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La Bottega del Barbieri

Un missile nel giardino di Josep Borrell*

articoli, video, poesie, disegni di Stefano Benni, Nury Vittachi, Jesús López Almejo, Fabio Mini, Barbara Spinelli, Fabrizio Verde, John Mearsheimer, Fabrizio Poggi, Clara Statello, Domenico Quirico, Giuseppe Morabito, Lorenzo Di Bella, Marco Valerio Verni, Eve Ottenberg, Laura Tussi, Elena Basile, Luciano Canfora, Giuseppe Masala, Alberto Negri, Diego Ruzzarin, Boris Kagarlitsky, Peppe Sini, Davide Malacaria, (TIR) Tendenza internazionalista rivoluzionaria, Marco Travaglio, Jose Vizner, Juan Antonio Aguilar, Miguel Ruiz Calvo, Ben Garrison

L’ordine basato sulle regole – Nury Vittachi

  1. Gli Stati Uniti governano il mondo.
  2. Gli Stati Uniti stabiliscono tutte le regole, comprese queste regole.
  3. Nessuno può sapere quali sono le regole, solo che esistono.
  4. Nessuno è autorizzato a chiedere quali sono le regole.
  5. Gli Stati Uniti saranno responsabili della flessibilità fornita dall’inesistenza delle norme.
  6. I paesi non occidentali devono essere regolarmente puniti per non aver seguito le regole.
  7. I paesi occidentali devono essere regolarmente elogiati per seguire le regole.
  8. Le regole alternative di governo che funzionano con successo (cfr. Cina, Singapore) devono sempre essere derise come “autoritarismo”.
  9. L’ingiusto dominio globale da parte della minoranza occidentale del 13% (cfr. totalitarismo) deve sempre essere definito “democrazia”.
  10. Queste regole prevalgono su tutte le altre regole, compresa la giustizia fondamentale e le leggi della natura.

Grazie e buonanotte.

Con amore,

Il Pentagono

da qui

 

 

La vera storia della guerra in Ucraina – Jeffrey D. Sachs

Una dettagliata cronologia degli eventi e un caso per la diplomazia

I leader ucraini hanno accettato l’inganno degli Stati Uniti per ragioni difficili da comprendere. Forse credono negli Stati Uniti, o hanno paura degli Stati Uniti, o temono i loro stessi estremisti, o semplicemente sono estremisti, pronti a sacrificare centinaia di migliaia di ucraini a morte o feriti nell’ingenua convinzione che l’Ucraina possa sconfiggere una superpotenza nucleare che pensa la guerra come una faccenda esistenziale. O forse alcuni dei leader ucraini stanno facendo fortuna scremando le decine di miliardi di dollari di aiuti e armi occidentali.

Il popolo americano ha urgente bisogno di conoscere la vera storia della guerra in Ucraina e le sue attuali prospettive. Sfortunatamente, i media mainstream — The New York Times, Wall Street Journal, Washington Post, MSNBC e CNN — sono diventati semplici portavoce del governo, ripetendo le bugie del presidente degli Stati Uniti Joe Biden e nascondendo la storia al pubblico.

Biden sta nuovamente denigrando il presidente russo Vladimir Putin, questa volta Biden accusando Putin di una “vile sete di terra e potere”, dopo aver dichiarato l’anno scorso che “Per l’amor di Dio, quell’uomo [Putin] non può rimanere al potere”. Eppure Biden è colui che sta intrappolando l’Ucraina in una guerra senza fine continuando a spingere l’allargamento della NATO all’Ucraina. Ha paura di dire la verità al popolo americano e ucraino, rifiutando la diplomazia e optando invece per la guerra perpetua.

L’espansione della NATO all’Ucraina, che Biden ha promosso a lungo, è una mossa degli Stati Uniti che è fallita. I neoconservatori, incluso Biden, hanno pensato dalla fine degli anni ’90 in poi che gli Stati Uniti potessero espandere la NATO all’Ucraina (e alla Georgia) nonostante l’opposizione rumorosa e di lunga data della Russia.

Non credevano che Putin sarebbe effettivamente entrato in guerra per l’espansione della NATO.

Tuttavia, per la Russia, l’allargamento della NATO all’Ucraina (e alla Georgia) è visto come una minaccia esistenziale alla sicurezza nazionale della Russia, in particolare dati i 2.000 km di confine della Russia con l’Ucraina e la posizione strategica della Georgia sul bordo orientale del Mar Nero. I diplomatici statunitensi hanno spiegato questa realtà di base ai politici e ai generali statunitensi per decenni, ma i politici e i generali hanno comunque insistito con arroganza e crudeltà nel promuovere l’allargamento della NATO.

A questo punto, Biden sa benissimo che l’allargamento della NATO all’Ucraina scatenerebbe la terza guerra mondiale. Ecco perché dietro le quinte Biden ha ridotto l’allargamento della NATO al vertice NATO di Vilnius. Eppure, piuttosto che ammettere la verità – che l’Ucraina non farà parte della NATO – Biden tergiversa, promettendo l’eventuale adesione dell’Ucraina. In realtà, sta impegnando l’Ucraina in un continuo salasso per nessun motivo diverso dalla politica interna degli Stati Uniti, in particolare la paura di Biden di sembrare debole ai suoi nemici politici. (Mezzo secolo fa, i presidenti Johnson e Nixon hanno sostenuto la guerra del Vietnam essenzialmente per la stessa patetica ragione e con la stessa menzogna, come ha brillantemente spiegato il defunto Daniel Ellsberg, brilliantly explained.

L’Ucraina non può vincere. È più probabile che la Russia prevalga sul campo di battaglia, come sembra stia facendo ora. Tuttavia, anche se l’Ucraina dovesse sfondare con le forze convenzionali e le armi della NATO, la Russia passerebbe alla guerra nucleare, se necessario, per impedire la NATO in Ucraina.

Durante tutta la sua carriera, Biden ha servito il complesso militare-industriale. Ha promosso incessantemente l’allargamento della NATO e ha sostenuto le guerre profondamente destabilizzanti dell’America in Afghanistan, Serbia, Iraq, Siria, Libia e ora in Ucraina. Si rimette ai generali che vogliono più guerra e più “sbalzi” e che prevedono una vittoria imminente appena avanti per mantenere il pubblico credulone dalla loro parte.

Inoltre, Biden e il suo team (Antony Blinken, Jake Sullivan, Victoria Nuland) sembrano aver creduto alla loro stessa propaganda secondo cui le sanzioni occidentali avrebbero strangolato l’economia russa, mentre armi miracolose come HIMARS avrebbero sconfitto la Russia. E nel frattempo hanno detto agli americani di non prestare attenzione alle 6.000 armi nucleari della Russia.

I leader ucraini hanno accettato l’inganno degli Stati Uniti per ragioni difficili da comprendere. Forse credono negli Stati Uniti, o hanno paura degli Stati Uniti, o temono i loro stessi estremisti, o semplicemente sono estremisti, pronti a sacrificare centinaia di migliaia di ucraini a morte o feriti nell’ingenua convinzione che l’Ucraina possa sconfiggere una superpotenza nucleare che pensa la guerra come una faccenda esistenziale. O forse alcuni dei leader ucraini stanno facendo fortuna scremando le decine di miliardi di dollari di aiuti e armi occidentali.

L’unico modo per salvare l’Ucraina è una pace negoziata. In un accordo negoziato, gli Stati Uniti accetterebbero che la NATO non si allargherebbe all’Ucraina mentre la Russia accetterebbe di ritirare le sue truppe. Le restanti questioni – la Crimea, il Donbass, le sanzioni statunitensi ed europee, il futuro degli accordi di sicurezza europei – sarebbero gestite politicamente, non con una guerra senza fine.

La Russia ha ripetutamente tentato i negoziati: per cercare di prevenire l’allargamento ad est della NATO; cercare di trovare adeguati accordi di sicurezza con gli Stati Uniti e l’Europa; cercare di risolvere le questioni interetniche in Ucraina dopo il 2014 (gli accordi di Minsk I e Minsk II); cercare di sostenere i limiti sui missili antibalistici; e cercare di porre fine alla guerra in Ucraina nel 2022 attraverso negoziati diretti con l’Ucraina. In tutti i casi, il governo degli Stati Uniti ha disdegnato, ignorato o bloccato questi tentativi, proponendo spesso la grande bugia che la Russia piuttosto che gli Stati Uniti rifiutano i negoziati. JFK ha detto esattamente nel 1961: “Non negoziamo mai per paura, ma non temiamo mai di negoziare”. Se solo Biden prestasse ascolto alla saggezza duratura di JFK.

Per aiutare il pubblico ad andare oltre la narrativa semplicistica di Biden e dei media mainstream, offro una breve cronologia di alcuni eventi chiave che hanno portato alla guerra in corso.

31 gennaio 1990. Il ministro degli Esteri tedesco Hans Dietrich-Genscher si impegna con il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov che nel contesto della riunificazione tedesca e dello scioglimento dell’alleanza militare sovietica del Patto di Varsavia, la NATO escluderà una “espansione del suo territorio a est, cioè, spostandolo più vicino ai confini sovietici”.

9 febbraio 1990. Il segretario di Stato americano James Baker III concorda con il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov che “l’espansione della NATO è inaccettabile”.

29 giugno – 2 luglio 1990. Il segretario generale della NATO Manfred Woerner dice a una delegazione russa di alto livello che “il Consiglio della NATO e lui [Woerner] sono contrari all’espansione della NATO”.

1° luglio 1990. Il Rada (parlamento) ucraino adotta la Dichiarazione di sovranità statale, in cui “La SSR ucraina dichiara solennemente la sua intenzione di diventare uno stato permanentemente neutrale che non partecipa a blocchi militari e aderisce a tre principi liberi dal nucleare: accettare, di non produrre e acquistare armi nucleari”.

24 agosto 1991. L’Ucraina dichiara l’indipendenza sulla base della Dichiarazione di sovranità statale del 1990, che include la promessa di neutralità.

Metà del 1992. I responsabili politici dell’amministrazione Bush raggiungono un consenso interno segreto per espandere la NATO, contrariamente agli impegni presi di recente con l’Unione Sovietica e la Federazione Russa.

8 luglio 1997. Al Vertice NATO di Madrid, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca sono invitate ad avviare i colloqui di adesione alla NATO.

Settembre-ottobre 1997. In Foreign Affairs (settembre/ottobre 1997) l’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski dettaglia la tempistica dell’allargamento della NATO, con l’inizio provvisorio dei negoziati dell’Ucraina nel 2005-2010.

24 marzo – 10 giugno 1999. La NATO bombarda la Serbia. La Russia definisce il bombardamento della NATO “una flagrante violazione della Carta delle Nazioni Unite”.

Marzo 2000. Il presidente ucraino Kuchma dichiara che “non c’è dubbio che l’Ucraina aderisca oggi alla NATO poiché la questione è estremamente complessa e ha molti aspetti”.

13 giugno 2002. Gli Stati Uniti si ritirano unilateralmente dal Trattato sulle armi antibalistiche, un’azione che il vicepresidente del Comitato per la difesa della Duma russa definisce un “evento estremamente negativo di portata storica”.

Novembre-dicembre 2004. In Ucraina si verifica la “rivoluzione arancione”, eventi che l’Occidente caratterizza come una rivoluzione democratica e il governo russo caratterizza come una presa di potere fabbricata dall’Occidente con il sostegno palese e nascosto degli Stati Uniti.

10 febbraio 2007. Putin critica aspramente il tentativo degli Stati Uniti di creare un mondo unipolare, sostenuto dall’allargamento della NATO, in un discorso alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, dichiarando: “Penso sia ovvio che l’allargamento della NATO … rappresenta una seria provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E abbiamo il diritto di chiederci: contro chi è destinata questa espansione? E che fine hanno fatto le assicurazioni fatte dai nostri partner occidentali dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia?

1° febbraio 2008. L’ambasciatore degli Stati Uniti in Russia William Burns invia un cablogramma confidenziale al consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Condoleezza Rice, intitolato “Nyet significa Nyet: le linee rosse dell’allargamento della NATO della Russia”, sottolineando che “le aspirazioni della NATO dell’Ucraina e della Georgia non solo toccano un nervo scoperto in Russia, generano serie preoccupazioni circa le conseguenze per la stabilità nella regione”.

18 febbraio 2008. Gli Stati Uniti riconoscono l’indipendenza del Kosovo nonostante le accese obiezioni russe. Il governo russo dichiara che l’indipendenza del Kosovo viola “la sovranità della Repubblica di Serbia, la Carta delle Nazioni Unite, l’UNSCR 1244, i principi dell’Atto finale di Helsinki, il quadro costituzionale del Kosovo e gli accordi del gruppo di contatto ad alto livello”.

3 aprile 2008. La NATO dichiara che l’Ucraina e la Georgia “diventeranno membri della NATO”. La Russia dichiara che “l’adesione della Georgia e dell’Ucraina all’alleanza è un enorme errore strategico che avrebbe gravissime conseguenze per la sicurezza paneuropea”.

20 agosto 2008. Gli Stati Uniti annunciano che dispiegheranno sistemi di difesa contro i missili balistici (BMD) in Polonia, seguiti successivamente dalla Romania. La Russia esprime una strenua opposizione ai sistemi BMD.

28 gennaio 2014. L’assistente segretario di Stato Victoria Nuland e l’ambasciatore statunitense Geoffrey Pyatt pianificano un cambio di regime in Ucraina in una chiamata intercettata e pubblicata su YouTube il 7 febbraio, in cui Nuland osserva che “[il vicepresidente] Biden è disposto” ad aiutare per concludere l’affare.

21 febbraio 2014. I governi di Ucraina, Polonia, Francia e Germania raggiungono un accordo sulla risoluzione della crisi politica in Ucraina, chiedendo nuove elezioni nel corso dell’anno. Il settore di estrema destra e altri gruppi armati chiedono invece le dimissioni immediate di Yanukovich e prendono il controllo degli edifici governativi. Yanukovich fugge. Il Parlamento priva immediatamente il Presidente dei suoi poteri senza un processo di impeachment.

22 febbraio 2014. Gli Stati Uniti approvano immediatamente il cambio di regime.

16 marzo 2014. La Russia tiene un referendum in Crimea che, secondo il governo russo, si traduce in un’ampia maggioranza di voti a favore del dominio russo. Il 21 marzo la Duma russa vota per ammettere la Crimea alla Federazione Russa. Il governo russo traccia l’analogia con il referendum sul Kosovo. Gli Stati Uniti respingono il referendum in Crimea come illegittimo.

18 marzo 2014. Il presidente Putin definisce il cambio di regime un colpo di stato, March 18, 2014. President Putin characterizes the regime change as a coup, affermando stating: “coloro che stavano dietro agli ultimi eventi in Ucraina avevano un’agenda diversa: stavano preparando l’ennesima presa di potere del governo; volevano prendere il potere e non si sarebbero fermati davanti a nulla. Hanno fatto ricorso al terrore, all’assassinio e alle rivolte”.: “those who stood behind the latest events in Ukraine had a different agenda: they were preparing yet another government takeover; they wanted to seize power and would stop short of nothing. They resorted to terror, murder and riots.”

25 marzo 2014. Il presidente Barack Obama prende in giro la Russia “come una potenza regionale che sta minacciando alcuni dei suoi immediati vicini, non per forza ma per debolezza”.

12 febbraio 2015. Firma dell’accordo di Minsk II. L’accordo è sostenuto all’unanimità dalla risoluzione 2202 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 17 febbraio 2015. L’ex cancelliere Angela Merkel ha successivamente riconosciuto che l’accordo di Minsk II è stato progettato per dare tempo all’Ucraina di rafforzare le sue forze armate. Non è stato attuato dall’Ucraina e il presidente Volodymyr Zelensky ha riconosciuto di non avere alcuna intenzione di attuare l’accordo.

