Un dossier su Korogocho e… la felicità
Questo mio dossier è uscito sull’ultimo numero della rivista «Cem mondialità» (se non sapete cos’è in coda trovate una scheda).
Anche io alla fine mi sono iscritto alla P3, che non è una super-loggia segreta ma il Partito Piccola Premessa. Eccola. Quando ho accettato di curare un dossier su Korogocho – nel senso proprio di un “inferno” trasferitosi in Kenia ma anche come metafora di ogni “discarica umana” – che parlasse di resistenza/resilienza ma anche di felicità ho subito pensato di coinvolgere in questa impresa più persone (a me care) possibili. Non era P1, cioè Pigrizia, ma la necessità di essere confortato in una impresa che mi sembrava superiore alle mie forze: non sotto il profilo giornalistico ma del meglio comprendere una tesi – quella di essere felici in mezzo all’inferno – che in certi momenti mi sembrava e sembra intollerabile. Ringrazio perciò (alla fine del dossier) alcune persone che mi hanno risposto in positivo ma ho comprensione anche per chi si è rifiutato. A esempio rispondendomi così: «La felicità a Korogocho mi sembra quasi come un essere felici ad Auschwitz. Può essere, ammesso che le bestemmie diano la felicità». Mi ha colpito questa frase soprattutto perché so che chi me l’ha scritta è un credente. La premessa è finita.
Il dossier si articola in questi passaggi. Una estrema sintesi di «Korogocho, alla scuola dei poveri» (ora in Universale Feltrinelli) di Alex Zanotelli per tentare di spiegare di cosa si parla… a chi (molte persone?) ignora che tanti esseri umani vivano nelle e delle discariche. Poi le risposte che, poche settimane fa, padre Zanotelli ha dato alle mie domande su come oggi ripensasse la sua esperienza. A seguire una serie di riflessioni (ma anche suggerimenti, rimandi, dubbi…) su questo tema che arrivano appunto da amiche e amici. A completare il dossier alcune schede. Dio dove sei? «Battezzato dalla povertà» così dice di sé Zanotelli nella bidonville alla periferia di Nairobi dove ha vissuto dal 1994 al 2002. E’ venuto lì alla ricerca di Dio e in quel «sotterraneo della storia» domanda e implora: «Dio dove sei? Datti da fare». Lo racconta in «Korogocho alla scuola dei poveri». Qui incontra anche segni di speranza, di resilienza. Dal teatro popolare ad avvocati (donne più che altro) disponibili a impegnarsi; dalla nascita di cooperative e il collegamento con il commercio equo ai «medici a piedi scalzi». Ma c’è posto per altri racconti che non parlano solo di Korogocho: dalla vittoriosa lotta contro la Del Monte in Kenia all’incontro con le esperienze a Bombay dello Sdi, «internazionale dei baraccati». Un libro straordinario, uno dei pochi per i quali si può usare la frase «deve essere letto e meditato». Non aggiungo altro su Korogocho perché più avanti troverete una testimonianza, uno sguardo “occidentale” ma partecipe pur nella paura e nella difficoltà a comprendere. Le risposte di Zanotelli «Mi chiedi se sia possibile essere felici a Korogocho. E’ una domanda difficile, ma io confermo quello che ho scritto... cioè che mi dà grande speranza aver visto la forza d'anima, la grinta, la capacità di gioire delle piccole cose ....mai così grande come a Korogocho.
Sì, parlare di felicità in un tale inferno umano è un paradosso, eppure la capacità di vivere, di danzare la vita che ho visto lì, nei bambini soprattutto, è incredibile: l’immensa felicità che si trova in un luogo simile. A esempio nel costruire i giocattolini con i rifiuti. Camminare a Korogocho significava per me avere tanti bambini intorno che volevano giocare con me, trasmettendomi il senso della gioia.
Lì alla domenica la celebrazione diventa una festa di tre ore. Mi ha impressionato e mi son chiesto: perchè? Ci ho ragionato, riflettuto molto. Ma rimane un mistero… uso questa parola volutamente. E’ proprio in questi luoghi terribili che io sento Dio; se Dio si è talmente appassionato della vita da dedicarci 4-5 miliardi di anni allora è do sicuro presente anche in questi luoghi: qui soffre ma con noi cerca di trovare la soluzione.
