Un horror di classe
di Bianca Menichelli
Hans Tuzzi è uno pseudonimo dietro il quale si cela un antiquario-bibliofilo; ha scritto saggi che riguardano la sua area di competenza, ma forse ha raggiunto un pubblico più vasto con una serie di romanzi gialli ambientati nella Milano da bere.
«Vanagloria» (2012, Bollati Boringhieri) non è un giallo ma una esplorazione delle viscere, pulsanti di umori maleolenti, della media/alta borghesia riformista milanese, nella finzione letteraria paneropolense (dal milanese panèra, pannarone). E’ una discesa all’inferno di buone intenzioni e di pessime abitudini.
Le storie si intrecciano, a volte si incontrano, a volte si sfiorano, a volte si ignorano, a volte percorrono piste parallele.
Il minimo (o massimo?) comune denominatore è la vanagloria: «Eccessiva stima di se stesso che determina un fatuo e smoderato desiderio di lodi per meriti inesistenti. Sinonimi: albagia, vanità» (Zingarelli 2011). In subordine l’assoluzione, intesa come dichiarazione di innocenza.
La scrittura che Tuzzi utilizza per parlare dei morti viventi e della loro non-vita è la più complessa e vivace che si possa immaginare, la più varia per lessico e stile; in tal modo crea e sottolinea il contrasto fra l’essere e l’apparire, l’interruzione fra l’essere e l’avere, dove essere vuol pur sempre dire cartesianamente cogito ergo sum.
Quindi ben vengano sul tavolo del lettore in contemporanea altri libri, di storia dell’arte, di letteratura antica e moderna, di inglese e francese, se necessari, assieme al vocabolario della lingua italiana, sempre sottomano per evitare di scervellarsi su un termine desueto o particolare o semplicemente sconosciuto.
E non ci si deve spazientire per le svariate pagine che sembrano scritte solo per il colto e l’inclita: lo scrittore sta svolgendo il suo compito.
Perché «la letteratura, intesa come grande esperimento sui limiti dell’umano, dovrebbe sempre essere questo. Un detonatore… Un fattore di squilibrio…». Ma poi «arrivano i critici, i professori, gli intellettuali, freddi e seriosi come i conigli neri al capezzale di Pinocchio. Tenace e paziente, la mediocrità riafferma sempre i suoi diritti» (Emanuele Trevi, «Qualcosa di scritto» 2012, Ponte alle Grazie, pagina 23).
Il libro di Hans Tuzzi chiede questo: non facciamo vincere la mediocrità, perché a essa si accompagnano in vario grado lo smarrimento della memoria, l’acquiescenza, l’indifferenza, l’impunità, la banalità, l’incultura, la negazione dei diritti, l’arroganza del potere, in sintesi la perdita dell’umanità.
Ma ci consegna anche una sua regola: leggere (e scrivere) con lentezza (ha steso le 451 pagine di questo libro tra settembre 2006 e maggio 2010 e non sembra aver fatto copia/incolla) perché ci si riappropri delle domande fondamentali «Chi siamo, dove andiamo» ma soprattutto «come e con chi ci andiamo».
or ora mi suggeriscono (dalla regia extragalattica) che Hans Tuzzi è un personaggio di Musil