1° febbraio 2019. Gli Stati Uniti si ritirano unilateralmente dal Trattato sulle forze nucleari intermedie (INF). La Russia critica aspramente il ritiro dall’INF come un atto “distruttivo” che ha alimentato i rischi per la sicurezza.

14 giugno 2021. Al vertice NATO del 2021 a Bruxelles, l’alleanza riconferma la sua intenzione di allargare e includere l’Ucraina: “Ribadiamo la decisione presa al vertice di Bucarest del 2008 che l’Ucraina diventerà un membro dell’Alleanza”.

1° settembre 2021. Gli Stati Uniti ribadiscono il sostegno alle aspirazioni NATO dell’Ucraina nella “Dichiarazione congiunta sul partenariato strategico USA-Ucraina .”

17 dicembre 2021. Putin presenta una bozza di “Trattato tra gli Stati Uniti d’America e la Federazione Russa sulle garanzie di sicurezza“, basato sul non allargamento della NATO e sulle limitazioni allo spiegamento di missili a raggio intermedio e corto.

26 gennaio 2022. Gli Stati Uniti rispondono formalmente alla Russia che gli Stati Uniti e la NATO non negozieranno con la Russia sulle questioni dell’allargamento della NATO, sbattendo la porta su un percorso negoziato per evitare un’espansione della guerra in Ucraina. Gli Stati Uniti invocano la politica della NATO secondo cui “Qualsiasi decisione di invitare un paese ad aderire all’Alleanza è presa dal Consiglio Nord Atlantico sulla base del consenso tra tutti gli alleati. Nessun paese terzo ha voce in capitolo in tali deliberazioni”. In breve, gli Stati Uniti affermano che l’allargamento della NATO all’Ucraina non è affare della Russia.

21 febbraio 2022. In una riunione del Consiglio di sicurezza russo, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov descrive in dettaglio il rifiuto degli Stati Uniti di negoziare:

“Abbiamo ricevuto la loro risposta a fine gennaio. La valutazione di questa risposta mostra che i nostri colleghi occidentali non sono disposti ad accogliere le nostre principali proposte, in primo luogo quelle sulla non espansione della NATO verso est. Questa richiesta è stata respinta con riferimento alla cosiddetta politica della porta aperta del blocco e alla libertà di ogni stato di scegliere il proprio modo di garantire la sicurezza. Né gli Stati Uniti, né l’Alleanza del Nord Atlantico hanno proposto un’alternativa a questa disposizione chiave”.

Gli Stati Uniti stanno facendo tutto il possibile per evitare il principio di indivisibilità della sicurezza che consideriamo di fondamentale importanza e al quale abbiamo fatto molti riferimenti. Traendo da ciò l’unico elemento che gli conviene — la libertà di scegliere le alleanze — ignorano completamente tutto il resto, inclusa la condizione chiave che dice che “nessuno — né nella scelta delle alleanze né a prescindere da esse — è autorizzato a rafforzare la propria sicurezza a scapito della sicurezza degli altri”.

24 febbraio 2022. In un discorso alla nazione, il presidente Putin dichiara: “È un dato di fatto che negli ultimi 30 anni abbiamo cercato pazientemente di raggiungere un accordo con i principali paesi della NATO in merito ai principi di sicurezza uguale e indivisibile in Europa. In risposta alle nostre proposte, abbiamo invariabilmente affrontato cinici inganni e menzogne ​​o tentativi di pressioni e ricatti, mentre l’Alleanza del Nord Atlantico continuava ad espandersi nonostante le nostre proteste e preoccupazioni. La sua macchina militare si sta muovendo e, come ho detto, si sta avvicinando proprio al nostro confine”.

16 marzo 2022. Russia e Ucraina annunciano progressi significativi verso un accordo di pace mediato dalla Turchia e dal primo ministro israeliano Naftali Bennett. Come riportato dalla stampa, la base dell’accordo include: “un cessate il fuoco e il ritiro della Russia se Kiev si dichiara neutrale e accetta limiti alle sue forze armate”.

28 marzo 2022. Il presidente Zelensky dichiara pubblicamente che l’Ucraina è pronta per la neutralità unita a garanzie di sicurezza come parte di un accordo di pace con la Russia. “Garanzie di sicurezza e neutralità, lo stato non nucleare del nostro stato: siamo pronti a farlo. Questo è il punto più importante… hanno iniziato la guerra per questo”.

7 aprile 2022. Il ministro degli Esteri russo Lavrov accusa l’Occidente di aver tentato di far deragliare i colloqui di pace, sostenendo che l’Ucraina è tornata indietro su proposte concordate in precedenza. Il primo ministro Naftali Bennett successivamente afferma (il 5 febbraio 2023) che gli Stati Uniti avevano bloccato l’accordo di pace Russia-Ucraina in sospeso. Alla domanda se le potenze occidentali hanno bloccato l’accordo, Bennett ha risposto: “Fondamentalmente sì. L’hanno bloccato e ho pensato che si sbagliassero. Ad un certo punto, dice Bennett, l’Occidente ha deciso di “schiacciare Putin piuttosto che negoziare”.

4 giugno 2023. L’Ucraina lancia un’importante controffensiva, senza ottenere grandi successi a metà luglio 2023.

7 luglio 2023. Biden riconosce che l’Ucraina sta “esaurendo” i proiettili di artiglieria da 155 mm e che gli Stati Uniti “si stanno esaurendo”.

11 luglio 2023. Al vertice NATO di Vilnius, il comunicato finale riafferma il futuro dell’Ucraina nella NATO: “Sosteniamo pienamente il diritto dell’Ucraina di scegliere le proprie disposizioni di sicurezza. Il futuro dell’Ucraina è nella NATO… L’Ucraina è diventata sempre più interoperabile e politicamente integrata con l’Alleanza, e ha compiuto progressi sostanziali nel suo percorso di riforme”.

13 luglio 2023. Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin ribadisce che l’Ucraina “senza dubbio” aderirà alla NATO quando la guerra finirà.

13 luglio 2023. Putin ribadisce che “Per quanto riguarda l’adesione dell’Ucraina alla NATO, come abbiamo detto molte volte, questo ovviamente crea una minaccia alla sicurezza della Russia. Infatti, la minaccia dell’adesione dell’Ucraina alla NATO è il motivo, o meglio uno dei motivi dell’operazione militare speciale. Sono certo che neanche questo migliorerebbe in alcun modo la sicurezza dell’Ucraina. In generale, renderà il mondo molto più vulnerabile e porterà a maggiori tensioni nell’arena internazionale. Quindi, non vedo niente di buono in questo. La nostra posizione è ben nota ed è stata formulata da tempo”.

da qui

 

 

 

 

La controffensiva degli utili idioti – Fabio Mini

LA GUERRA RUSSIA-UCRAINA – L’avanzata di Kiev (non riuscita in primavera) ora viene declamata in salsa estiva: obiettivo, l’isolamento della Crimea Intanto la strategia della Nato va a segno: ricostruzione e nuove armi

La controffensiva di primavera avrebbe dovuto sfoggiare la determinazione e la capacità ucraina di vincere la guerra contro la Russia, non tanto e non solo per l’Ucraina, ma per l’intero mondo occidentale e per l’Europa in particolare. In realtà la primavera non poteva aiutare a vincere alcunché.

Da quelle parti la primavera rende i movimenti difficili anche per i mezzi corazzati. E la determinazione e le capacità teoriche e psicologiche non potevano compensare i dubbi, i rischi e la carenza di forze e di mezzi. Doveva essere una controffensiva determinante anche solo nella propaganda per guadagnare la fiducia degli alleati e sostenitori dell’Ucraina. In realtà, proprio a Vilnius, la stessa Nato ha vibrato una mazzata tremenda alla già scarsa fiducia ucraina nei confronti dell’Alleanza Atlantica e di tutti i Paesi che si definiscono suoi amici fedeli.

Una mazzata ancor più subdola perché nascosta in un guanto di lattice come quello del chirurgo che non si vuole sporcare le mani mentre ti asporta motivazione e speranza oltre che sostegno pratico. Doveva essere una controffensiva che avrebbe dovuto innescare una reazione scomposta della Russia: o cedendo al panico o passando a sistemi e armamenti più distruttivi e provocatori. Non è stato così. La Russia non solo ha resistito, ma ha anche mostrato di saper incassare, cedere il cedibile o il superfluo, recuperare energie e tornare a irrigidire la difesa. Dopo aver etichettato la manovra russa come un’invasione a tutto campo (full scale) la controffensiva doveva essere rivolta al cuore della difesa avversaria. Invece si è sviluppata in maniera randomica su una linea di fronte lunga e incerta come se i vertici militari ucraini e tutti quelli dei Paesi alleati e amici (o soltanto ideologicamente schierati) non avessero la minima idea di cosa stesse succedendo. Doveva essere un’operazione basata sulla sorpresa (“attaccando laddove e quando i russi non se lo aspettano”) e paradossalmente sono stati gli ucraini a “sorprendersi” di ciò che avrebbe dovuto essere ovvio e ben visibile: le linee difensive costruite dai russi, gli ostacoli, i campi minati e gli schieramenti di artiglieria oltre al controllo del cielo. Doveva essere il grande scontro di mezzi corazzati come le battaglie di “giganti” dell’Europa e dell’Africa della Seconda guerra mondiale. E invece i carri armati di una decina di tipologie diverse, con scarse munizioni, autonomia logistica e tattica di poche ore ed equipaggi inesperti si sono imbattuti in un muro di ostacoli e fuoco. Doveva essere la moderna “madre di tutte le battaglie corazzate” e invece si è tramutata in una serie di provocazioni più terroristiche che “speciali”, più di disturbo che di distruzione, più contro la popolazione che contro gli obiettivi militari. Ora siamo in piena estate e mentre il terreno offre qualche possibilità in più le forze e le armi continuano a scarseggiare. Siamo in una “nuova fase”, ci assicurano gli esperti del NYT, l’Ucraina ha iniziato la sua spinta decisiva e sta muovendo le unità corazzate armate e addestrate dall’Occidente finora tenute in riserva. Finalmente è stato trovato l’obiettivo pagante: la striscia di collegamento fra Russia e Crimea. L’isolamento della Crimea dovrebbe essere la dimostrazione della vittoria da vendere in Europa e nel mondo come testimonianza del valore ucraino: la vittoria che dovrebbe indurre la Russia a ritirarsi…

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Kissinger regola i conti coi Neocon – Barbara Spinelli

S’intensifica l’attivismo di Henry Kissinger, da quando Mosca ha invaso l’Ucraina.

Ha appena compiuto 100 anni ed eccolo a Pechino, giovedì 20 luglio, per discutere col presidente Xi Jinping di ordine multipolare e del caposaldo della diplomazia cinese: il riconoscimento statunitense del principio di “una sola Cina”, di cui Taiwan è parte integrante. Xi ha chiamato l’interlocutore “nostro vecchio amico”. L’orizzonte a cui ambedue hanno fatto accenno è stato il “comunicato di Shanghai”, che Richard Nixon firmò nel 1972, quando Washington aprì spettacolarmente alla Cina dopo decenni di tensioni.

Kissinger accorre per riportare qualche ordine nel caos creato da Washington nel dopo Guerra fredda. Si oppone di fatto alle guerre di esportazione della democrazia, lanciate sconsideratamente da una serie di presidenti, soprattutto democratici: Clinton, Bush junior, Obama, Biden. L’ordine mondiale basato su regole fissate unilateralmente dagli Stati Uniti (rules-based international order), detto anche Liberal International Order, viene sostituito nei discorsi e nelle iniziative dell’ex Segretario di Stato dall’ottocentesco Concerto delle Nazioni, che pacificò l’Europa dopo le guerre napoleoniche ed ebbe come architetto il principe Metternich. Fanno ritorno con lui gli imperativi della geopolitica e dell’equilibrio delle potenze (balance of power): incompatibili entrambi con l’egemonia unilaterale Usa che chiude la Storia quando lo squilibrio è massimo.

Kissinger si è attivato fin dal 2022, esprimendosi più volte sull’invasione russa dell’Ucraina in seguito a una non meno sanguinosa guerra civile iniziata da Kiev otto anni prima nelle regioni russofone del Donbass (13-14.000 morti). Da tempo aveva messo in guardia la Nato contro un allargamento a Est che inevitabilmente avrebbe riacceso ataviche paure di accerchiamento nella Russia post-sovietica. Non era l’unico ad ammonire: erano con lui Jack Matlock, ambasciatore Usa in Russia, e diplomatici e politici di primo piano come George Kennan (l’architetto della politica di contenimento pacifico dell’Urss) o Helmut Schmidt. Oggi sono rari i leader europei pronti ad ammettere che la linea Kissinger restituirebbe peso e potere all’Europa. Ancora nel settembre 2022, Kissinger riteneva “poco saggia” l’adesione alla Nato chiesta da Zelensky. Poco dopo, il 17 gennaio, cambiò posizione e disse che la neutralità ucraina non era più contemplabile. Ma non smise di sostenere che Kiev dovrà rinunciare alla Crimea e trattare sul destino delle aree russofone del Donbass.

Kissinger resta uno dei massimi fautori del realismo politico nei rapporti occidentali con Russia, Cina, India, accanto a osservatori come Stephen Walt, John Mearsheimer, Jeffrey Sachs (e in Italia la rivista geopolitica Limes di Lucio Caracciolo). È l’antagonista più temuto dai neoconservatori che hanno avuto la meglio nell’Amministrazione Biden, e che solo nell’ultimo miglio sembrano in difficoltà.

Emblematico il rapporto del presidente democratico con il sottosegretario di Stato Victoria Nuland, già consigliere di Cheney nell’Amministrazione Bush jr e artefice disastrosa del colpo di Stato che nel 2014 favorì e finanziò il defenestramento del poco atlantista presidente ucraino Yanukovich: un atto sgradito da alcuni governi europei, che Nuland mise in riga con parole sguaiate, in una telefonata con l’ambasciatore Usa in Ucraina (“Fuck Europe!”). Kissinger regola così i conti con i neocon: “L’esito preferito da alcuni è una Russia resa impotente dalla guerra. Non sono d’accordo. Nonostante la sua propensione alla violenza, la Russia ha dato contributi decisivi, per oltre mezzo millennio, all’equilibrio globale e al bilanciamento delle forze. Il suo ruolo storico non va degradato” (The Spectator, 17.12.2022)…

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“Se casa tua è nella Nato, accetta la Nato in casa tua”, il video di propaganda russo contro il governo tedesco: “22 miliardi in Ucraina”

 

Una squadraccia entra in un’abitazione in Germania, sequestra spiccioli e oggetti vari fino a svuotare l’appartamento, alla parete l’ufficiale appende un ritratto del leader ucraino Volodymyr Zelensky. Il tutto sotto lo sguardo impaurito e impotente della famiglia proprietaria di casa, che subisce il sopruso. Il video termina con l’ufficiale che grida un inequivocabile “heil Zelensky“. Si tratta di un video, diventato virale nelle scorse ore, una critica aperta al governo tedesco per il sostegno militare offerto all’Ucraina: “La tua casa è nella Nato? Accetta la Nato in casa tua” si legge nella scritta in sovrimpressione che continua: “Dall’inizio del 2022 più di 22 miliardi di euro del bilancio tedesco sono finiti in Ucraina”.Un filmato che in un primo momento era stato attribuito al partito di ultradestra AfD, impegnato da tempo a sostenere la necessità di sospendere le sanzioni alla Russia. I responsabili della formazione politica hanno però disconosciuto la paternità del video, affermando di non aver avuto alcun ruolo nella sua produzione. L’emittente televisiva Zdf ha analizzato il video con un software di riconoscimento facciale e ha potuto stabilire che gli attori impegnati sono russi, inoltre un post social intercettato prima di essere cancellato collegava il filmato a Russia Today. Zdf fa anche i nomi degli attori, l’attrice Julia Konyukhova interpreta la madre e il bambino del video è suo figlio. Il padre è l’attore del teatro di San Pietroburgo Walentin Worobjov (già comparso in altri video di propaganda), l’ufficiale a capo della fantomatica squadraccia è l’attrice Julia Mandriko. La Zdf sottolinea anche come dei 22 miliardi spesi per l’Ucraina, 14 non sono stati utilizzati per spese militari ma per aiuti umanitari (accoglienza ai profughi, corsi di lingua, aiuto psicologico, borse di studio ad accademici).

