, molti tra noi, hanno perso memoria del maestro che per primo li ha avviati sulla strada della cultura scolastica. Eppure nonostante la palese assenza nel ricordo ciò che hanno fatto in me continua a svolgere le sue funzioni; e attraverso di me opera negli altri. Lo stesso vale per il falegname che ha costruito la scrivania su cui lavoro e il panettiere sotto casa il cui pane mi compiaccio di apprezzare. Vale anche quando il rapporto non avviene per contatto diretto, e vale nonostante l’ampia inconsapevolezza degli effetti che il loro lavoro produce su di me. È il loro mero esistere che mi condiziona: che mi espande e mi condiziona. Le necessità loro s’incontrano con le mie. La realizzazione di ogni vita contribuisce a realizzare la mia (lo stesso vale per la struttura economica, giunta oggi a un tale livello di socializzazione, cioè di interrelazione da rendere inammissibile la disarmonia di una gestione privata e egoistica della stessa: distruttiva schizofrenia sociale che, permanendo, sarà causa di inimmaginabili devastanti conseguenze).
La conclusione inevitabile è che moriamo solo in parte. Muore la parte biologica, non del tutto quella mentale-psicologica, non quella culturale. L’essenza di noi continua, camminando attraverso le gambe dei posteri. Inevitabilmente, anche se non volessimo. Potremmo chiuderci in una torre lontana dalle agitazioni del mondo, non cesseremmo di influenzare il prossimo. Se non altro a mezzo degli effetti specifici determinati dalla nostra assenza, dal vuoto improprio (il vuoto ante morte) prodotto dal rifiuto di continuare a interrelarci con il prossimo.
In quest’ottica l’immortalità di Hedrock (di Alfred E. Van Vogt, ciclo dei Negozi d’Armi) si ispira a un cattivo concetto di immortalità, lo stesso che per secoli ha continuato a sovrapporre il mito alla realtà. L’immortalità falsa della non morte del corpo. In contrapposizione a quella vera dell’insieme umano sociale del quale facciamo parte (l’Umanità) e che contribuiamo a creare. Un’Umanità in cammino che cerca di arrivare a se stessa. Preludio, forse, di qualcos’altro impossibile persino da immaginare.