Molti oggi dicono che la razza umana si sta suicidando, che siamo perduti anche come pianeta e per certi versi è vero, la situazione è terribile. Eppure io spero: la mia speranza si rafforza perchè vedo una spinta vitale, una forza che non finisce anche in luoghi che mi sento di chiamare l’inferno in terra.
Quegli anni a Korogocho mi hanno ricaricato di vita, di speranza: è grazie alle persone che ho incontrato lì se ancora spero».
Pasolini, Gibran e la nonna saggia Ed ecco i contributi che ho chiesto. Un amico mi ha scritto così. «Se penso al paradosso (che è piuttosto un topos) povero-felice mi vengono in mente solo immagini incommensurabili con la povertà e soprattutto la felicità di Korogocho. Si va da Montale (sì, proprio, “I limoni”) a un film – regista Pasquale Festa Campanile - di 25 anni fa con Renato Pozzetto, ad Ammanniti che nell'ultimo libro è riuscito a scrivere una puttanata come questa: “era spiritoso e vivace come un profugo ugandese”. Tanto più che oggi parlano di “povertà felice” alcuni neo-economisti, Sarkozy e i seguaci di Marino nel Pd: magari banalizzando osservazioni preziose di Amartya Sen. Meglio, perciò, rivolgersi a Pasolini, e magari a Sergio Citti che ci credevano di più. O al Claudio Lolli della canzone “Ho visto zingari felici”. Ma non credo ci servirebbero molto. Rimangono i testi religiosi e profetici, a partire dal Vangelo di Matteo (discorso delle beatitudini). Magari ricordando che “poveri di spirito” era un modo per dire poveri. Ma ti ho trovato anche un pezzo di Gibran e alcune frasi, di quelle che mia mamma ormai anziana ricopiava e che, con tempismo inquietante, regalò a mio figlio pochi mesi prima di morire. Eccole». «Il Dare» di Kahlil Gibran Allora un uomo ricco disse: Parlaci del dare. E lui rispose: Date poca cosa se date le vostre ricchezze. E' quando date voi stessi che date veramente. Che cosa sono le vostre ricchezze se non ciò che custodite e nascondete nel timore del domani? E domani, che cosa porterà il domani al cane troppo previdente che sotterra l'osso nella sabbia senza traccia, mentre segue i pellegrini alla città santa? E che cos'è la paura del bisogno se non bisogno esso stesso? Non è forse sete insaziabile il terrore della sete quando il pozzo è colmo? Vi sono quelli che danno poco del molto che possiedono, e per avere riconoscimento, e questo segreto desiderio contamina il loro dono. E vi sono quelli che danno tutto il poco che hanno. Essi hanno fede nella vita e nella sua munificenza, e la loro borsa non è mai vuota. Vi sono quelli che danno con gioia e questa è la loro ricompensa. Vi sono quelli che danno con rimpianto e questo rimpianto è il loro sacramento. E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito. Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell'aria la sua fragranza. Attraverso le loro mani Dio parla, e attraverso i loro occhi sorride alla terra. E' bene dare quando ci chiedono, ma meglio è comprendere e dare quando niente ci viene chiesto. Per chi è generoso, cercare il povero è gioia più grande che dare. E quale ricchezza vorreste serbare? Tutto quanto possedete un giorno sarà dato. Perciò date adesso, affinché la stagione dei doni possa essere vostra e non dei vostri eredi. Spesso dite: “Vorrei dare ma solo ai meritevoli”. Le piante del vostro frutteto non si esprimono così né le greggi del vostro pascolo. Esse danno per vivere, perché serbare è perire. Chi è degno di ricevere i giorni e le notti, è certo degno di ricevere ogni cosa da voi. Chi merita di bere all'oceano della vita, può riempire la sua coppa al vostro piccolo ruscello. E quale merito sarà grande quanto la fiducia, il coraggio, anzi la carità che sta nel ricevere? E chi siete voi perché gli uomini vi mostrino il cuore e tolgano il velo al proprio orgoglio così che possiate vedere il loro nudo valore e la loro imperturbata fierezza? Siate prima voi stessi degni di essere colui che dà e allo stesso tempo uno strumento del dare. Poiché in verità è la vita che dà alla vita, mentre voi, che vi stimate donatori, non siete che testimoni. E voi che ricevete - e tutti ricevete - non permettete che il peso della gratitudine imponga un giogo a voi e a chi vi ha dato. Piuttosto i suoi doni siano le ali su cui volerete insieme. Poiché preoccuparsi troppo del debito è dubitare della sua generosità che ha come madre la terra feconda, e Dio come padre». Ed ecco le altre frasi che questa nonna (saggia ma anche ironica) copiava per il nipote che cresceva. «Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare a indovinare» (Charles Bukowski). Ma anche Cechov: «La felicità è una ricompensa che giunge a chi non l'ha cercata». Il sempre geniale Oscar Wilde: «La felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha». Poi Felicité-Robert de Lamennais: «Il grido del povero sale fino a Dio, ma non arriva alle orecchie dell’uomo». Infine, forse un po’ fuori tema (fosse che la “nonna” era un poco femminista?), questo promemoria di Mark Twain: «L’umanità senza la donna sarebbe scarsa…». L’Africa dell’Ubuntu e la solita (?) occidentale
Un’amica profondamente credente mi scrive: «non so quanto Alex fosse felice a Korogocho, mi sembrava schiacciato da mille drammi a cui non riusciva a dare risposta. Ma consiglio di leggere
qualcosa su Waibraimu (http://waibraimumuhanga.wordpress.com/) e su Ubuntu cioè la filosofia che ha permesso la riconciliazione fra bianchi e neri in Sudafrica».