 

 

 

 

 

Patrushev: “I BRICS, a differenza della NATO, possono svolgere un importante ruolo di stabilizzazione internazionale” – Fabrizio Verde

Il blocco BRICS va sempre più nitidamente configurandosi come il nucleo di un nuovo mondo multipolare che vuole chiudere lunga e triste stagione unipolare dominata dagli Stati Uniti e portare ordine in un mondo reso caotico dagli USA e da quelle organizzazioni come la NATO che a Washington rispondono e di Washington curano gli interessi anche a scapito degli ‘alleati’. Il caso europeo è in tal senso paradigmatico.

In quest’ottica, il segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, Nikolai Patrushev, partecipa a Johannesburg, in Sudafrica, al 13° incontro annuale degli Alti rappresentanti incaricati delle questioni di sicurezza degli Stati BRICS, nonché a una riunione allargata separata nel formato “Amici dei BRICS” a livello di segretari dei consigli di sicurezza e consiglieri di sicurezza nazionali.

I Paesi BRICS, a differenza della NATO, possono svolgere un importante ruolo di stabilizzazione nelle relazioni internazionali, sostiene Patrushev. “I BRICS, a differenza della NATO guidata dagli Stati Uniti, possono svolgere un importante ruolo di stabilizzazione nelle relazioni internazionali. Il nostro gruppo di cinque ha esempi convincenti di lavoro efficace su questioni globali attuali, basato sui principi di apertura, parità di diritti, rispetto reciproco e assenza di un’agenda nascosta”.

Le sue osservazioni, pronunciate all’apertura della riunione degli alti rappresentanti dei Paesi BRICS che supervisionano le questioni di sicurezza, sono state citate dal servizio stampa dell’ufficio del Consiglio di Sicurezza russo.

Patrushev ha inoltre sottolineato che i Paesi del gruppo sono uniti dal riconoscimento del primato del diritto internazionale e del ruolo di coordinamento delle Nazioni Unite, dal rifiuto dell’ingerenza negli affari interni degli Stati indipendenti, nonché dalla disponibilità a difendere i propri interessi nazionali e a trattare con comprensione le decisioni sovrane di altri Paesi.

“Vediamo nei BRICS una piattaforma chiave per un dialogo equo e per la ricerca collettiva di soluzioni ai problemi di sicurezza globale. Sono convinto che il nostro partenariato potrebbe assumere un ruolo guida nei successivi processi di formazione di un multilateralismo inclusivo, definendo l’agenda dello sviluppo globale”.

Per Patrushev, la crisi dell’ordine mondiale non rappresenta solo rischi, ma anche opportunità, poiché sempre più Paesi e popoli rifiutano il modello neoliberale imposto, l’ordine autoritario ed egemonico nelle relazioni mondiali, e scelgono un percorso indipendente, di orientamento nazionale, basato sul proprio sviluppo in una cooperazione costruttiva.

“Questo si manifesta, tra l’altro, nella loro riluttanza ad aderire alle sanzioni unilaterali e nel desiderio di condurre una politica estera indipendente”, ha sottolineato il Segretario del Consiglio di Sicurezza russo.

Inoltre, ha osservato che le sanzioni antirusse potrebbero avere effetti disastrosi sulla sicurezza alimentare globale.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, oggi non ci sono gravi carenze alimentari nel mondo, ma “la situazione è aggravata dalla guerra di sanzioni senza precedenti condotta contro la Russia e potrebbe avere conseguenze catastrofiche per il settore alimentare globale”, ha dichiarato Patrushev secondo quanto riportato da Rossiyskaya gazeta.

Le misure restrittive hanno portato a uno “squilibrio nel mercato alimentare internazionale” e a “notevoli fluttuazioni dei prezzi”.

Secondo Patrushev, è “difficilmente possibile” ripristinare il funzionamento delle catene di approvvigionamento globali e risolvere altre sfide legate alla sicurezza alimentare finché non saranno rimossi gli ostacoli che gli attori economici russi devono affrontare.

Inoltre, come evidenzia il quotidiano Izvestia, la cooperazione antiterrorismo è una delle aree prioritarie di cooperazione all’interno del gruppo BRICS. Come si evince dalla dichiarazione diffusa dopo il vertice di Johannesburg degli alti rappresentanti del blocco incaricati delle questioni di sicurezza.

“Le parti si sono espresse contro la politicizzazione della cooperazione internazionale antiterrorismo, ribadendo l’importanza dell’attuazione della Strategia antiterrorismo dei BRICS. Sono stati illustrati i piani per realizzare una serie di misure per garantire la sicurezza nell’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, reprimendo l’uso di Internet da parte dei terroristi”, si legge nella dichiarazione.

È stato inoltre indicato che l’incontro ha toccato i problemi delle azioni congiunte dei BRICS per combattere la criminalità organizzata transnazionale, il traffico illegale di droga, la corruzione e le questioni di sicurezza epidemiologica e biologici.

Negli anni passati i BRICS hanno badato soprattutto al coordinamento nell’ambito degli interessi economici, e quindi non sono una forza politica e politico-militare come la NATO. Ma adesso i tempi sono maturi per un salto di qualità notevole. Una forte posizione unificata dei BRICS potrebbe far riflettere gli Stati Uniti due volte prima di agire unilateralmente e costringere Washington a lavorare attraverso procedure diplomatiche e dialogo. Sarebbe una prima grande conquista per un mondo gettato nel caos dalle scellerate politiche di guerra e dominio partorite dalle élite statunitensi nel disperato tentativo di mantenere la loro sempre più traballante posizione di egemonia mondiale.

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25 luglio. Un finale “badogliano” anche per il regime di Kiev? – Fabrizio Poggi

  • Ognuno racconta le guerre a modo suo e le “interpreta” sulla base del proprio ruolo nella tragedia e della personale immedesimazione in qualche personaggio della commedia.

Qui, però, non si tratta di far paragoni “storici” – che, tra l’altro, come disse Stalin a quel corrispondente straniero che lo paragonava a Ivan IV, rispose che «tutti i paragoni storici sono quantomeno arbitrari» – ma semplicemente di constatare, nel 80° della caduta del fascismo, come anche in questo caso sia stata decisiva la guerra sul fronte orientale.

Decisiva, perché lo sbarco alleato in Sicilia, cui si fa solitamente risalire l’origine del 25 luglio, non fu che una conseguenza delle vittorie sovietiche di luglio-agosto 1943. Sin dal 1942, infatti, Winston Churchill aveva dichiarato a chiare lettere che Mosca non poteva aspettarsi l’apertura di un secondo fronte in Europa occidentale prima del 1944: come poi avvenne nel giugno di quell’anno.

Per Londra e Washington, lo sbarco in Sicilia fu quasi una scelta obbligata: la battaglia di Kursk, protrattasi dal 5 luglio al 23 agosto 1943 e che, forse più ancora di Stalingrado, decise le sorti dell’invasione nazifascista in URSS, costrinse gli “alleati” ad accelerare i piani di invasione, pena il sorpasso sovietico verso la Germania.

E, in tema di “paragoni”, nel corso dei circa due mesi di scontri a ridosso del saliente che aveva al centro Kursk e ai vertici settentrionale e meridionale Orël e Belgorod, vi furono impegnati, da parte sovietica e tedesca, oltre 4 milioni di uomini, quasi 70.000 pezzi d’artiglieria, poco meno di 1.550 carri armati e semoventi e quasi 12.000 aerei.

All’intera operazione in Sicilia, tra luglio e agosto ’43, presero parte 250.000 uomini del 8° Armata britannica e circa 230.000 della 7° Armata USA. A Kursk e dintorni, la Wehrmacht perse 30 Divisioni, di cui 7 corazzate, oltre 500.000 uomini, 1.500 carri armati e artiglierie d’attacco, oltre 3.700 aerei e 3.000 cannoni. Le perdite sovietiche ammontarono a più di 250.000 morti e circa 601.000 feriti.

È dunque in questo scenario che va collocata la decisione “alleata” di anticipare in qualche modo, al 1943, il proprio ingresso in Europa occidentale. Tra febbraio e giugno, l’Esercito Rosso aveva compiuto un’avanzata piuttosto sostenuta e gli anglo-americani non intendevano lasciare oltre l’iniziativa in mano sovietica.

Dunque, anche nel caso della Sicilia e, in pratica, della caduta di Mussolini, la guerra sul fronte orientale fu decisiva.

È bene ricordare questi passaggi, pur se apparentemente slegati, quando si fanno più insistenti e più diversificate le voci su un potenziale epilogo “badogliano” del nazigolpista-capo ucraino.

Che a ovest l’immagine di Vladimir Zelenskij sia di molto appannata negli ultimi tempi e, in patria, si affilino i coltelli tra i suoi successori, è cosa ormai detta e ridetta.

Come Mussolini, di fronte alle ripetute sconfitte dei propri generali e alle pesanti recriminazioni che gli arrivavano dall’ “alleato” nazista, appariva quasi disarmato nei confronti della fronda interna, così, oggi, a parere dell’ex consigliere del Pentagono, Douglas McGregor, Vladimir Zelenskij appare «frustrato», per una situazione dell’esercito ucraino che sembra disperata, con un morale delle truppe mai così basso come oggi. Uno Zelenskij che, a detta di McGregor, appare «furioso, arrabbiato, scoraggiato». Secondo McGregor, è tempo di cessare gli invii di soldi e armi con cui Kiev viene tenuta artificialmente in piedi dal “sostegno” USA e urge invece cominciare colloqui per la soluzione del conflitto.

Ma non è tutto. Sulla polacca Mysl Polska, il pubblicista ceco Roman Blaško elenca quelli che, a suo parere, sono i sette principali errori di Zelenskij – a partire dalla sua pretesa di presentarsi come figura influente in casa e all’estero – e che, con molta probabilità, metteranno fine alla sua “carriera” presidenziale e ne decreteranno una fine tragica.

Il primo errore del nazigolpista-capo è quello di presentarsi come militare, quando non ha né gradi, né formazione: in ogni occasione, anche negli incontri internazionali, si veste come un capo militare, così che l’aspetto e il comportamento sono percepiti dai “partner occidentali” in modo derisorio e offensivo. Zelenskij ha permesso che lo si trasformasse in un presidente “salariato”: solo formalmente svolge tale ruolo, ma tutto è deciso a Washington e Londra. Non è mai riuscito a diventare un politico; miliardi sul conto in banca e contatti coi leader mondiali gli hanno annebbiato la mente.

Zelenskij è convinto di avere il mondo alle spalle e di non dover quindi accettare negoziati di pace: non capisce che l’obiettivo occidentale non è aiutare l’Ucraina, ma realizzare i propri interessi. Ha fatto di tutto per far fallire i rapporti esteri; ha rifiutato le iniziative di pace di Xi Jinping ed è persino riuscito a rimproverargli di non esser venuto in Ucraina: un modo sicuro di diventare l’ultima pedina sulla scacchiera politica.

Ha avventatamente dimenticato che il sostegno dell’elettorato non è eterno: anche quegli ucraini che lo avevano votato, sperando nella fine della guerra civile, oggi gli si oppongono. Zelenskij è riuscito a far rivoltare contro di sé letteralmente tutti gli strati sociali, compresi militari e credenti.

Zelenskij, afferma Roman Blaško, nella sintesi curata in lingua russa da Vladimir Karasëv per NewsFront, avrebbe dovuto imparare da Bashar al-Assad, che ha iniziato a costruire nuovi insediamenti civili in zone sicure, al riparo dagli attacchi di Daesh: mentre Assad fa affidamento sul proprio popolo, Zelenskij ha semplicemente congedato gli ucraini.

Milioni di persone hanno lasciato il paese per non farvi ritorno; chi rimane si nasconde alla mobilitazione; i mobilitati muoiono o rimangono feriti.

Zelenskij sa bene che la rimozione di Janukovic fu illegale, che majdan fu illegale e, di conseguenza, tutti i successivi eventi sono de facto illegali; ma non ha né la forza politica, né la volontà di riportare l’Ucraina al suo status legale “premajdan”.

Blaško conclude dicendosi convinto che tali errori condurranno Zelenskij a una tragica fine; e ciò avverrà sullo sfondo del rafforzamento dell’economia americana a spese della popolazione ucraina ed europea, coinvolta nel conflitto militare.

I paragoni sono sempre abbastanza arbitrari. Ma ricordare che qualcun altro, prima di Zelenskij, si atteggiava a grande capo militare, si agghindava di conseguenza, prendeva a prestito la storia romana (nell’Ucraina majdanista, sembra che tutto lo scibile umano abbia avuto origine a Kiev), obbediva ciecamente agli “alleati” e infine, dopo essersi messo contro la borghesia che lo aveva portato al potere, condusse il paese a esser distrutto dalle bombe di altri “Alleati”, può ben rinfrescare qualche coscienza.

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La lista degli antifascisti prigionieri politici del regime di Kiev – Clara Statello

Dopo essere stata messa al bando oltre un anno fa, l’opposizione ucraina è ancora sotto il tallone di ferro della junta di Kiev. Mentre sul fronte l’Ucraina subisce gravi perdite per un’offensiva che in due mesi non ha prodotto i risultati sperati, le forze di sicurezza ucraine (SBU) intensificano le persecuzioni degli esponenti dei partiti avversari di Zelensky.

Nelle ultime settimane è stato arrestato per collaborazionismo Oleksandr Ponomarev, deputato di Piattaforma di Opposizione – Per la Vita, il partito di Viktor Medvedchuk. Il leader del partito Nash (Nostro), Yevgeny Muraev, è indagato in contumacia per tradimento, mentre venerdì la procura di Vinnytsa ha intentato una causa contro il blogger Anatoly Shariy, capo dell’omonimo partito di Shariy, fuggito da tempo in Spagna come dissidente, già colpito da una nuova indagine agli inizi di luglio.

A pagare il prezzo più caro della repressione sono ancora una volta i membri del Partito Comunista di Ucraina (KPU), perseguitato già dai giorni del Maidan e messo definitivamente al bando il 7 luglio 2022. Sono almeno tre gli esponenti del KPU arrestati da fine maggio ad oggi: Yuri Petrovsky, Georgy Buyko, Igor Nekrasov. Allo stesso tempo la giustizia si accanisce contro gli antifascisti, come Farohd Abdullaev e Anatoly Miruta, invalido grave, condannato a 10 anni di carcere duro per aver distribuito aiuti umanitari nel distretto di Bucha, mentre era sotto il controllo delle forze russe…

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Russia: tra Wagner e propaganda via radio, Putin ha battuto l’Occidente – Domenico Quirico

Orrore: a Ouagadougou, Dakar, Bangui, N’Djamena, Bamako, Goma, e adesso anche a Niamey (dove i golpisti si sono impadroniti di un altro Palazzo che credevamo fedelissimo) ci sono folle africane che vanno in piazza con le bandiere russe, inneggiano a Putin, invocano la Wagner e invitano in cartelli di chirologica perentorietà francesi e occidentali ad andarsene a casa. E poi: presidenti e ministri di quell’Africa così obbediente e ossequiosa vanno e vengono da Mosca, capitale dell’anticristo, commettono allegramente peccato mortale con Putin nonostante le esecrazioni e le scomuniche di Biden Macron Von der Leyen. Che succede? Dopo la Françafrique la Russiafrique?

