«Un figlio di questi luoghi ammalati…»

«La problematica bellezza» della Calabria «nascosta tra le pieghe del brutto che avanza»: riflessioni di Pierluigi Pedretti intorno a «Stradario di uno spaesato» di Mauro Francesco Minervino

Per introdurre il bel libro di Mauro Francesco Minervino, «Stradario di uno spaesato» (Melville Edizioni: 17,50 euro) si potrebbe iniziare dallamato scrittore George Gissing su cui egli scrisse nel lontano 1993 («Una vita desiderata – George R. Gissing un vittoriano nel Sud»): «Il viaggio di Gissing allude costantemente a una personale ricerca di senso che rimette in causa il sottofondo dell’intérieur e apre la coscienza del protagonista al riconoscimento di un intrico di ragioni e di stati dell’essere altrimenti celati nella sofferta biografia dello scrittore».

Potremmo dire che in qualche modo per lo scrittore calabrese, nella sua esplorazione “dell’essere”, valga quello che per il suo alter ego vittoriano era il Sud: l’emblema di una modernizzazione distruttiva e caotica, dove non c’era più posto per le mitologie letterarie del bello classico, ma solo spaesamento e sofferenza.

Ecco allora che Minervino avvia due movimenti dialettici, strettamente intrecciati al tema del viaggio e della rivelazione del sé e degli altri: da una parte il tormentato confronto tra “ una vita da desiderare” e l’impossibilità di ottenerla; e dall’altra il rapporto complesso fra un io soggettivo e un io comunitario.

Da questo confronto nasce una sorta di irrequietezza dell’animo che spinge l’autore alla costante ricerca di senso all’interno di un contesto civile e sociale, come quello calabrese (e non solo) che sembra sempre più irredimibile. E’ possibile coglier(vi) significato là dove è estremamente problematico riconnettere trame più armoniose di vita?

Tutta l’opera di Minervino è attraversata da questa costante ricerca, siano essi i libri più scientifici – tipici dell’antropologia, la sua disciplina – sia quelli più narrativi. Già in «Calabria brucia» e in «Statale 18» si palesava chiaramente questo rispecchiamento fra vita propria e vita patriae, con un percorso di lavoro che si muoveva tra saggio, reportage di viaggio, studio antropologico e inserti personali che in un modo o nell’altro servivano a chiarirsi e chiarire.

Ora in quest’ultimo suo lavoro tutto è squadernato in modo più diretto, immediato, narrativo: «Io sono un figlio di questi luoghi ammalati e della gente confusa e ammassata di adesso; un dromofilo, uno smanioso che guarda e descrive una terra inquieta e sconcia». Appunto, in rovina.

Oggi però le rovine, divenute macerie, rispetto all’aura estetizzante del passato sono sempre più la perturbante incarnazione dei tempi che viviamo, potente allegoria del mondo globalizzato. Più che a rammentarci romanticamente la caducità di ogni cosa, esse sono divenute sempre più il simbolo del dramma di terre come la Calabria, che per inseguire una presunta modernità ha visto, dal secondo dopoguerra, la distruzione dello straordinario paesaggio che nel tempo aveva attratto viaggiatori da ogni luogo d’Europa.

Una terra considerata o culla di civiltà, oppure “naturalmente” primitiva e pittoresca, con panorami incredibili su monti e mari di una bellezza indimenticabile, ma anche segnata da terremoti e alluvioni, attraversata da invasioni di ogni genere, percossa da violenze, depredata delle sue risorse. Su questo topos di Calabria si costruisce, per analogia, il mito, che persiste tenacemente, del calabrese ribelle, indomito, selvaggio. Con tutte le conseguenze del caso: oggi con poco meno di due milioni di abitanti, la regione è una delle terre più povere d’Europa, dove tutti gli indicatori di sviluppo la danno agli ultimi posti per qualità di vita.

Minervino questo lo sa bene, avendo percorso ogni angolo della regione, e con acume può scriverne andando oltre l’immediato apparire degli scempi edilizi, delle discariche abusive, dei tagli boschivi, delle coste smembrate, dei centri commerciali immersi nel nulla. Egli guarda e scova la problematica bellezza nascosta tra le pieghe del brutto che avanza: «La Sila è massiccia, reale, sta lì, fissa come quelle vecchie donne di paese custodi del tempo, resiste quasi inabitata e si oppone all’ovvio (il turismo, lo sviluppo,i festival, le monocolture, il malgoverno, lo spopolamento, le troppe strade)».

La Calabria diviene allora nelle pagine dell’autore paradigma non solo dell’intera nazione, ma simbolo universale della condizione umana e sociale dell’individuo, smarrito nei gorghi della surmodernità. Nonostante la venatura pessimistica, Minervino non è però arrendevole, non lo è per ragione, non lo è (per chi lo conosce) per carattere.

Infatti, quando lascia la natìa Paola (“Petra”, nel testo) per recarsi in giro per l’Italia e per l’Europa, l’autore non smarrisce il filo di un ragionamento che corre sul filo dei «lembi di questo estremo Occidente» per tentare «una strada nuova per uscire dalla rassegnazione e dall’oppressione».

Probabilmente è il libro più personale dell’autore. Se si vuole trovare un difetto è forse possibile individuarlo in un eccesso di “soggettività” – a rischio, come spesso accade per un io narrante, di retorica più o meno involontaria – che potrebbe offuscare quel rapporto dinamico ed equilibrato che si dovrebbe instaurare fra i vari reparti e reperti dell’esistere. Difficile però restarne immuni quando si maneggia una materia viva e sentita come la propria terra dove indignazione, rabbia, dolore, amarezza si mescolano in un magma incandescente e ustionante, a volte venato di malinconia.

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