In un secondo messaggio ancora lei mi regala questi ricordi e riflessioni.
«Situazioni di gran felicità in Kenya non ne ho incontrate. A Meru era tutto sereno ma eravamo in campagna. A Korogocho invece ho collezionato la sensazione della rassegnazione. L’unico ricordo felice di Korogocho è stata la piccola Elisabeth, figlia di una ex-prostituta, 3-4 anni, che mi trotterellava attorno con gran sorrisi. I ragazzi ridevano, ma come sempre tutti i ragazzi in Africa. Le mamme della Udada (la sorellanza, il gruppo di mamme ex prostitute che speravano di cambiare vita e cominciare a lavorare con il commercio equo facendo collane) avevano così poca auto-stima che ogni minima richiesta di modifica della collana riceveva come risposta “non sono capace”. Le mamme che facevano i Viondo, i cesti, erano più gioiose, hanno sempre accolto tutti con canti e danze, ridevano nonostante una vita assurda… Lo stesso i ragazzi dei batik. Ma bisogna tener conto del mio scarso inglese e quasi nullo swahili, per cui forse non ero in grado di raccogliere grandi testimonianze.
Tutt’altra storia in altri luoghi.
In Benin di fronte alla mia affermazione “meglio che ti mandi i soldi del biglietto per i vostri progetti piuttosto che tornare io” il sorriso sul volto del mio amico si è oscurato: “cosa vuoi dire? Io voglio rivedere te, non avere i tuoi soldi” lasciandomi senza parole… Io la solita occidentale che conta sempre tutto in termini di uso e denaro come se avere soldi fosse meglio di rivedere gli amici.
In Congo mi è successo di tutto. L’anno scorso ho inviato soldi per Natale a un amico di Goma sotto bombardamento…. Lui, al posto di comperare cibo per fare una scorta mi ha comunicato raggiante che con quei soldi aveva pagato la retta della scuola di due figli… Difficile capire le reazioni delle persone in tempi di guerra: invece di pensare al contingente lui si è attaccato al futuro sognandolo normale.
Poi c’è Ghidò che dall’alto dei suoi 5 anni ride e gioca anche a quasi due giorni di distanza dall’ultimo pasto. Allora io, la solita, cosa faccio? So che è digiuna ma non posso dare un panino ad ogni bimbo che sta giocando con lei (sono tanti) e allora appena la vedo sola la chiamo e le dono il panino, per vederla ridere, ridere, e correre verso gli amici … per raggiungerli e spezzare per loro il panino in tante parti quanti sono loro e mangiarlo in compagnia, anche se è affamata.
Oppure penso al centro Olame, a Bukavu (sempre in Congo), che quest’anno festeggia i 50 anni, con le donne che cantano per 3 ore, dal mattino alle 6, sul traghetto che ci conduce su una isola in mezzo al lago… Le donne che ci attendono danzano per km accompagnandoci a piedi al loro villaggio, pazze di gioia perché portiamo la prima pietra per costruire una stanzina per il comitato donne del villaggio.
Penso alle donne lì che raccolgono ogni giorno testimonianze di chi è violentata nei modi più brutali, che piangono mentre ti raccontano, ma poi danzano la vita, hanno coraggio da vendere, ridono, hanno una energia impensabile….