L’Indigeno dell’altra sponda delude. avevamo deposto su di lui una pioggia di parole sapienti, di gravi benedizioni, di sentenze giudiziose e lui si fa imbambolare da un autocrate ciarlatano a cui è stato sequestrato il bancomat e che stiamo (senza dubbio!) sconfiggendo da ben un anno e mezzo!

Con spensierata miopia la nostra risorsa consolatrice di fronte a questo scandalo è: le plebi africane son pecore ligie le cui convinzioni si comprano, pezzenti che si vendono per quattro rubli distribuiti dalla Wagner, un ibrido di servilità e di codardia ostaggio della propaganda moscovita. Rieccolo! L’indispettito esotismo di bassa lega, le muffe antropologicamente razziste e (post)coloniali alla Rhodes e alla Lyautey: gli africani sono arretrati, un formicolio vibrionico di emozioni elementari e violente, non sono in grado di capire la perfezione delle democrazie occidentali. Gli slogan dell’autocrate russo, e cinese, attecchiscono dunque perché sono all’altezza delle loro rozze abitudini ancestrali. L’africano è tollerato solo a condizione che non ci contraddica, deve indossare la livrea. E può essere solo il sottomesso o il complice.

Ben lo sintetizzò lo sciagurato balbettio del lillipuziano ministro degli esteri dell’Unione Joseph Borrell: l’Europa è un giardino, il resto del mondo una giungla. Sorprendersi che gli abitanti della giungla non abbiano per noi una grande passione e che non abbiano dimenticato lo strato dei vizi coloniali sa più di rito espiatorio che di intelligenza. Non tolleriamo che la nostra età dell’oro sia già corrotta e che possano sulla terra esistere altri sfruttatori al di fuori di noi.

Insomma. Noi occidentali abbiamo paura della Russia che ha aggredito l’Ucraina. Per questo aiutiamo Kiev. Gli africani no. La guerra in Ucraina non li indigna perché è collegata a valori, la libertà degli Stati, il diritto internazionale che ai loro danni sono stati violati innumerevoli volte e proprio da coloro che oggi dichiarano di difenderli a tutti i costi. Ma in Europa. La Russia non è una minaccia per la maggioranza degli africani, anzi è un utile carta da giocare contro gli occidentali che ogni giorno vogliono infligger loro arroganti lezioni su economia, politica, abitudini, costumi.

Siamo sinceri. In Africa il nostro biglietto da visita non è la democrazia, è il capitalismo clientelare a cui abbiamo convertito con grande entusiasmo reciproco le cricche presidenziali e le loro fetide clientele.

Così la propaganda russa può dire che la guerra in Ucraina non è che un capitolo della aggressione occidentale che tutto vuole dominare e possedere. E può citare senza arrossire Fanon: mezzo secolo dopo le accuse del profeta dei dannati della terra la lotta post-coloniale è diventata una battaglia globale, Russia e Sud del mondo ancora una volta uniti nella lotta all’esorbitante monopolio dell’Occidente.

Dovremmo coltivare un dubbio: negli angoli più sordidi della fabbrica del mondo i nostri perfetti soci d’affari, cleptocrati padri del popolo in boubou, uniforme e doppiopetto, non hanno per caso deciso di percorrere strade secondarie dell’economia globalizzata? Il governo dei ladri, di cui siamo soci e padrini, vuole fare affari con chi vende, o regala, armi, grano, concimi senza impartire ipocrite lezioni di bon ton democratico e green.

Non abbiamo ancora ben compreso la complessità e la efficacia dei maneggi della Wagner, le astuzie volpine del meccanismo messo in piedi dall’ex venditore di hot-dog. La Wagner è molto di più che alcune migliaia di energumeni, peraltro in nulla dissimili dai mercenari della americana Blackwater, e un pugno di geologi e ingegneri specializzati nello spillare concessioni minerarie. La Wagner ha realizzato in Africa una efficace strategia di influenza “low cost”, sfruttando tutte le porcherie, la disperazione e il malaffare che noi abbiamo consentito e talora promosso. L’uditorio da convertire con una spregiudicata propaganda era la gioventù del continente, confusa, povera da sempre ma con la disperante sensazione di esserlo sempre di più, pronta a rischiare la vita sulle strade della migrazione. E a incendiarsi ad ogni voce complottistica, a reagire alle vene di razzismo e xenofobia che percorrono l’Occidente delle città felici impaurite dall’invasione.

In questo universo di vittime e di vampiri la propaganda russa ci ha sconfitto proprio sul campo di battaglia in cui pensiamo di esser padroni, la comunicazione. Questo braccio della Wagner sostiene media africani, come la radio “Lengo sogo” in Centrafrica, pubblica manuali scolastici, sponsorizza festival cinematografici e concorsi di bellezza, finanzia giornali e giornalisti che diffondono le parole d’ordine della lotta contro l’imperialismo dei ricchi. Una offensiva a costo basso visto che un articolo è pagato da queste parti 10 mila franchi Cfa, quindici euro.

Gli danno volto e notorietà star della società civile e influencer con centinaia di migliaia di follower. Come lo svizzero-camerunense Nathalie Jam detta la “signora di Soci”, perché protagonista al summit russo africano del 2019 che inaugurò la grande offensiva di Putin verso il continente.

E poi la Russia, che vanta una innocenza coloniale come la Cina, che al congresso di Berlino dove venne spartito il continente era solo osservatrice, per molti africani si confonde, mirabile cortocircuito, con l’Unione sovietica che fu alleata delle lotte di liberazione, la gloriosa e eterna primavera del kalashnikov arma rivoluzionaria.

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La promessa di Putin: Mosca fornirà gratuitamente cereali all’Africa – Clara Statello

Il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, si scaglia di nuovo contro la Russia dopo il ritiro dalla Black Sea Grain Initiative. In un tweet pubblicato lunedì mattina ha esortato le nazioni ad “organizzare una risposta globale congiunta al terrorismo alimentare” di Mosca che terrebbe “in ostaggio 400 milioni di persone” al fine di “ottenere concessioni”.

In particolare si rivolge ai Paesi dell’Africa e dell’Asia in quanto “maggiormente colpiti dall’aumento dei prezzi del cibo”. L’appello giunge dalla Guinea Equatoriale, dove Kuleba è in visita nell’ambito del suo tour nei Paesi africani iniziato il 23 luglio, il terzo in meno di dieci mesi. Il viaggio si svolge alla vigilia del vertice Russia-Africa, il secondo forum per la cooperazione economica ed umanitaria, che si terrà a San Pietroburgo il 28 e 29 luglio.

Il capo della diplomazia ucraina non è l’unico a puntare il dito contro il Cremlino. Il segretario di Stato USA Antony Blinken accusa la Russia di utilizzare il cibo come un’arma, il presidente dell’ONU António Guterres ritiene che sospendere le esportazioni di grano “sferrerà ovunque un duro colpo alle persone bisognose”, l’UE condanna Mosca per esacerbare “la crisi della sicurezza alimentare globale”. Cinicamente anche il FMI fa parte del club di quanti accusano la Russia di provocare la fame nel mondo.

La decisione della Russia “peggiora le prospettive della sicurezza alimentare e rischia di aumentare l’inflazione alimentare globale, soprattutto per i Paesi a basso reddito”, scriveva il Deutsche Welle all’indomani della fine della proroga dell’accordo.

E’ davvero così? E’ Mosca a provocare l’insicurezza alimentare dei Paesi più poveri per “ottenere concessioni” ? O si tratta di parte della verità se non proprio di una verità di parte?

Le garanzie del Cremlino: il grano arriverà

La Russia è disposta a rifornire gratuitamente di prodotti agricoli gli Stati africani. A meno di una settimana dal summit di San Pietroburgo il presidente russo Vladimir Putin garantisce l’impegno di Mosca a scongiurare la crisi alimentare, paventata dai leader dei Paesi del Primo Mondo e dalle organizzazioni internazionali a causa della sospensione degli accordi sul grano.

Voglio assicurare che il nostro Paese è in grado di sostituire il grano ucraino sia su base commerciale che gratuita, soprattutto perché quest’anno ci aspettiamo un altro raccolto record”.

Il leader russo lo scrive in un articolo, pubblicato domenica sera sul sito ufficiale del Cremlino dal titolo “Russia e Africa: unire le forze per la pace, il progresso e un futuro di successo”.

Nonostante le sanzioni – prosegue – la Russia continuerà i suoi energici sforzi per fornire approvvigionamenti di cereali, prodotti alimentari, fertilizzanti e altri beni all’Africa”.

Mosca intende sviluppare “l’intero spettro di legami economici” con l’Africa, sullo sfondo del comune impegno nella costruzione di un nuovo ordine mondiale multipolare, fondato su relazioni di reciproco vantaggio e dunque, in definitiva, “più giusto e democratico”.

Il blocco economico imposto dall’Occidente non è riuscito a interrompere le forniture grano, orzo, mais e altre colture ai Paesi africani sia commerciali che come aiuti umanitari, tramite il programma alimentare delle Nazioni Unite. Nel 2022, la Russia ha esportato 11,5 milioni di tonnellate di grano in Africa, mentre nella prima metà del 2023 sono state consegnate quasi 10 milioni di tonnellate.

Il vertice del prossimo fine settimana segnerà un ulteriore passo nel consolidamento dei rapporti di cooperazione e sviluppo tra la Russia e i partner africani. In questo quadro va letto sia l’attacco di Kuleba sia il suo sforzo diplomatico in Africa…

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Appello per la libertà di Boris Kagarlitsky

Dalla redazione di “Bollettino culturale” riceviamo questo appello per la libertà di Boris Kagarlitsky, arrestato ieri in Russia con l’accusa di “sostenere il terrorismo”, accusa che è evidentemente strumentale a colpire un oppositore della decisione di Mosca di invadere l’Ucraina. La sua posizione in merito è espressa con una certa chiarezza in un’intervista del marzo 2022

Come si può vedere, Kagarlitsky è stato a favore della riannessione della Crimea alla Russia nel 2014, e ha sottolineato il carattere spontaneo della sollevazione contro Kiev delle popolazioni del Donbass, non incitate ma semmai troppo poco appoggiate da Mosca, a suo parere. Il suo criterio di riferimento è quello della “autodecisione dei popoli”, criterio che egli applica, naturalmente, anche all’Ucraina invasa. Da questo punto di vista il suo inquadramento della guerra in corso in Ucraina è senz’altro deficitario, perché non vede il lungo lavoro di preparazione della guerra da parte della NATO ed il fortissimo nesso tra questa guerra e la crisi complessiva del sistema capitalistico alla scala mondiale. Esistono, evidentemente, l’abbiamo detto più volte, problemi di “autodecisione dei popoli”, sia per le popolazioni dell’Ucraina che per quelle del Donbass, ma sono stati risucchiati e soggiogati dalla guerra in atto tra grandi potenze capitalistiche. Di autentica auto-determinazione delle une come delle altre popolazioni si potrà parlare senza prendersi in giro solo a totale sbaraccamento della NATO con la smobilitazione della presenza degli Stati Uniti e dell’UE in Ucraina così come della presenza militare (e non militare) russa nei territori occupati.

Ciò detto, però, il suo arresto, contemporaneo alla decisione della Duma di elevare all’età di 30 anni il periodo di ferma obbligatoria e alla crescente pressione perché sia decretata la mobilitazione generale, segnala come inesorabilmente, in Russia come in Ucraina, la guerra porti all’accentuazione della repressione interna, che già ha colpito molte centinaia (o migliaia?) di attivisti, un discreto numero dei quali compagni e attivisti sindacali. Questa repressione non ci lascia certo indifferenti, qualche che sia la distanza che ci separa dai colpiti. (Red.)

Appello

La notizia dell’arresto del sociologo marxista Boris Kagarlirsky in Russia conferma che la guerra non fa altro che restringere gli spazi democratici e favorire la deriva autoritaria. Kagarlitsky era stato già schedato come «agente straniero» nel 2022 sulla base della normativa repressiva. In realtà Kagarlitsky è una delle voci più autorevoli di opposizione a Putin come precedentemente a Eltsin e in generale all’oligarchia che si è arricchita dopo la restaurazione del capitalismo in Russia.

Non è la prima volta che viene arrestato e perseguito penalmente. L’ultima volta è stato arrestato nel 2021 – mentre si recava all’università per tenere una lezione su Marx – per aver incitato a protestare contro i brogli elettorali. Viene ora accusato di sostenere e/o giustificare il terrorismo ma in realtà viene perseguito perché fin dall’inizio si è schierato contro la guerra decisa da Putin. In passato era stato criticato anche dai nazionalisti ucraini per aver definito come spontanea e conseguenza di Euromaidan la rivolta popolare che portò alla nascita delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk.

Chi legge da anni libri e articoli di Kagarlitsky, che è stato anche collaboratore de il manifesto, sa che l’accusa di terrorismo non ha fondamento: Kagarlitsky ha lavorato in questi anni per unire le forze di opposizione di sinistra e negli ultimi mesi ha più volte denunciato l’escalation repressiva in Russia. Kagarlitsky è direttore della rivista online Rabkor che non gode dell’attenzione che i media occidentali dedicano ad altri oppositori perché critica il putinismo da un punto di vista marxista e anticapitalista. Chi come noi si batte per una soluzione di pace non può che essere solidale con compagni come Boris Kagarlitsky che si oppongono alla guerra.

Chiediamo l’immediata liberazione di Boris Kagarlitsky.

Per adesioni: maurizioacerbo@gmail.com

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Gli oligarchi russi e l’odio di Londra per Putin – Davide Malacaria

Londra è la più accesa sostenitrice di una guerra a tutto campo con la Russia. Rispetto ad altre nazioni, infatti, essa ha mostrato un’aggressività particolare, come se si trattasse di un vero e proprio redde rationem contro Putin e Mosca.

Ciò, abbiamo scritto in altre note, risponde a una prospettiva geopolitica: la guerra ucraina ha avuto l’effetto di deprimere lo spazio geopolitico dell’Unione europea e la sua economia, che la Gran Bretagna vede, non a torto, come il competitor diretto nell’agone globale, e rilancia l’asse anglosassone, deprimendo l’asse pregressa tra Washington e Bruxelles.

Sull’ultimo punto, si può notare facilmente come il Regno Unito sia un partner di Washington, – importanza favorita anche dalle reti post coloniali di Londra nel Pacifico, strategiche in funzione anti-cinese – mentre i Paesi dell’Europa continentale hanno ormai un ruolo del tutto ancillare rispetto a Washington, che al massimo attira qualche correttivo quando cercano spazi di manovra non graditi.

 

Londra e gli oligarchi russi

Ma l’antagonismo di Londra per Mosca, e in particolare per Putin, ha in sé anche qualcosa di meno strategico e più viscerale. Tanti i motivi, tra questi, non ultimo forse, il fatto che Putin ha posto fine a uno dei più lucrosi benefici di cui ha goduto il Regno Unito dalla fine dell’Unione sovietica.

