Un percorso lungo un secolo: in ricordo di Bianca Guidetti Serra
[Nell’ambito dell’iniziativa “Una Montagna di Libri contro il Tav” un ricordo collettivo ha riproposto il percorso di Bianca Guidetti Serra, uno dei giganti del ‘900 italiano, a quasi un anno dalla fine della sua lunga vita. Dieci persone si sono alternate leggendo i suoi scritti o raccontandone frammenti di storia. Quello che segue è il ricordo di Sante Notarnicola. ] Alexik
Ho conosciuto Bianca l’otto Maggio del 1968 nella Corte d’Assise di Milano, dove per la prima volta mettevo piede per essere giudicato insieme ai miei compagni di allora. I capi d’imputazione erano 75, alcuni dei quali comportavano la massima pena: l’ergastolo. Una pena che a Milano non era stata data da vari lustri, come diceva la stampa dell’epoca.
Venivo da 8 mesi di isolamento totale durante i quali non avevo avuto che poche e frammentarie notizie su ciò che circolava dal dopo arresto fino al processo. Ero quindi frastornato. Mi ripresi alla svelta rincontrando i miei vecchi compagni che non avevo più visto né sentito, durante un arco di tempo che aveva prodotto tra noi alcune contraddizioni piuttosto pesanti. Il prevedibile attacco scatenato dalla stampa, teso a delegittimarci nella dignità, ebbe invece l’effetto di ricomporre momentaneamente tutti noi imputati.
Iniziato il processo mi guardai intorno nell’aula e chiesi a Rovoletto chi era l’avvocatessa che lo difendeva. Da subito osservai l’atteggiamento riverenziale che gli avvocati avevano nei confronti dei giudici, e non ci detti peso fino a quando la Guidetti Serra prese la parola e con tono deciso fece scendere di qualche gradino la corte nel suo insieme, stabilendo con una sola parola “Giudice !” una specie di parità, inimmaginabile a quei tempi.
Più in là nel tempo, quando una buona parte dei detenuti di San Vittore (e anche di altre prigioni), si fece protagonista, con l’aiuto dei movimenti del tempo, di una dura lotta lunga sei anni che sconvolse tutte le prigioni del paese, in molti processi i giudici restarono soltanto “giudici”, senza gli orpelli a cui si erano abituati facendosi chiamare “eccellenza”, con tanto di inchino.
Come fuori, anche nelle prigioni i detenuti conquistavano la loro dignità. Mano a mano con le lotte, letture e discussioni, costruivano la cosa più importante: l’identità. E la parola più usata, “compagno”, circolò tra le celle delle prigioni per molti anni.
Il processo si concluse i primi di luglio. Le contraddizioni nostre e soprattutto la divisione fisica nei vari bracci, impedì una difesa comune. Ci accordammo soltanto sulla risposta da dare all’inevitabile condanna all’ergastolo. Gli ergastoli furono tre a testa (in appello diventeranno cinque).
La nostra risposta fu cantare l’inno dei giovani comunisti.
Dopo la sentenza nello stanzone che ci conteneva, pieno di carabinieri, si udì una voce alterata che gridava ”lasciatemi passare”. Un ufficiale le fece strada, era Bianca. Volle abbracciarci uno per uno e disse, scandendo le parole perché tutti potessero udire: ”come avvocato, come cittadina e come persona sono contro la pena dell’ergastolo”. Ci saremmo rivisti in appello.
Al processo d’appello le cose erano cambiate, avevamo stretto rapporti con Lotta Continua, con Re Nudo ed altri organismi del movimento. In aula ci fecero una gradita sorpresa: per tutte le udienze i militanti occuparono i posti destinati al pubblico. Un segno di solidarietà che ancora oggi ricordo con emozione.
Erano passati quasi due anni che risultarono decisivi per il consolidamento delle lotte e dei rapporti con il movimento: passo dopo passo diventammo interni a quel movimento. Le bombe di Piazza Fontana ci fecero maturare alla svelta.