Difficile comunicare la sensazione che davvero il poco aiuta a godere di ogni cosa, che la tua vita non dipende solo dalla tua autonomia ma soprattutto dallo stare con gli altri… sembra una spiegazione scientifica del fatto che l’essere in tanti insieme fa meno paura al trovarsi da soli o che nessuno si può salvare e vivere in solitudine.
Il concetto di ubuntu… Anche in Congo è uguale. I ciechi di Bukavu, con i quali ho parlato, sono ottimisti e coraggiosi in una situazione di guerra che anche tu ben conosci. Eppure prova a pensare cosa significhi esser cieco a Bukavu oggi».
Questa lunga lettera finiva: «Non so se ti sono stata utile». Certo e non solo per un articolo o per un giorno.
Che strana consecutio temporum
Un’altra amica mi invia alcune pagine prese da «Malawi, non finirà mai» di Marina Canotti e Roberto Mauri (Dell’arco edizioni, 2006) e premette: «la consecutio temporum è africa-aids-felicitànonostantetutto».
Pagina 14: «Caro amico, è tempo di ngumbi. Adulti e bambini, uomini e donne sono in giro con la loro tazza o il loro piatto di plastica a raccogliere queste specie di grosse formiche alate che si mangiano cotte al sole. I bambini si alzano anche alle due del mattino per andare a raccoglierli facendo un baccano che non si può immaginare. Mi fa tenerezza vedere tanta gente affamata pronta a gioire per questo cibo gratuito che piove come manna dal cielo».
Pagina 42:«Caro amico, in questa regione i campi di mais fanno pena, nessuno è riuscito a comprarsi il fertilizzante per via del prezzo inaccessibile così come la campagna, da sola, sembra del tutto incapace di dare frutto. La gente dorme per mettere a tacere lo stomaco eppure quella stessa gente dal ventre gonfio e vuoto incontrandoti per la strada ti saluta sorridendo; è la stessa che, qualunque sia il suo credo, ringrazia e prega Dio prima di ogni gesto, azione o attività importante. Questa gente con una fame antica e indescrivibile è la stessa che ama chiacchierare e trascorrere il tempo in compagnia dei propri bambini, cantando e danzando anche quando motivi per festeggiare ce ne sono pochini. […] Non mangiano niente. Riescono solo a permettersi una polenta bianca e senza sale; il companatico, per lo più foglie di zucca, è così poco che non riesco a credere possa bastare. Eppure sembrano sazi, sembra non desiderino altro. […] Noto la loro lentezza, il loro masticare al rallentatore, come in un rito. Li osservo mentre si passano fra le mani pezzetti bollenti di farina bagnata, sembra pongo da modellare, penso a quanto riescono a far durare quel cibo e quante volte ne avanzano un poco per la sera o per l’arrivo di un ospite».
L’inferno dantesco
Un’altra amica mi ha sommerso di notizie e idee (questo dossier forse doveva farlo lei). Recupero così stralci di un «reportage dell’amica Susy» a Korogocho per il dottorato in Scienze della pace.
«Arrivare a Kariobangi (slum che precede Koroghocho) è un pugno nello stomaco. Forse non esistono termini che descrivono questo stato di cose. Degrado è assolutamente insufficiente, l’inferno dantesco aiuta molto a dare un’idea. Non si possono definire le condizioni disumane, perchè neppure le bestie vivono così male.
A Nairobi su una popolazione di 4 milioni di abitanti oltre la metà vive negli slum, nell’1,5% del territorio totale della città. Questo forse può dare una vaga idea di quanto spazio abbiano queste baracche: 3/4 metri per 5/6 persone, forse.
Korogocho in kikuyu significa confusione (abbastanza appropriato direi) e conta circa 150mila abitanti su una superficie di un km e mezzo. Qui non è solo questione di povertà, di fame […] ma di sovraffollamento tra fogne a cielo aperto e, caratteristica distintiva di Korogocho, la discarica di fronte (una collina di immondizia che si arricchisce ogni giorno di 2000 tonnellate di rifiuti industriali, agricoli, domestici, ospedalieri). I bambini di questo slum hanno nel sangue una quantità di piombo 7 volte superiore ai bambini di altri sobborghi.