Il Regno Unito, infatti, è stato il faro degli oligarchi russi, attirati come falene dalla luce della City. A Londra sono affluiti centinaia di miliardi di dollari, frutto delle rapine degli oligarchi a scapito della comunità russa.

Al crollo del comunismo, infatti, una piccola élite con fortissimi legami con l’Occidente, e con la City in particolare, grazie all’acquiescenza di Boris Eltsin, ha comprato per pochi dollari tutte le risorse della Russia, con lucro esponenziale, portando tali torbidi guadagni nel Regno Unito.

Storia nota, ne hanno scritto tanti, come ad esempio il New Yorker in un articolo dal titolo: “Come gli oligarchi russi hanno comprato Londra”, che riporta un cenno dell’Economist: Londra è diventata “un contenitore dei soldi sporchi russi”.

Nell’articolo si accenna a un libro di Oliver Bullough sul tema, sintetizzato in questo modo in un altro sito: “C’è così tanto denaro degli oligarchi a Londra che è stata soprannominata ‘Londongrad’. Bullough afferma che nel Regno Unito si è sviluppato un sistema fatto di banchieri, avvocati, contabili ed esperti in pubbliche relazioni che lavorano per aiutare i cleptocrati russi a nascondere la loro ricchezza” (titolo dell’intervista: “Come il Regno Unito è diventato una cassetta di sicurezza per gli oligarchi russi”). Sempre il New Yorker accenna a come Londra sia diventata una “‘lavanderia a gettoni’ per il denaro russo illecito”.

 

Lebedev, l’oligarca diventato Lord

A Londra, gli oligarchi hanno stabilito rapporti fecondi con il mondo della finanza, della politica e dei media. Esemplare in tal senso, e significativo anche per quanto riguarda la guerra, quanto riporta la Treccani su Evgeny Lebedev, uno dei più importanti oligarchi sbarcati sulle rive del Tamigi.

Lebedev è stato “uno degli alleati (e finanziatori) chiave di tutti i passaggi politici più importanti della carriera di Boris Johnson, in particolare nella fondamentale campagna a favore del Leave in occasione del referendum della Brexit”.

“[…] Sia chiaro, Johnson non era il solo, tutto l’establishment britannico omaggiava periodicamente il magnate. Alle sue feste partecipavano regolarmente star del cinema e della musica, così come figure importanti del Partito laburista quali Sadiq Khan, attuale sindaco di Londra, Tony Blair e suoi ex consiglieri Peter Mandelson e Alistair Campbell”, figure chiave, queste ultime, del blairismo…

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Facciamo del 21 ottobre un giorno di forte mobilitazione unitaria contro la guerra in Ucraina, l’economia di guerra, il governo Meloni! – TIR

È il momento di cominciare a ragionare in modo operativo sul rilancio – assolutamente necessario – della mobilitazione contro la guerra tra NATO e Russia in Ucraina e contro l’economia di guerra amministrata dal governo Meloni.

Non servono molte parole per spiegarne l’urgenza. Sono in atto, è vero, diversi tentativi di arrivare ad una tregua, ad opera di Cina, Vaticano, Turchia, etc., ma il completo fallimento dell’offensiva di terra ucraina della primavera-estate sta lasciando il campo ad un crescendo di attacchi sul territorio della Russia che sembrano prendere di mira, ormai, anche le centrali nucleari, e a forniture a Kiev di armi NATO sempre più offensive e letali. A sua volta la Russia, dopo avere disdetto l’accordo sul grano, appare determinata a colpire con crescente durezza l’intero territorio ucraino, isolare i porti di Odessa e Mykolaiv, e provare uno sfondamento nel Donbass. La guerra in Ucraina, insomma, continua e si allarga, ad onta delle difficoltà, delle contraddizioni e dei fenomeni di stanchezza che affiorano qua e là su entrambi i fronti.

Nonostante il rifiuto di fissare una data per l’ingresso formale dell’Ucraina nella NATO, il vertice di Vilnius ha prodotto impegni bellici solenni in particolare da parte dell’Unione europea, che ha creato un fondo speciale di 20 miliardi per rifornire negli anni a venire il governo di Kiev con ogni tipo di armi. Sull’altro fronte le crescenti adesioni al gruppo dei Brics e il sempre più assertivo protagonismo cinese nella politica mondiale incoraggiano il governo russo a tirare diritto, anche per dimostrare all’interno e all’esterno di avere superato l’ammutinamento della Wagner senza grosse perdite.

Secondo certi inguaribili ingannatori di sé stessi e degli altri, in virtù della sua Costituzione, l’Italia dovrebbe essere “partigiana della pace” – in realtà si conferma un paese-perno della NATO, come ha sottolineato di recente, incontrando Meloni, il suo segretario Stoltenberg, totalmente interna alla dinamica di guerra e di corsa al riarmo che domina la scena internazionale. Questo ruolo dell’Italia non riguarda solo l’Ucraina: si estende ai Balcani, dove diplomazia, imprese e servizi italiani stanno preparando metodicamente il terreno per nuove guerre distruttive, anzitutto contro la Serbia; si protende in Africa occidentale dove, profittando dell’irreversibile declino del neo-colonialismo francese, Roma sta maneggiando per intrufolarsi, fare lucrosi affari e stroncare sul nascere i movimenti sociali e politici che abbiano anche un vago contenuto anti-coloniale; si allarga infine all’intera scena mondiale, dal Medio Oriente – con il sostegno al tentativo di Israele di mettere in atto una “soluzione finale” di stampo nazistoide alla “questione palestinese”, e con l’intensificata guerra agli emigranti – fino alle provocazioni anti-cinesi intorno a Taiwan.

Per dare corso alle proprie ambizioni, il governo delle destre e gli apparati dello stato che ne orientano e applicano le scelte hanno bisogno di stabilità politica e di un retroterra sociale pacificato. Ed ecco l’incalzante serie di provvedimenti finalizzati a blindare da ogni rischio giuridico la nomenklatura politica borghese ponendola al di sopra delle leggi (anche quella di opposizione ne usufruirà, altro che!), e concludere con l’enorme congerie di ceti medi accumulativi molto più di una mera pace fiscale definitiva – un vero e proprio patto di sangue anti-operaio nella migliore tradizione degli antenati di queste destre. Sul versante della classe lavoratrice, la banda Meloni prosegue l’attacco scatenato dai governi precedenti, con un abile mix di bastonate (no al salario minimo, abolizione del reddito di cittadinanza, sistematico intervento di polizia contro i pochi picchetti militanti) e apparenti concessioni (il taglio del cuneo fiscale o la card “dedicata a te”). La logica di queste apparenti concessioni è educare i proletari ad accontentarsi del poco, del minimo del minimo, specie i più poveri tra loro (basta mettere un piatto in tavola, cosa volete di più?), e approfondire e moltiplicare le divisioni e le stratificazioni esistenti nel corpo della classe. C’è in giro un’impressionante sottovalutazione dell’efficacia dell’azione di questo governo nell’ambito della cosiddetta sinistra di classe, quasi indifferente anche alla feroce semina in atto di razzismo, sessismo, spirito colonialista, militarismo, negazionismo in materia di catastrofe ecologica, altrettanti veleni che paralizzano un’adeguata risposta di lotta all’offensiva dell’asse Confindustria-esecutivo. Non è stato solo Landini ad arrendersi al fatto compiuto dell’avvento di un governo che più anti-proletario di così non potrebbe essere, invitandone la capa al congresso della Cgil…

Per le ragioni qui sommariamente richiamate l’indispensabile rilancio dell’iniziativa di piazza contro la guerra in Ucraina e la corsa al riarmo deve avere come suo bersaglio n. 1 il governo in carica e il capitalismo imperialista di “casa nostra”, insieme al suo sistema di alleanze (UE, NATO): il nostro nemico principale è qui, nel cosiddetto “nostro paese”, in cui di realmente nostro ci sono solo il sudore, il sangue dei morti sul lavoro, i sacrifici e l’usura dei debiti di stato. Il destinatario n. 1 di questo rilancio dev’esserela massa dei lavoratori e lavoratrici salariati e dei disoccupati che stanno già pagando duramente i costi di questo cammino verso l’abisso, e che tuttavia finora – salvo un limitato contingente di proletari immigrati della logistica e di disoccupati napoletani – non hanno battuto un solo colpo. Battersi contro la guerra e rompere la pace sociale sono un tutt’uno.

Da quasi un anno, dal convegno di Roma dello scorso 16 ottobre, abbiamo identificato la guerra in atto in Ucraina come il punto di non ritorno delle contraddizioni di un sistema capitalistico che sta affondando in una crisi storica. E siamo impegnati, insieme ad altre forze (SI Cobas, Iskra, Fc, Fgc), a costituire su basi chiare e solide un polo di classe, internazionalista – schierato contro questa e contro tutte le guerre del capitale senza se e senza ma, escludendo categoricamente il tifo per l’uno o l’altro degli schieramenti a scontro, perché questa guerra, e la dinamica che essa ha innescato, è contro i proletari di Ucraina, di Russia, di tutti i paesi del mondo.

Fin dall’inizio, nel confronto politico e nelle piazze, abbiamo puntato a “unire le forze contro la loro guerra” (questo lo slogan dell’assemblea di Milano dell’11 giugno). Nel corso dei mesi il perimetro dei nostri interlocutori si è senza dubbio allargato, in Italia e all’estero. Vogliamo ulteriormente sviluppare questo impegno nei confronti di quanti sono “allarmati e rattristati dalla guerra” (come è scritto nella dichiarazione dell’incontro dei pacifisti di Vienna), e soprattutto verso la classe lavoratrice perché solo quando questa scende in campo per sé, le guerre possono finire, e finire senza paci che siano infami quanto le guerre.

Si deve a ciò se nell’assemblea di Milano dell’11 giugno e nelle settimane seguenti abbiamo legato le iniziative di piazza dell’autunno agli scioperi messi in cantiere dal sindacalismo conflittuale – come già si è visto il 2-3 dicembre scorso, questa è una condizione favorevole al maggior coinvolgimento di settori di operai e proletari combattivi nella lotta contro i “signori della guerra”, e cioè anzitutto contro gli stati e i governi della NATO, a cominciare dal governo di Roma, che vanno denunciati e battuti sul campo attraverso la conquista di nuovi rapporti di forza.

Da questo deriva la nostra critica all’appello di Vienna delle ong pacifiste che è rivolto “ai leader di tutti i paesi” e alla “diplomazia”, cioè esattamente a quei soggetti che la guerra hanno preparato da anni e anni, sistematicamente, e voluta – altro che “illogica della guerra”! Per gli autocrati della NATO (e non solo per Putin e i suoi) la guerra in corso è perfettamente logica, coerente con la logica capitalistica della rapina, dello sfruttamento, del dominio. A tutti/e coloro che nei primi giorni di ottobre accetteranno l’invito a manifestare lanciato da Vienna, chiediamo perciò: non è illogico implorare i “signori della guerra” perché si pentano? Non vedete che, dopo aver iniziato da tempo “la terza guerra mondiale a pezzi”, stanno ordendo quotidianamente, in modo febbrile, nuove trame di guerra a scala globale? Possiamo costringerli a modificare le loro posizioni solo con la messa in campo di una forza materiale soverchiante che li metta spalle al muro, il resto è illusione e auto-illusione. Si è mai vista una guerra fermata da appelli o da referendum? Perciò vi diciamo: unitevi a noi nel rilancio della mobilitazione di massa contro la guerra.

Per tale rilancio crediamo che l’indicazione migliore non sia “fermare l’escalation” perché c’è il rischio che suoni come l’accettazione della guerra così come è ora – purché non trasbordi dai confini ucraini, non ci coinvolga direttamente (per esempio con attacchi alle centrali nucleari), non implichi ulteriormente l’Italia -, e come un appello ai governi, alle diplomazie imperialiste, affinché siano “ragionevoli” e trovino, magari, un compromesso “onorevole” per una tregua che si limiti a congelare la guerra. Non snobbiamo un’eventuale tregua, è ovvio, ma facciamo appello ai lavoratori e alle lavoratrici, alle realtà sociali, politiche, sindacali a rompere la pace del capitale, ad unire le forze con l’obiettivo di contribuire a porre fine alla guerra in Ucraina, denunciando le cause e i responsabili della stessa, lottando contro il nemico principale in “casa nostra”, e solidarizzando attivamente con quanti hanno assunto dai due lati una posizione disfattista.

Per questo ci impegniamo per un’iniziativa unitaria e chiara in autunno che dica “Uniamo le forze contro la loro guerra!”, ed esprima la totale contrarietà alla guerra tra NATO e Russia in Ucraina, al governo Meloni e ad entrambi gli schieramenti, senza margini di ombra.

In questi mesi abbiamo provato a relazionarci con le iniziative che hanno posto il tema dell’escalation militare e la necessità di mobilitarsi. Convinti come siamo della necessità di un’iniziativa unitaria, abbiamo evitato di lanciare appuntamenti senza verificare prima le possibilità concrete di un’azione comune. E continueremo a farlo.

Al netto di quelle che potevano essere, per noi, soluzioni migliori, ad ora si tratta di rimboccarci le maniche e lavorare affinché la giornata di sabato 21 ottobre possa e debba diventare data nazionale di rilancio della mobilitazione unitaria contro la guerra in Ucraina, l’economia di guerra, il governo Meloni con manifestazioni in contemporanea, a Ghedi e a Coltano, unite da uno stesso filo politico.

I due luoghi-simbolo, dopotutto, si integrano tra loro. Ghedi è la più importante base storica dell’aeronautica militare italiana (ha più di un secolo!), deposito di 20-40 bombe atomiche in dotazione alla NATO. Anche con i suoi F-35, ben rappresenta la guerra in atto e l’alleanza di guerra di cui l’Italia dell’art. 11 della Costituzione è socio fondatore (ai tempi della guerra fredda da questa base erano pronti a partire aerei muniti di bombe nucleari per colpire Praga e Budapest). Coltano, con la decisione del governo Draghi del 23 marzo 2022 di istituirvi una nuova base militare per il GIS (Gruppo di interventi speciali) e i paracadutisti del Tuscania, può esser presa a simbolo della politica di riarmo portata avanti dagli ultimi governi. Specie se si potesse arrivare anche ad una piattaforma comune, il segnale sarebbe davvero positivo. Tanto più se si riuscirà ad avere adesioni e partecipazioni anche dall’estero, in particolare dai paesi direttamente in guerra.

Per noi, scegliere d’intesa la data del 21 ottobre significa attribuire la massima importanza al coinvolgimento attivo dei proletari e dei lavoratori che faranno lo sciopero del 20 ottobre, indetto finora da SI Cobas, CUB, SGB, e al tentativo di raggiungere un’area del lavoro salariato e degli sfruttati molto più ampia, senza accontentarci di essere una forza di nicchia. Ed è naturale che se avrà un seguito di reale attivizzazione l’indicazione dello sciopero generale in autunno appena data da Landini, ci rivolgeremo ai lavoratori e alle lavoratrici che vi aderiranno con l’invito a battersi insieme sia contro la politica sociale sia contro la politica bellicista del governo Meloni.

Mettiamoci al lavoro!

da qui

 

 

Quanti soldati americani combattono in Ucraina? – Eve Ottenberg

Riprendiamo da Counterpunch questo nuovo intervento di Eve Ottenberg, che ha senz’altro un approccio pacifista alla guerra in Ucraina ben differente dal nostro, ma è ancora una volta capace di denunciare con forza il “proprio” governo, il “proprio” “imperial capital”, con elementi analitici precisi (per quanto è possibile in tempi di menzogne di guerra). Qui da noi, invece, quasi il 99% delle denunce riguardano l’imperialismo degli altri, o il fatto che l’Italia, un vero e proprio bastione della NATO in questa parte del mondo (parola del segretario della NATO Stoltenberg), e attiva perciò fin dal primo giorno nelle operazioni di guerra, si faccia “sempre più” coinvolgere nello scontro con la Russia... mentre invece, cosa? Dovrebbe seguire la sua meravigliosa Costituzione “pacifista”? (Red.)