Superammo, anche noi nelle prigioni, l’improvvisazione delle lotte. Ci eravamo dati un programma ambizioso: dovevamo muoverci nel carcere come in una fabbrica, e lottare come nelle fabbriche; ordinati e decisi ci guadagnammo il rispetto di tutto il movimento che non ci vide più come lumpen, ma come compagni di viaggio. E la verifica la fecero loro stessi perché la prigione, anche per loro, divenne consuetudine per via delle risposte repressive alle lotte.
Così quando due anni dopo ci trovammo in corte d’appello la maturazione, la consapevolezza, la responsabilità si evidenziò nell’occupazione da parte di Lotta Continua, di Re Nudo ed altri organismi del settore riservato ai cittadini.
Bianca, intravista a San Vittore mi disse, chinando il capo sul mio orecchio, “Hanno arrestato mio figlio…”. Fabrizio era stato catturato per aver partecipato a una manifestazione antifascista. Ovviamente alle Nuove di Torino fu trattato con particolare attenzione dalla massa di detenuti in quanto Bianca era popolare in quel carcere.
Finita la fase processuale, nel tornare a San Vittore carichi di ergastoli, di catene e di carabinieri, trovammo il portone chiuso. Incredulo mi comunicarono che la direzione del carcere non mi voleva. Ero stato espulso da San Vittore. Cominciò così la mia vita errante da un carcere all’altro. La corrispondenza con Bianca, con i compagni di movimento e con i detenuti di altri carceri (lettere per lo più uscite clandestinamente) mi impegnò, specie nei frequenti periodi di isolamento.
Intanto scoprivo tutte le fasi più importanti dell’impegno di avvocato (e non solo) di Bianca. In quel tempo era scoppiato lo scandalo “dei celestini”, di bambini rinchiusi in istituti e maltrattati. Bambini senza un futuro che non fosse il carcere, senza un solo affetto. Bianca fece un lavoro straordinario anche in quella circostanza gettando le basi per una legislazione a tutela dei minori.
Approdai nel penitenziario più rognoso di quel tempo: Volterra. Qui erano concentrati coloro che individualmente non accettavano passivamente nessun tipo di carcere. Una vera scuola di ribelli, molti dei quali avrebbero avuto un ruolo importante nelle lotte che già si allargavano ovunque nelle prigioni. Non ci avrebbero fermati gli scontri, i trasferimenti, le botte nelle segrete, l’affamamento, le denunce e i processi. Noi andavamo creando un carcere alternativo fatto di obiettivi sempre più alti, parlavamo già di organizzazione da curare giorno dopo giorno con l’obiettivo più nobile: la libertà, la fuga, quella fatta con le lime o sequestrando guardie. E chiunque, arrestato e messo in un braccio, da subito trovava il suo posto di lotta.
Un ricordo particolare del mio avvocato?
Il 2 Luglio 1987, primo giorno di legislatura, Ilona Staller entrò nella Camera come deputata del partito Radicale. L’accolse un muro di fotografi, telecamere e giornalisti. Ilona era una persona minuta e stretta in quella bolgia lo sembrò ancora di più.
Era manifesta la morbosità e lo squallore della stampa. Entrò nella Camera e qualcuno le disse quale era il settore riservato ai radicali, lassù in alto. Nella vastità dell’aula la Staller era un puntino bianco, col vuoto tutto intorno. Quel vuoto era un pugno nello stomaco.
Poi una donna salì, con una certa solennità i gradini dell’emiciclo, scansando i “poco onorevoli”. Andò a sedersi al fianco della Staller. Le mise il braccio sulla spalla e le regalò un sorriso misurato. Il brusio si zittì e Ilona parve accostarsi di più a quella donna che era (lei si ONOREVOLE) Bianca Guidetti Serra, il mio avvocato.
Note:
La parte del reading sul processo per le schedature Fiat è stata pubblicata QUI.