Ubriachi, prostituzione, violenza, migliaia di ragazzi di strada (molti sniffano colla, altri sono orfani) perchè, tra le altre cose, regna l’Aids.
In certi punti la puzza è insostenibile e gli occhi bruciano per il fumo dei fuochi di varia origine, compresa quella dei rifiuti. I bambini bevono l’acqua che scorre in terra fra la spazzatura, abbandonati a se stessi, giocano e ti salutano con how are you? non sanno che significa ma si divertono un sacco a dirlo. I più temerari ti vengono incontro per toccare la tua pelle bianca, così strana per loro.
Ma come fanno a vivere? Dove trovano la forza? Padre Daniele (missionario comboniano) mi racconta che in un ambiente del genere le persone non si sentono più tali. Ci credo. Mi chiede cosa vorrei visitare e decido di fare il giro completo della bidonville e la visita alle prime due fasi del programma a favore dei ragazzi di strada.
Mentre camminiamo i più pericolosi sono gli ubriachi e quelli che sniffano colla, ma naturalmente ci pensa Kevin, il ragazzino che mi accompagna, cresciuto lì.
Arrivare da John, il responsabile del progetto (prima fase) significa infilarsi nel cuore della bidonville, in una serie labirintica di percorsi di fogne: l’altezza spesso è di un metro per cui occorre procedere piegati in avanti. Il centro di recupero è una baracca come le altre (3×4) divisa in 3 parti: un minuscolo ufficio, una sala vuota, l’altra con le 4 panche.
John è mingherlino, mi accoglie calorosamente e mi spiega il progetto. Mi mostra il fittissimo programma settimanale che portano avanti solo in 3. Impensabile. Intanto i ragazzi (la prima fase è quella in cui si è riusciti ad instaurare un contatto con i ragazzi di strada, e si accudiscono durante il giorno cercando di disintossicarli) fanno un casino bestiale, arrampicandosi ovunque, in continuo movimento e sempre sull’orlo della rissa. John mi dice che sono stata fortunata perchè oggi i ragazzi sono particolarmente tranquilli. Non oso pensare cosa accada quando non lo sono.
Disorientata non riesco a capacitarmi della forza di queste persone che lavorano incessantemente e in tali condizioni a favore dei singoli, ma anche della comunità, perchè recuperare questi ragazzi significa anche diminuire la violenza.
John mi invita a fare un discorso e tenta di farli sedere (più o meno). Dico poche parole sul valore della vita e sull’importanza di viverla ma, naturalmente, trovo tutto molto inadeguato, compresa me stessa. Quando John traduce aggiunge che non devono fare del male alle persone bianche come me, perchè sono quelle che li aiutano (come mi sono sentita di merda).
Fuori dalla baracca, sdraiati in “terra” c’erano altri 5/6 adolescenti completamente persi nel vuoto. Uno ha avuto un cenno di vita e mi ha fatto il saluto pugno contro pugno. Quando mi sono avvicinata mi guardava e sorrideva, ma il suo sguardo mi attraversava e andava oltre, chissà dove. Che tragedia. Proseguiamo, altra mega-ipocrisia: una jeep con megafoni percorre la bidonville facendo campagna elettorale. Sono disgustata e la puzza aiuta pure.
Raggiungiamo il centro per la 2a fase del programma: il riavvicinamento ai familiari o alla comunità qualora si tratti di orfani, l’educazione personale – fase che precede il reinserimento nella scuola se possibile.
Trovo un grande locale in muratura, protetto dal cancello e comprendente un ampio spazio all’aperto. All’interno ci sono 3 dello staff e circa 80 fra bambini e adolescenti. Il responsabile, un ragazzo formato appositamente per questo ruolo, mi spiega che in questa fase si insegna l’igiene personale, dei propri indumenti, della cucina, del centro in generale e si fanno molte attività che spaziano dalla cura dell’orto, ai giochi di squadra, alla formazione artistica. Essendo l’ora di pranzo alcune ragazzine insistono affinchè mangi con loro ma, fortunatamente, Kevin risponde che padre Daniele mi sta aspettando (c’era una quantità di mosche esagerata su quei piatti e in quella sala).
Al rientro ci fermiamo di fronte alla discarica separata dalla collina di Korogocho dall’inquinatissimo fiume Nairobi. Non posso fare a meno di pensare al libro di Alex Zanotelli quando racconta di Kasui (7 anni) e Kimeno (3 anni). Un giorno una signora glieli portò perchè aveva visto la bambina trascinare con sè il fratellino nel fiume. Ecco forse la definizione di Korogocho può essere questa: un posto che riesce a spingere al suicidio anche due bambini».