Read the original version of O.’s article in English

Allora, quanti soldati americani combattono in Ucraina?

La cricca di Biden fa molta attenzione a non rivelare o fare riferimento alla loro presenza, mercenaria o meno, ma la domanda continua a ripresentarsi. È accaduto nuovamente il 27 giugno, quando la Russia ha bombardato quello che la stampa ucraina chiamava semplicemente un ristorante a Kramatorsk. Tuttavia, questo ristorante apparentemente innocuo faceva parte di un complesso alberghiero che a quanto pare attirava molti uomini occidentali in età da combattimento, in particolare soldati americani e altri provenienti dai paesi della NATO. Lo sappiamo perché testimoni oculari li hanno sentiti parlare inglese americano e hanno visto i loro tatuaggi militari statunitensi (3° Battaglione Ranger) e le bandiere americane sui loro elmetti. Inoltre, mercenari americani sono stati segnalati come morti in account Twitter. Sappiamo anche che questo attacco missilistico ha ucciso 50 ufficiali ucraini e due generali e almeno 20 degli occidentali, compresi gli americani, dimostrando ancora una volta che un soldato americano in Ucraina è uno di troppo.

Il problema è che non sappiamo quanti soldati americani – per non parlare dei mercenari americani – siano in Ucraina. Il ministero della Difesa russo stima che ci siano stati oltre 900 mercenari americani in Ucraina. Nel frattempo Washington tace, custodendo attentamente la sua conoscenza di questo segreto per l’ovvia ragione che non farlo potrebbe provocare uno scontro aperto con Mosca. E dal momento che non vogliono una terza guerra mondiale nucleare, la Casa Bianca e il Pentagono nutrono un intenso interesse a nascondere i fatti sull’impatto militare degli Stati Uniti in Ucraina e il loro possibile incoraggiamento dello stesso. Anche se lì venisse ucciso un gran numero di ufficiali americani della NATO, noi, nella cosiddetta patria, ne saremmo senza dubbio tenuti all’oscuro.

I frammenti di notizie che riceviamo indicano che i combattimenti vanno male per le truppe statunitensi. «Questa è la terza guerra in cui ho combattuto, e questa è di gran lunga la peggiore», ha detto Troy Offenbecker al Daily Beast il 1° luglio. «Vieni martellato in maniera fottuta dall’artiglieria, dai carri armati. La scorsa settimana un aereo ha sganciato una bomba vicino a noi, a tipo 300 metri di distanza. È una merda orribile». Il Daily Beast cita un altro soldato americano, David Bramlette: «Il giorno peggiore in Afghanistan o in Iraq è, al paragone, un grande giorno in Ucraina». Per quanto riguarda le missioni di ricognizione, ha detto: «se due di loro vengono feriti… non c’è nessun elicottero che viene a prenderti… questa situazione di merda può andare a rotoli molto, molto velocemente». In altre parole, questo è un nemico diverso, molto competente, e i soldati statunitensi in Ucraina sub-rosa potrebbero morire in una quantità tale di cui le persone a casa non hanno mai sentito parlare.

Prendiamo il caso dell’attacco missilistico di marzo a Leopoli. Non abbiamo idea se le voci che giravano intorno a questo assalto, voci che parlavano di centinaia di morti della NATO, compresi americani, fossero vere o meno. Nella misura in cui hanno menzionato questa presunta catastrofe, i media statunitensi si sono affrettati a contestare la veridicità di questi rapporti. Quindi questo attacco ha ricevuto poca o nessuna copertura occidentale. Osservatori esperti come Moon of Alabama se ne sono tenuti alla larga, presumibilmente perché la nebbia di guerra era troppo fitta. Tuttavia, un commentatore regolare su quel sito, Oblomovka Daydream, ha pubblicato un account sull’open thread Moon of Alabama il 15 aprile. Vale la pena dare un’occhiata ai suoi dettagli non riportati altrove. Ma, attenzione: si sa poco del track record di Oblomovka Daydream. Secondo questa fonte, a marzo la Russia ha lanciato missili Kinzhal [Кинжал significa “pugnale” in russo, N.d.T.] contro un centro di comando della NATO nella regione di Leopoli. Questa struttura segreta, a una profondità di cento metri, era “un posto di comando di riserva dell’ex distretto militare dei Carpazi… ben protetto e dotato di moderni sistemi di comunicazione”. I generali e i colonnelli della NATO lo hanno scelto. Si sono sentiti tanto al sicuro da abbassare la guardia: “A volte decine di auto si sono radunate all’ingresso del quartier generale anche in pieno giorno”. Il Kinzal (“Pugnale”) è stato scelto “perché un tale bunker è invulnerabile ai missili convenzionali”. L’assalto russo non ha lasciato sopravvissuti. “E ce n’erano più di 200, compresi, dicono alcuni giornalisti occidentali “informati”, diversi generali e alti ufficiali americani. E anche – inglesi, polacchi, ucraini”. Secondo il portale greco ProNews, vicino al ministero della difesa greco e citato in questo post, “dozzine di ufficiali stranieri sono stati uccisi” quando i missili ipersonici Kinzhal hanno colpito la struttura segreta. Questo è stato “un disastro per le forze della NATO in Ucraina”.

Come accennato in precedenza, i notiziari occidentali si sono affrettati a non riferire una parola su ciò o a mettere in dubbio la credibilità di questi resoconti. Secondo Newsweek del 31 marzo, le affermazioni secondo cui un centro di comando della NATO era stato colpito erano «prive di fondamento». Newsweek ha qualificato ProNews come “altamente discutibile”, ammettendo tuttavia che la notte del 9 marzo la Russia ha reagito per il sabotaggio a Bryansk, impiegando Kinzhals, e che una regione presa di mira era Lvov. Quindi non è chiaro cosa sia successo. Oblomovka Daydream cita alcuni dettagli convincenti: “Alcuni siti di Kiev hanno anche spifferato: dopo l’emergenza, i rappresentanti del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore delle Forze Armate dell’Ucraina sono stati chiamati a rispondere di quanto accaduto presso l’ambasciata americana, dove sono stati rimproverati per la scarsa sicurezza del centro di controllo”, e dove allo stesso tempo è stato consegnato loro un elenco degli alti ufficiali americani morti con l’ordine di “recuperarli almeno da sottoterra”. Il punto è questo: dozzine di americani sarebbero potuti rimanere uccisi, e se così fosse stato, potete starne certi, non ne avremmo mai sentito parlare. Perché questa è una guerra per procura, e gli Stati Uniti si suppone non abbiano nulla a che vedere
con essa. Anche se miliardi di dollari americani e un sacco di materiale militare statunitense sono scomparsi chissà dove in Ucraina. Anche se gli americani combattono e muoiono lì. E anche se nessuno, al di fuori delle loro famiglie e dei funzionari governativi, sa chi sono.

Ma non abbiate mai a dubitare che gli americani sono stati in Ucraina dall’inizio di questa guerra. I rapporti sono emersi su Twitter il 9 luglio citando quanto riportato ai media turchi da un comandante dell’Azov, Volyn. Secondo Volyn gli Stati Uniti e la Russia hanno organizzato la resa dell’Azov ad Azovstal l’anno scorso in cambio del ritiro di diversi “ufficiali statunitensi di alto rango” dalla struttura. In effetti, all’epoca circolavano voci di americani ad Azovstal. Questa intervista turca sembrerebbe confermarlo. Lungi dall’obiettare, molti americani lo sosterrebbero. Ma d’altra parte, molti americani ignorano la minaccia di una guerra nucleare con la Russia; un azzardo che nessuna persona sana di mente vuole correre. Tutto ciò rinforza, ancora una volta, l’argomentazione secondo cui Washington dovrebbe ritirare i suoi artigli e cercare di contrattare. Mosca ha detto che colpirà i centri di comando: quanto ci vorrà prima che un grande contingente di “addestratori” americani della NATO venga ucciso e non possa essere nascosto? Che dire a quel punto? Oops … non intendevamo iniziare la terza guerra mondiale? Washington dovrebbe cercare una soluzione negoziata. Un piano di pace, come quello predisposto dai paesi neutrali nella primavera del 2022, che i geni occidentali hanno fatto naufragare. Oppure Washington potrebbe mettere da parte il suo orgoglio e dare seguito alla proposta di pace cinese. Se ci fosse la minima preoccupazione per la vita umana, i pezzi grossi del capitale imperiale lo farebbero. Si può solo concludere che quella preoccupazione non c’è.

da qui

 

 

Da Bruxelles le Donne Globali per la Pace dicono no alla politica di guerra della NATO – Laura Tussi

Il 6 e 7 luglio si è tenuto a Bruxelles l’incontro internazionale della rete Donne Globali per la Pace. In opposizione alla politica bellicista della NATO, all’interno delle aule del Parlamento Europeo le delegate si sono confrontate per produrre una Dichiarazione mondiale di pace. Ecco un resoconto e un’analisi di ciò che è scaturito dal meeting, resa possibile grazie alle informazioni diffuse e inviate con dovizia e tempestività da Cristina Ronchieri dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole.

Un ampio insieme di donne provenienti da tutto il mondo, una autentico incontro internazionale al femminile, Donne globali per la pace unite contro la NATO, già presente il primo giorno 6 luglio 2023 a Bruxelles, ha partecipato all’incontro organizzato all’interno del Parlamento Europeo per presentare la dichiarazione di pace che è stata discussa nei giorni del seminario contro il vertice NATO che si è tenuto a Vilnius in Lituania.

La delegazione ha potuto confrontarsi con due parlamentari del gruppo LEFT  Gue/NGL: Clare Daly e Ozlem Alev  Demirel. I paesi rappresentati nella riunione del 6 luglio 2023,  attraverso tante realtà pacifiste e politiche anche molto diverse tra loro, erano Belgio, Germania, Francia, Italia, Grecia, Cipro, Ungheria, Finlandia, Afghanistan, Australia, Stati Uniti, Ucraina, Marocco.

IL PRIMO GIORNO

Tutte le relatrici intervenute hanno sposato totalmente nei loro interventi i principi espressi nel documento, che si articola intorno a tre grandi rifiuti:

  • No alla NATO globale, a blocchi militari sempre più armati, alla guerra come modalità di risoluzione delle controversie internazionali
  • No alla militarizzazione della ricerca scientifica. Le giovani generazioni hanno diritto a un’educazione laica e democratica, ispirata ai valori della pacifica convivenza tra i popoli e gli Stati
  • No al coinvolgimento delle donne nei piani di guerra del patriarcato. No a qualsiasi “approccio di genere” nelle file della NATO

La questione di genere ha quindi assunto un ruolo centrale al tavolo di Bruxelles. Il coinvolgimento delle donne ai vertici di un’organizzazione militare infatti non ha nulla a che fare con l’affermazione dei principi di uguaglianza, giustizia e pace che sono alla base delle lotte delle donne per la propria liberazione. Al contrario, è stato gridato un forte “sì” alla promozione del ruolo delle donne nei processi di pace, nonché al rispetto delle intenzioni autentiche della risoluzione 1325 delle Nazioni Unite sulla partecipazione delle donne ai negoziati di pace.

L’augurio delle partecipanti è stato quello di coordinarsi nell’informazione e nell’azione, in modo da ricostruire un movimento pacifista internazionale sempre più incisivo e strutturato che sia capace di contrastare le perverse logiche e la propaganda della subcultura della guerra e della difesa dell’occidente e della NATO. Alle parlamentari sono stati consegnati alcuni dossier, tra i quali quello sulla presenza dell’Alleanza Atlantica e sulla situazione della Sardegna, preparato da Patrizia Sterpetti di Wilpf Italia, con il prezioso contributo di Mariella Setzu di Cobas Scuola, entrambe attive nell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole.

In seguito alcune delle donne presenti hanno partecipato a una manifestazione a sostegno della Palestina, per denunciare gli ultimi misfatti di Israele, organizzata davanti al Ministero degli Affari Esteri. Molte relazioni sono state di carattere generale, sulle ingerenze NATO nei vari paesi, sulle armi nucleari e sull’uranio impoverito, fino all’analisi dei rapporti politici internazionali dopo l’ingresso recente della Finlandia all’interno della coalizione. Per i paesi africani i temi centrali sono stati il ruolo di AFRICOM e il crescente interesse di molti di essi a entrare nel blocco BRICS.

Stando ai feedback ricevuti, la presentazione dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e del suo lavoro è stata molto apprezzata. Allo stimolo e richiesta di monitorare cosa sta succedendo nei sistemi formativi degli altri paesi, hanno subito risposto le rappresentanti australiana, ungherese e belga, confermando che si stanno verificando gli stessi meccanismi, evidentissimi a livello universitario. Una delle coordinatrici ha accennato l’ipotesi di creare un “sottogruppo” di Global Women che si occupi dei settori istruzione e università…

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Chiamano “filoputiniani” i veri amici degli ucraini – Elena Basile

Da tempo immemorabile, Angelo Panebianco difende sul Corriere della Sera, con una fede che i religiosi devono invidiargli, un atlantismo muscolare, privo di strategia razionale. Lo considero un uomo colto che con lucidità illustra tesi pericolose. Un caso emblematico, tra i tanti che, meno sottilmente, bombardano i lettori di articoli privi di argomentazioni logiche. È inconsapevole del tessuto sottoculturale e antistorico che sottende alla dottrina di cui si fa portavoce. Ultimamente lancia appelli affinché la guerra santa dell’Ucraina – cui seguirà, per sua profetica ammissione, quella di Taiwan – trovi consenso nella società civile. Bisogna evitare che i “filo-putiniani dilaghino sui media e l’opinione pubblica segua il canto di certe sirene”. E come intende Panebianco raggiungere questi obiettivi? La petizione contro il dissenso spaventa. Con un manicheismo privo di cultura e di conoscenza storica, il politologo parte dall’assunto che quella in corso è la guerra tra Democrazie e Autocrazie. I cittadini hanno quindi l’obbligo di schierarsi per la libertà e il bene contro il regno del male. I “filo-putiniani” sarebbero così ciechi da non accorgersi che viviamo nel giardino descritto da Borrell, circondati dalla giungla. Oserebbero distogliere la società civile dal dovere patriottico di sostenere l’Ucraina e Taiwan nel caso, considerato probabile, di attacco da parte della Cina.

La sottoscritta e i tanti rappresentanti della società civile che invocano una mediazione appellandosi a una purtroppo inerte diplomazia europea, disapproviamo il regime clerico-fascista di Putin. Se fossimo russi, saremmo dissidenti. Siamo consapevoli delle differenze tra le democrazie e le autocrazie. Ma rifuggiamo da generalizzazioni riduttive, ben sapendo che tra le democrazie Usa, francese, ungherese o polacca ci sono distinzioni non trascurabili, come tra le forme di governance di Russia, Cina, Turchia, India, Arabia Saudita, Egitto. Ho incluso volutamente l’India, considerata una democrazia, e la Turchia, membro della Nato. I cosiddetti “filo-putiniani” (che poi sono “veri filo-ucraini”, in quanto è al massacro dell’Ucraina e del suo popolo che vogliono mettere fine), hanno letto la storia. Sono convinti che le guerre si combattono per la potenza e per gli interessi geopolitici. Il soft power, o l’egemonia culturale, è funzionale alle guerre. I crociati non sterminavano i nemici in nome di Cristo, i colonialisti non portavano la civiltà, l’Occidente collettivo non difende la democrazia. I veri filo-ucraini credono ai valori democratici, al pluralismo e non si meravigliano che le politiche Nato siano difese in tv. Non si permetterebbero di chiamare Panebianco “filo-Biden”. Credono nei valori democratici e si battono per la libertà di stampa e di espressione garantita dalla Costituzione. Sono orripilati dalla violazione dei diritti individuali anche nel nostro “giardino”, messa in luce dal caso Assange, reo di aver rivelato crimini di guerra statunitensi.