Moltissimi altri i materiali e le suggestioni che ho ricevuto da questa amica, Fra l’altro di leggere «Orfeo africano» (edizioni Harmattan-Italia) di Werewere Liking. Lo farò.
Per chiudere… forse Calvino
C’è una frase da mettere a mo’ di conclusione? Qualcosa che esprima in poche righe i pensieri e le esperienze (di Zanotelli in primo luogo ma anche di altre persone a me assai care) di questo dossier, senza nascondere le contraddizioni e le paure? Secondo me esiste ed è di Calvino (lo scrittore non il teologo). La riprendo da «Le città invisibili» con solo qualche piccolo taglio.
«L’inferno dei viventi è già qui […] lo abitiamo tutti i giorni. Due modi ci sono per non soffrine. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte […]. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Per non diventare parte dell’inferno che è qui, la strada c’è ma esige attenzione e apprendimento continui.
Questo dossier è stato reso possibile dai materiali e dai consigli di (in ordine alfabetico) di Giorgio Chelidonio, Giuseppe Faso, Donata Frigerio, di Bianca Menichelli, dalle due schede di David Lifodi e soprattutto dalla “valanga” Laura Ferrin. Ringrazio di cuore ma ovviamente resta mia la responsabilità di ogni errore o di un “infelice montaggio” dei loro preziosi contributi. (db)
CEM MONDIALITA’ , una piccola scheda
Quando nel 1967 la rivista dei missionari saveriani lanciò la parola «mondialità» sui vocabolari non se ne trovava traccia. Anche la «globalizzazione» (che non è un sinonimo, semmai ne è la versione… capital-gangsteristica) era concetto sconosciuto. La rivista esce con 10 numeri ogni anno e resta fedele al titolo e al sotto-titolo: «mensile dell’educazione interculturale». Cem invece sta per il Centro di educazione alla mondialità: ha sede in via Piamarta a Brescia presso i missionari saveriani, con annessa libreria (secondo me la più anticonformista e fornita d’Italia).
La rivista si riceve solo per abbonamento (3o euri ogni anno) o in gemellaggio con altre riviste, da «Azione nonviolenta» a «Carta», da «Mosaico di pace» a «Nigrizia» (e altre 8 testate… fuori dal mucchio). Se vi interessa andate a vedere su www.cem.coop o attraverso cemsegreteria@saveriani.bs.it come ci si può abbonare.
E’ uno spazio aperto per chi crede come per chi (come nel mio caso) non si riconosce nelle religioni “organizzate”. E’ una rivista indispensabile per chi lavora nella scuola – o meglio in quei pochi frammenti pensanti di scuola che resiste alle ultime controriforme – o nellas formazione comunque intesa. Ogni anno la rivista sceglie un tema su cui vengono preparati i dossier (quest’anno si ragiona di «La felicità nella società del rischio: l’educazione al bivio? rassegnazione o resilienza?») e si organizza, ad agosto, un convegno residenziale.
Ovviamente di questi tempi tanto più chi scrive lavora bene, tanto meno è sotto i riflettori. E se state pensando ai quotidiani “generalisti” o invece alle riviste regalate sugli aerei… avete ragione in ogni caso: robaccia dove si viene ben pagati per scrivere sciocchezze e se scappa un articolo intelligente è annegato dalla morsa di pubblicità palese e soprattutto occulta. Invece su «Cem mondialità» trovate – dalla a alla z – Rubem Alves e Giancarlo Zavalloni, passando per Brunetto Salvarani, che è il direttore, Patrizia Canova, Adel Jabbar, Sigrid Loos, Karim Metref, Alessio Surian, Aluisi Tosolini e molte altre/altri. Tutta gente che non va ai talk-show e che di rado viene ascoltata da politici o amministratori: una minoranza (purtroppo) che però non accetta di unirsi al brutto coro dominante.
Se pensate che questo sia uno spot, è il caso che vi avvisi: avete sbagliato blog. Però disposto a discuterne. Uno strano tipo che si chiamava Dashiell Hammett (avete presente? no…? peccato) scrisse all’incirca che ci sono quelli che discutono per avere ragione e quelli che invece vogliono capire. Ecco, io preferisco essere fra i secondi. (db)