I veri filo-ucraini sono attenti analisti della realtà e dell’attualità storica. Sono consapevoli delle cause della guerra e delle responsabilità condivise. Sanno che una mediazione con la Russia era possibile prima del febbraio 2022 e ancora nel marzo 2022. Conoscono l’interesse Usa a tenere in vita una guerra che ha realizzato antichi obiettivi (“Germany down, Russia out, Americans in”, diceva Lionel Ismay Hastings, primo segretario generale Nato). Sono sconvolti nell’assistere inermi alle classi dirigenti europee che tradiscono l’interesse dei popoli che dovrebbero rappresentare. Il paragone tra appeasement e mediazione oggi è un falso storico. La Russia ha bussato per anni alla porta d’Europa. Se ora ha tendenze bellicose è in risposta all’espansionismo strategico Nato.

Consiglierei a Panebianco la lettura di Zweig e di Clark per comprendere come il momento storico odierno si avvicini alla vigilia della Prima guerra mondiale, quando riarmo, nazionalismo e bellicismo erano valori celebrati. La comunità euro-atlantica, in cui la vecchia Europa dà segnali di vita, è in grado di convivere pacificamente nel mondo multipolare, difendendo diplomaticamente la stabilità e i propri interessi. L’Europa non si riconosce in una Nato offensiva che passa da una “guerra umanitaria” all’altra, destabilizzando Medio Oriente e Russia e accingendosi (Panebianco docet) a gestire la guerra santa per Taiwan nel Pacifico. La democrazia è la conquista di un processo storico interno. Non è esportabile. Può essere facilitata da pace, liberi commerci e investimenti, non ingerenza negli affari interni e dialogo interculturale. La Cina non invaderà Taiwan se l’Occidente collettivo rispetterà le norme internazionali. La mediazione è possibile se si riconoscono le cause del conflitto, gli interessi legittimi contrapposti e si smette di usare il popolo ucraino per diminuire la potenza russa nell’interesse degli Usa e della nuova Europa che tira ormai le fila a Bruxelles.

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A Vilnius la Nato s’è presa il mondo – Raniero La Valle

Achtung, achtung, achtung, lo dico in tedesco perché da bambino e c’era l’occupazione tedesca questa parola suonava come massimo allarme. Attenzione, ci stanno rubando il mondo.

Credevamo di vivere in un mondo fatto di terre, culture, popoli e valori diversi, uniti ma ciascuno al suo posto, distesi come su una sfera, che il Papa chiama un poliedro; ed ecco che a Vilnius trentatré signori e signore, tutti insieme intessuti in una bella foto di gruppo, si prendono il mondo, ma non tutto, lo riducono a una sola immagine, la loro, vi riconoscono solo i loro valori, lo riducono alla loro cultura, lo dotano di un’unica armata, lo chiamano “area euro-atlantica”, eppure va da mare a mare, dall’Atlantico all’Indo-Pacifico, all’Australia, al Giappone, alla Nuova Zelanda, alla Corea del Nord, e lo contrappongono ai nemici, agli scartati e ai senza nome, e dicono che questo è il mondo, il solo legittimato a esistere e a vivere. E lo dicono in un documento di 33 pagine e 11.300 parole, nell’edizione inglese, che nessuno ha letto, nemmeno la Meloni, perché nessuno legge più tante parole e del resto nella giornata di Vilnius nemmeno ce ne sarebbe stato il tempo.

Tuttavia il documento che qualcuno ha recapitato al vertice Nato in Lituania non era una sorpresa, perché in realtà trasferiva e imputava ai 33 Stati membri dell’Alleanza e ai loro partner e complici, i dettati e le visioni dei due documenti, sulla strategia nazionale e la difesa nazionale degli Stati Uniti, pubblicati nell’ottobre scorso dalla Casa Bianca e dal Pentagono. Da Washington a Vilnius infatti tutto torna, tutto vale per l’America e per la sua “impareggiabile” Corte: gli stessi nemici, la Russia, la Cina, l’Iran, la Corea del Nord, il “terrorismo”, la stessa vittima che unifica tutti intorno all’altare del sacrificio, l’Ucraina, la stessa determinazione all’uso anche per primi dell’arma nucleare perché la deterrenza non basta più, la stessa idea che il vecchio concetto di difesa è superato, perché oggi con le armi della guerra non si decidono solo le guerre, ma le alternative di ogni tipo, la gestione delle crisi, le politiche industriali, l’economia, il clima, i temi della “sicurezza umana”, perfino la questione dell’uguaglianza di genere e la partecipazione delle donne: tutto ha a che fare con la Nato, il nuovo sovrano, perché il suo approccio è “a 360 gradi” e i suoi tre compiti fondamentali, “deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa”, devono essere adempiuti con assoluta discrezionalità: “Risponderemo a qualsiasi minaccia alla nostra sicurezza come e quando lo riterremo opportuno, nell’area di nostra scelta, utilizzando strumenti militari e non militari in modo proporzionato, coerente e integrato”; e, come pare, a decidere nell’emergenza (ma questo non è stato scritto) può essere anche il generale comandante della Nato senza interpellare “la struttura”; insomma c’è il nucleare libero all’esercizio.

Vilnius decreta quindi lo stato del mondo. Dopo la rimozione del Muro di Berlino sembravano maturi i tempi per fare della intera comunità umana un soggetto costituente, una “Costituente terra” per instaurare un costituzionalismo mondiale; ed eccola ora questa Costituzione della Terra, ammannita per grazia, octroyée, direbbero i francesi, e questa Costituzione è la guerra, è il sistema di guerra, e la Terra ne è il poligono di tiro, prima che il campo di battaglia.

C’è però una difficoltà: questo non è l’assetto scontato del mondo, nonostante le filosofie che della guerra fanno uno stato di natura e della pace invece un artificio, e le opinioni pubbliche non sono affatto inclini a prendere la guerra come norma, come ambiente in cui vivere, e tanto meno la vogliono i viziati dal benessere, i “giovani da divano”, come li chiama papa Francesco. Dunque perché si persuadano alla guerra, bisogna che la guerra ci sia, fin sulla soglia di casa, se no non può farsi, politicamente ed emotivamente “ambiente di sicurezza”, sistema e struttura. Questo spiega perché la guerra d’Ucraina non deve finire mai, e il Vertice di Vilnius ha perfettamente stabilito questo presupposto.

L’Ucraina è stata totalmente integrata nella Nato, ma bisogna far finta che non lo sia, per non costringere la Russia a usare l’arma nucleare; Putin accusa il colpo, deve stare al gioco, e si dice “pronto a trattare separatamente le garanzie di sicurezza dell’Ucraina, ma non nel contesto della sua adesione alla Nato”. E a Vilnius si assicura che questo non avverrà, che l’Ucraina entrerà nella Nato solo a guerra finita, ed è la ragione per cui essa, come Biden ha voluto fin dal principio, non deve avere fine; e Zelensky dopo la prima arrabbiatura che gli è valsa l’accusa di “ingratitudine” da parte del ministro della Difesa inglese, è passato all’incasso e ha lietamente manifestato il suo entusiasmo.

A scanso di equivoci, per rassicurare i suoi lettori ha spiegato tutto il Corriere della Sera, dando la parola al colonnello dello Stato Maggiore ucraino e analista militare Oleg Zhdanov: “Negli ultimi 16 mesi, noi ci siamo integrati nella macchina militare atlantica come mai avremmo neppure sognato prima del 24 febbraio 2022; pur non appartenendo ufficialmente alla Nato ormai il 90 per cento delle nostre procedure militari segue i parametri Nato. Ma c’è di più, ormai la metà dei nostri armamenti sono Nato, i circa 40.000 uomini pronti a sfondare le linee russe sono vestiti, armati, trasportati, addestrati dalla Nato; perfino le loro armi personali sono state fornite dagli alleati”, e via enumerando: “i carri armati tedeschi Leopard 2, i gipponi Humvee americani o i corazzati Bradley e Strykes, decine di tipi diversi di blindati trasporto truppe, i cannoni francesi a lunga gittata Caesar o quelli Usa M777, i lanciarazzi americani Himars, gli obici semoventi Krab polacchi”, tutto corredato da assistenza, pezzi di ricambio, personale specializzato, con una catena di interscambio e cooperazione nel lungo periodo, anche se “è difficile dire quando l’Ucraina entrerà nella Nato, forse mai”. E a questo punto il Corriere passa la parola a Biden che dice che la Russia ha già perso, ed è spavaldamente certo che non userà l’atomica.

E questa è la vera novità: l’arma nucleare non è più un tabù, gli Stati Uniti e l’Occidente allargato ne sono così dotati, che nessun avversario o “competitore strategico” oserà mai ricorrervi, questo è il calcolo irresponsabilmente considerato a somma zero, che fonda lo stato di guerra permanente, il gendarme universale. C’è un rovesciamento: l’arma nucleare che durante tutto lo scontro tra i blocchi è stata la garanzia che la guerra non ci sarebbe stata, oggi è la garanzia che mette in sicurezza la guerra che c’è e quelle che ci saranno domani. Per come è descritta in questi documenti “la postura nucleare” è la norma di chiusura della Costituzione della Terra, che permette tutte le guerre “convenzionali” ma anche “ibride” (comprese quelle cyber e spaziali) da fare direttamente o per procura in tutto il mondo; è questo il suo articolo 11, che ripudia la pace.

Tutto questo vuol dire che la nuova Alleanza atlantica non ha più niente a che fare con quel Trattato di Washington istitutivo della Nato che De Gasperi tenacemente volle per l’Italia e a cui Dossetti si oppose. Ciò vuol dire che questa Alleanza e questa guerra italiana contro “il resto del mondo” non ha copertura né politica né parlamentare, e dunque va discussa nelle piazze e portata alla ratifica del Parlamento. Vogliono il governo e il Parlamento che l’Italia sia nemica della Russia e pronta a combattere contro la Cina? Vogliono il governo e il Parlamento impegnarsi a destinare alle armi non solo il 2 per cento, ma più del 2 per cento del Pil? Vogliono che nella spesa per la difesa il 20 per cento sia riservato alla ricerca e allo sviluppo? Vogliono dipendere da un semplice generale, nemmeno dal presidente degli Stati Uniti, per essere gettati in una guerra nucleare? Vogliono che a pochi metri da noi, nel cuore dell’Europa, sia istituita una guerra che non deve finire mai? Dovrebbero deciderlo proprio in nome della sovranità. Ma del popolo.

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La Cina ritira i soldi dall’Occidente! – Giuseppe Masala

Da qualche settimana tutte le strade portano a Pechino, o per meglio dire, sembra che da Washington tutte le strade portino a Pechino. Evidentemente qualcosa bolle in pentola nei rapporti tra le due superpotenze. Nel giro di poche settimane abbiamo visto nella capitale del Celeste Impero Bill Gates, Antony Blinken, John Kerry, Janet Yellen e addirittura l’ormai centenario Henry Kissinger. Troppo viavai per essere una semplice casualità. Ma andiamo con ordine e forse riusciamo a trovare anche un filo logico.

 

E’ certamente vero che Bill Gates non ha alcun ruolo nel governo americano, ma è altrettanto vero che l’enorme potere economico e tecnologico fa di quest’uomo un componente fondamentale dell’élite dominante negli USA e dunque in Occidente. Secondo tutti gli analisti la visita di Gates ha avuto come obbiettivo quello di tentare un disgelo tra le due superpotenze impegnate in una lotta senza esclusione di colpi in settori di grande interesse del tycoon americano come la supremazia tecnologica, il disaccoppiamento tra la sfera d’influenza USA e quella cinese e con la conseguente fine della globalizzazione, la guerra per le terre rare e per la produzione di microchips (1).

Al di là delle dichiarazioni di prammatica non è dato sapere come siano andati i colloqui e se ci sono stati dei passi avanti verso una sorta di disgelo. Ma da quello che è successo dopo è lecito sospettare che anche questi colloqui si siano risolti in un completo fallimento.

 

Immediatamente dopo la visita di Gates, c’è stata la visita del Segretario di Stato USA Antony Blinken, che per inciso è la visita del più alto esponente del governo USA da quando è iniziata la presidenza Biden. Se da un lato Xi ha rassicurato gli USA e Blinken che la Cina non intende sostituire Washington però ha anche aggiunto che: “Allo stesso modo, gli Stati Uniti devono rispettare la Cina e non devono danneggiare i legittimi diritti e interessi della Cina e nessuna delle due parti dovrebbe cercare di plasmare l’altra o privarla del suo legittimo diritto allo sviluppo”. Ed è da quest’ultima affermazione di Xi che si capisce che non c’è esattamente uniformità di vedute, infatti nella sua conferenza stampa Blinken ha dichiarato che: “gli Stati Uniti difenderanno sempre gli interessi e i valori del popolo americano e lavoreranno con i loro alleati e partner per far avanzare la visione di un mondo libero, aperto e che sostenga l’ordine internazionale basato sulle regole”. Insomma, secondo Blinken gli USA e i suoi partner (sarebbe più giusto dire vassalli) hanno il diritto di ingerire negli affari degli altri per far avanzare l’ordine internazionale “basato su regole”. Dove tutti sanno che in realtà quelle regole occidentali sono a geometria variabile a seconda di quali siano gli interessi contingenti degli USA.

Anche la visita cinese di John Kerry, Zar per il clima dell’amministrazione USA (3), si inquadra in una logica economica; quella di chi vorrebbe ribaltare gli attuali rapporti di forza industriali, finanziari ed economici – ormai chiaramente sbilanciati a favore della Cina – facendo leva sulla trovata di marketing del cambiamento climatico e quindi sulla necessità di ripartire da zero nelle produzioni lavorando sull’energia green nella speranza, appunto, di ribaltare i rapporti di forza. A parte il fatto che la Cina in molti settori come l’automotive rimarrebbe comunque all’avanguardia, pare comunque evidente che i cinesi non intendano cambiare campo di gioco anche perchè ora con la Russia totalmente dalla loro parte hanno garantita energia a basso prezzo per i prossimi decenni.

In questa serie di visite che fanno chiaramente intendere come siano in corso dei colloqui a pieno spettro certamente quelle più rilevanti sono quelle che hanno visto sbarcare a Pechino la Segretaria al Tesoro Yellen e il vecchissimo Henry Kissinger protagonista del disgelo Washington-Pechino degli anni 70 del secolo scorso che portò alla vittoria del blocco occidentale contro l’URSS; senza il tacito appoggio a Washington di Pechino che sostanzialmente ruppe con Mosca nonostante la “fratellanza comunista” ben difficilmente gli occidentali avrebbero prevalso nella Guerra Fredda…

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Perfetti conosciuti – Marco Travaglio

La famosa controffensiva ucraina di primavera, annunciata in autunno-inverno e partita in estate, si sta rivelando un disastro. E aggiungiamo “purtroppo”, perché significa altri morti, feriti, profughi e distruzioni. Ma la notizia – confermata financo da Kiev e dalla stampa atlantista – può stupire solo chi confonde l’informazione con la propaganda. Non noi del Fatto, che abbiamo la fortuna di ospitare analisti indipendenti e informati e fin dall’inizio abbiamo scritto come sarebbe finita: malissimo. Infatti ora il rischio è che il flop ucraino inneschi una controffensiva russa, come da avvisaglie a Kharkiv, Kupyansk e Odessa. Diversamente da chi ha passato 17 mesi a infilarci in liste di putiniani e un mese fa ci iscriveva fra gli sconfitti del golpe-operetta di Prigozhin (che poi ha deluso il fan club), noi non combattiamo guerre a mezzo stampa e non chiediamo a Tizio o Caio di scusarsi per ciò che ha scritto. Ma gli “esperti” che dal 24 febbraio 2022 non ne azzeccano una puntando il dito su chi le azzecca tutte dovrebbero almeno dare una controllatina alle loro fonti, per limitare le balle e il ridicolo. Magari domani le loro previsioni si avvereranno tutte insieme. Ma al momento Putin non è caduto, l’economia russa non è in default, le sue fabbriche producono più di prima (più missili degli Usa), le sanzioni danneggiano più i sanzionatori che il sanzionato, l’isolamento di Mosca non esiste (ora, oltre a Pechino, c’è pure Riad), il Fmi raddoppia la stima sul suo Pil mentre quello europeo ristagna, gli auto-bombardamenti russi ai gasdotti, alla centrale di Zaporizhzhia e al ponte di Crimea erano bufale, l’armata russa continua a ricevere truppe, armi e munizioni fresche, le sue difese dentate e minate nelle quattro regioni occupate reggono e fanno il tiro al bersaglio sui costosissimi Leopard 2 tedeschi e sui Bradley americani, mentre i soldati ucraini stremati, impreparati e senza ricambi vengono mandati al macello in trincea da comandanti senza strategia. Come ripete da mesi il generale Milley, capo di tutte le forze Usa.

Stiamo parlando dell’esercito più armato e più finanziato d’Europa: l’invincibile armata dell’Ucraina+“Nato allargata” (40 Paesi contro uno) che finora non ha neppure scalfito la tragicomica “armata rotta” di Putin. Infatti, non riuscendo a riconquistare che piccoli fazzoletti di terra, Zelensky si sfoga con attentati in Russia e in Crimea di nessun peso militare, solo per convincere un Occidente svenato, scettico e diviso a non mollarlo. Se le nostre Sturmtruppen cambiassero registro, o almeno occhiali, potrebbero persino scoprire che chi rischia l’umiliazione non è Putin, ma Zelensky. E il negoziato non conviene alla Russia, ma all’Ucraina, finché ne resta qualcosa.

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Luciano Canfora: “Holodomor, l’atlantismo piega la storia ai suoi fini”

(intervista di Riccardo Antonucci)

“Un problema storiografico non si risolve a colpi di voti in Parlamento”. Luciano Canfora, grecista e saggista di fama, si è occupato molto dell’uso politico della memoria. In un suo saggio del 2010, L’uso politico dei paradigmi storici, mostra come il revisionismo sia una costante di ogni epoca, perché i potenti si adoperano a riscrivere la storia per accreditarsi come vincitori. Rientra in questa casistica, sostiene, anche la mozione sottoscritta da FdI e Pd in Senato per riconoscere come genocidio l’Holodomor, la carestia provocata dalla collettivizzazione forzata delle campagne imposta da Stalin nel territorio dell’Ucraina e di altre repubbliche dell’Urss tra il 1932 e il 1933, costata milioni di morti. Mozione approvata dalla Camera a novembre, come anche dal Bundestag di Berlino, dall’Eurocamera e dalla Verchovna Rada di Kiev, dove Zelensky si è speso attivamente per la causa.

Professore, in Senato FdI parla di ‘dato incontrovertibilmente accertato, ossia il genocidio del popolo ucraino da parte di Stalin e dei comunisti sovietici’. Il giudizio storico è così pacifico sull’argomento?

L’idea che l’Holodomor sia stato un atto intenzionale di Stalin per sterminare gli ucraini aspetta ancora una dimostrazione scientifica. La storiografia dibatte tuttora delle cause di quella grande carestia. Nessuno nega il fatto, ma non si riesce a dimostrare l’intenzionalità di esso. La storia dell’Urss va studiata, i problemi storici si risolvono in archivio, non con superficialità televisiva da ‘buoni e cattivi’.

Cosa c’è da condannare in questa iniziativa?

Le rispondo con una provocazione. Propongo un voto per riconoscere il genocidio dei soldati romani a Canne, 216 a.C., da parte dei ‘feroci’ Cartaginesi. Sono costernato perché questo non solo è un modo ridicolo di affrontare problemi storici, ma è un modo per chi è al potere di sostenere di aver vinto anche retroattivamente. L’atlantismo più destrorso ha vinto varie manche nell’ultimo periodo, e ora sta imponendo rappresentazioni storiche ad usum delphini. Altri si incaricheranno di disfare questa tela e presentare le cose diversamente, magari tra 600 o 700 anni. A questa forma di sopraffazione, l’ex sinistra non sa mai reagire con intelligenza, gioca di rimessa. Si possono deplorare fatti storici, ma non lo si può fare in barba alle verità più elementari. Ricordo che il Parlamento europeo si è già illustrato nell’accomunare lo stalinismo e l’hitlerismo. Perché non votiamo per riconoscere il genocidio dei quasi 20 milioni di morti russi nella Seconda guerra mondiale, dopo un’aggressione subita da parte della Germania del Terzo Reich, quando l’Ucraina collaborava con Hitler? Io sto dalla parte di Fabio Massimo il temporeggiatore, che non voleva la battaglia di Canne: altri la vollero e finì col massacro che sappiamo.

Perché votare sull’Holodomor proprio ora, quando tra Russia e Ucraina è ancora in corso una guerra?

Occorre trovare giustificazioni ideali all’essere in guerra, mentre sosteniamo di non essere in guerra. Tutto ciò mentre oltre metà dell’opinione pubblica italiana non vuole la guerra. Giorni fa leggevo sul Corriere della Sera, sotto a un titolo allarmato, che il 61 per cento degli italiani sostiene di non fidarsi di Zelensky: è un elemento importante per capire perché in questo momento l’Italia si stia esercitando sull’Holodomor. Si corrono a inventare sempre nuovi argomenti per rinforzare lo schieramento atlantista.

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Da Mosca a Washington, passando per Roma, siamo bombardati da menzogne a grappolo – Alberto Negri

Comincia a Roma l’incaricato d’affari americano Crowley (da tre anni – chissà perché – qui non c’è un ambasciatore Usa) il quale afferma alla tv di stato che l’Italia con l’accordo firmato con la Cina ha tutto da perdere: ma questo accordo sulla Via della Seta (tre paginette striminzite) non è stato mai attuato e gli Stati uniti e l’Unione europea hanno un interscambio con la Cina che è almeno dieci volte quello di Roma con Pechino. Scorrendo le cifre, nel 2022 la Russia è solo al decimo posto nell’interscambio con la Cina (190 miliardi di dollari), al primo posto i Paesi Asean (975) la Ue (847) Usa (759) Corea del Sud (362) Giappone (357) Taiwan (329) Hong Kong (305), Italia (57). La Cina, nonostante la guerra, rimane anche il maggior partner commerciale dell’Ucraina con un interscambio mensile di 2,3 miliardi di dollari. Ma è questo il dono che la presidente del consiglio Meloni ha portato nel suo incontro con Biden: stracciare un’intesa con i cinesi le cui cifre sono risibili, se non inesistenti, rispetto a quelle dei nostri alleati.

Eppure basta questo al nostro governo: fare un inchino alla Casa Bianca in cambio delle solite promesse americane di assegnare all’Italia un ruolo di primo piano nel Mediterraneo. Si tratta delle famosa “cabina di regia” che gli Usa, passando per Obama e Trump, avevano fatto balenare prima a Renzi, poi a Conte, quindi a Draghi e ora anche alla Meloni. Ovviamente non c’è stato né c‘è ora niente di concreto. Il nulla per il nulla.

Un momento, però. In oltre vent’anni l’Italia è stato il maggiore reggicoda mondiale degli Stati Uniti, complice delle più strampalate e sanguinose avventure militari inventate dagli americani. Abbiamo partecipato ai raid su Belgrado nel’99, alla guerra in Afghanistan nel 2001, in Iraq nel 2003 e abbiamo persino bombardato Gheddafi nel 2011 che solo sei mesi prima (il 30 agosto 2010) ricevevamo a Roma con il tappeto rosso, la tenda beduina e un nugolo di escort, alla presenza delle maggiori autorità di stato e di governo, con cinquemila imprenditori con il cappello in mano davanti al rais libico.

È evidente che la nostra politica estera non esiste. Ditelo magari anche alla presidente del Consiglio Meloni che Mattei aveva ricevuto l’incarico per ordine degli Usa di liquidare l’Agip nel dopoguerra: non solo non lo fece ma fondò pure l’Eni. Fu a sua volta liquidato con un attentato al suo aereo nei cieli di Bascapè. Dovete pure informarla che ogni volta che l’Italia ha tentato una propria politica energetica (dal gasdotto Blue Stream al South Stream) Washington è sempre intervenuta per bloccarla. Ma qui abbiamo la memoria corta, anzi cortissima.

L’Italia, con le sue dozzine di basi Nato, è l’alleato più docile che gli Stati Uniti potessero trovare al mondo: pronto a recepire, con l’accompagnamento dei nostri media, ogni sciocchezza proposta da Washington, comprese quelle guerre citate prima che sono state dei veri e propri disastri. Certo anche noi ci mettiamo del nostro e tentiamo di contrabbandarlo come “politica estera”: dagli accordi di forniture belliche ad Al Sisi che hanno contribuito a liberare Patrick Zaki, all’intesa con la Tunisia sui migranti (che ricorda quella con la Libia) e che lascia la gente morire nel deserto ai confini libico-tunisini dove a Ras Jedir si fanno affari con uomini, merci e petrolio per 500 milioni di dollari l’anno. Ma questi, com’è risaputo, sono dettagli.

A proposito. A San Pietroburgo ieri la riunione tra Russia e Africa – dove Putin annuncia la fornitura del grano gratis entro 3-4 mesi ai Paesi africani – è stata l’occasione di una calorosa stretta di mano tra Putin e Al Sisi (dal 2014 i due si sono visti ogni anno). Ovvero tra il maggiore nemico dell’Ucraina e della Nato e uno dei più importanti alleati degli Stati Uniti che sta facendo la pace con Erdogan, altro autocrate, sultano dell’Alleanza Atlantica e anche amic o (per opportunismo geopolitico) del leader russo. La Russia è uno dei maggiori partner del Cairo, la Turchia è l’unico Paese della Nato che non ha messo sanzioni a Mosca. Biden, annotava il 25 luglio Peter Baker sul New York Times, ha presentato la sua politica estera come una «battaglia tra democrazia e autocrazia», in realtà liscia il pelo ai dittatori e non fa nulla per difendere la libertà e i diritti umani, dall’Egitto alla Turchia a Israele, all’India.

Giorgia Meloni non sa come spiegare niente di tutto questo. Si adegua, quindi scende a patti con il generale egiziano, con il “reiss” turco e l’inguardabile presidente tunisino Saied. Tutto questo nella puerile speranza che gli Usa di Biden gli assegnino la famosa «cabina di regia» nel Mediterraneo e applaudano al suo Piano Mattei, che nessuno ha ancora visto. Buona fortuna a lei e un po’ anche a noi

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ESPOSTO ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA

Alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma

e per opportuna conoscenza:
al Presidente della Repubblica
ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica
alla Presidente del Consiglio dei Ministri
a tutte le ministre e i ministri, a tutti i senatori e le senatrici, a tutte le deputate e i deputati, agli ed alle europarlamentari elette ed eletti in Italia
a numerosi pubblici ufficiali cui incombe, ricevendo tale notitia criminis, di promuovere l’azione giudiziaria
ai mezzi d’informazione
a numerose persone di volonta’ buona, associazioni democratiche, istituzioni fedeli alla legalita’ costituzionale

Oggetto: esposto relativo alla violazione dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica italiana da parte del governo italiano.

Egregi signori,
l’articolo 11 della Costituzione della Repubblica italiana e’ inequivocabile. Esso recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta’ degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parita’ con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranita’ necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
*
Il governo italiano ha violato l’articolo 11 della Costituzione in quanto:
a) fa partecipare l’Italia alla guerra in corso in Ucraina attraverso la fornitura di armi che la guerra alimentano;
b) fa partecipare l’Italia alla guerra in corso in Ucraina attraverso la propria aviazione militare che raccoglie informazioni e le invia all’esercito ucraino sul campo di battaglia (cfr. il servizio giornalistico apparso sul sito dell’autorevole agenzia giornalistica Ansa col titolo “La guerra dei top gun italiani”, che fin dall’incipit esplicitamente afferma che “i nostri piloti, tra loro anche una donna, a bordo dei caccia catturano dati importanti che in poco tempo finiscono sui cellulari dei soldati ucraini sul campo di battaglia”);
c) ostacola effettualmente ogni realistica ipotesi di “cessate il fuoco” ed ogni concreto impegno di pace sostenendo esplicitamente la tesi che la guerra deve concludersi non con un negoziato ma con la “vittoria” di una delle parti in conflitto (cfr. la dichiarazione della Presidente del Consiglio dei Ministri “scommettiamo sulla vittoria ucraina” riportata da numerosi mezzi d’informazione);
d) sostiene l’azione provocatrice ed eversiva della Nato che da decenni opera nell’Europa dell’est per destabilizzare gli equilibri regionali e suscitare conflitti (azione divenuta finanche esplicitamente terrorista e stragista durante la guerra di distruzione della Jugoslavia nel 1999).
*
In flagrante violazione dell’articolo 11 della Costituzione, il governo italiano arma e quindi alimenta la guerra, partecipa alla guerra e quindi alle stragi di cui ogni guerra sempre e solo consiste, e con cio’ espone altresi’ anche il nostro paese a subire le conseguenze della guerra, e – last, but not least – contribuisce all’escalation verso una guerra mondiale e nucleare che puo’ metter fine all’intera civilta’ umana.
*
Egregi signori,
con il presente esposto si richiede il piu’ tempestivo intervento per far cessare l’azione incostituzionale, folle e criminale del governo italiano.
Distinti saluti,

Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” di Viterbo

 

Lamento del mercante d’armi – Stefano Benni

Ho venduto un pezzo di cannone
poi le ruote e un altro pezzo di cannone
la culatta e l’otturatore
il mirino e un altro pezzo di cannone
e altri tre pezzi di cannone
e adesso c’è uno in televisione
che dice che mi spara col mio cannone
chi lo sapeva che coi pezzi di cannone
avrebbe fatto un cannone?
Se lo avessi saputo
mica avrei accettato l’ordinazione

Ho venduto cento elicotteri
con relativo armamento
e un sistema puntamento missili
e un sistema anti-sistema di puntamento
adesso l’elicottero è lì che spia
come un falco sopra casa mia
Se lo avessi saputo cosa voleva fare
non gli avrei venduto la testata nucleare
era così distinto, un vero signore
chi poteva sapere che era un dittatore?

Se avessi saputo che un cliente
può diventare un nemico
della mia patria
dell’Occidente
vi giuro gente
lo giuro sui figli
lo giuro su Gesù
gli avrei fatto pagare
il cinquanta per cento in più.
Da qui si vede
la mia buona fede

da qui

 

*ricordando un film con Paul Newman

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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