Un poliziesco molto politico
recensione a «Mapuche» di Caryl Ferey
di Francesco Cecchini
Mapuche significa popolo o terra ma anche gente della terra (mapu). Un popolo che prima gli spagnoli ma poi i padri della patria e degli argentini di oggi tentarono di sterminare e quasi ci riuscirono. Una vaga, ma tragica, contabilità parla di centinaia di migliaia di morti. Le campagne militari della Pampa o del Desierto furono vere e proprie azioni di genocidio. Ma invano i Mapuches e anche i pochi Tehuelches che rimangono continuano a resistere e lottare. Sono un popolo tenace e duro come le loro terre, dal Pacifico all’ Atlantico: le due coste, Le Ande, il nord della Patagonia, la Pampa, e i venti che le scuotono.
Siamo nei primi anni di questo millennio. Un’ Argentina saccheggiata da politici come Carlos Menen, economisti liberali come Cavallo, sindacati corrotti, finanzieri e imprenditori senza scrupoli è inabissata in una tremenda crisi economica e sociale. Jana, una dei due protagonisti del romanzo è una Mapuche, che giovanissima abbondona il Sud per andare a Buenos Aires, dove per vivere e frequentare un istituto d’arte fa la prostituta di strada. Fino a quando riesce ad essere quello che vuole, un’artista, una scultrice che costruisce sculture di lamiere e ferro, tagliate con la fiamma ossidrica e saldate. Abita e lavora in un vecchio hangar a Retiro. E’ una zona del centro circondata dai quartieri di Puerto Madero, San Nicolas e Sant’Elmo dove assieme a hotels a cinque stelle, alle famose torri Catalinas esistono ancora zone abbandonate, retaggio di un passato da bassofondo. Il luogo dell’hangar, appunto, vicino alla stazione dei bus è uno di questi posti. Jana non ha né amanti né amici se non Paola, un dolce travestito, una puttana con viso dalla pelle di porcellana e gli occhi celesti, conosciuto tempo fa quando anche lei batteva. Un tardo pomeriggio mentre lavora al suo “capolavoro” – una scultura che vuole essere una mappa d’acciaio del Cono Sur – Jana riceve una telefonata allarmata di Paola: Luz un altro travestito, amico e amante non è apparso a un appuntamento, è sparito. Paola chiede a Jana che la raggiunga e l’aiuti a trovare Luz. L’appuntamento è al Trasformer una boite equivoca nella quale Jana non metteva piede da quando si vendeva. La ricerca di Luz è vana, ma il suo corpo, con il pene evirato, viene trovato dalla polizia che galleggia tra le immondizie che coprono le acque del Riachuelo. La polizia trattiene e interroga Jana e Luz, ma senza prove tangibili di un loro coinvolgimento nell’assassinio di Luz deve rilasciarle. Jana per poter scoprire cosa è avvenuto, chi ha evirato ed ucciso Luz, decide di rivolgersi a un detectve famoso, Rubén Calderón, il secondo protagonista di “Mapuche“. Come Jana viene dalla violenza che lei, la sua famiglia, il suo popolo subiscono ogni giorno: anche Calderón esce da un inferno, più vicino nel tempo, quello del massacro di un’intera generazione che voleva il cambio politico e sociale, la democrazia, il socialismo. Quando era adolescente – assieme al padre Daniel, un poeta famoso – viene sequestrato e portato nel più famigerato dei centri clandestini di detenzione: l’ESMA, Escuela Superior de Mecanica de la Armada. L’istituzione della Marina sotto il comando del criminale ammiraglio Massera diventò fra il 1976 un 1979 un vero e proprio Auschwitz: in centro a Buenos Aires, Avenida Libertador 8000. Migliaia di persone che vi soggiornarono sono desaparecidos, spariti. Un laboratorio di barbarie: sequestri, stupri, parti clandestini, voli notturni con persone drogate prima di essere scagliate nel vuoto, documenti falsificati dalle vittime stesse per cedere beni agli stessi carnefici e ancora montagne di beni personali, televisori, frigoriferi, mobili rubati come bottino di guerra come si portavano via i bambini nati dai parti clandestini. Daniel Calderon e la figlia non usciranno vivi da questo campo di concentramento e sterminio. Rubén invece ritorna libero un giorno del luglio 1978. Dopo aver fatto il giornalista lavora per las abuelas (le nonne) de Plaza de Mayo alla continua ricerca dei bambini dei desaparecidos, regalati o per lo più venduti subito dopo la nascita. Dove sono, in che famiglia vivono, cosa fanno? Tutte domande alle quali pccorre rispondere a partire dagli esami del DNA dei falsi genitori o di quelli veri e morti, per poterli per lo meno restituire come nipoti alle nonne e ai nonni.
Quando Jana incontra Rubén, lui sta indagando sulla scomparsa di una fotografa: Maria Victoria Campallo, la figlia di uno degli uomini più influenti del Paese. I destini di Jana e Rubén si intrecciano alla ricerca di chi ha ucciso Luz e rapito, per poi assassinare, Maria Victoria. Non si separeranno più, fino alla scoperta e punizione dei colpevoli e forse oltre. La storia della ricerca e punizione degli assassini corre in una Buenos Aires e in una Argentina non a colori, ma in bianco e nero. Caryl Ferey conosce bene la geografia e la storia di questa terra, i problemi e le contraddizioni di un oggi drammatico.
La sua capacità risiede nel farci vivere intensamente quello che racconta. I personaggi la città e il Paese, i paesaggi sono veri, e il lettore è là in mezzo e li vede. Respira e quasi sente odori e profumi della città, del campo e della Cordigliera. L’incipit di “Mapuche” ricorda l’orrore di un Paese dove i sequestri, le sparizioni, le torture, le morti erano parte del quotidiano e i conti sono ancora aperti.
“Un vento di tempesta ululava dal portello della carlinga. Parise, stretto dall’imbracatura, chinò la testa calva verso il fiume. Si distingueva appena l’acqua melmosa del Río de la Plata che sgorgava dalla foce. Il pilota puntava verso il largo, direzione sud-est. Un volo notturno come ne aveva fatti a decine, tanti anni prima. L’uomo dal bomber kaki era meno tranquillo di un tempo: le nuvole si dissipavano man mano che loro si allontanavano dalle coste argentine e il vento raddoppiava di violenza, scuotendo il piccolo bimotore. Con il fracasso del portello aperto, bisognava sgolarsi per farsi sentire.
-Presto usciremo dalle acque territoriali!- Avvertì, girando la testa all’indietro. Hector Parise consultò il suo orologio da polso; a quell’ora gli altri dovevano già aver spedito il loro pacco… Le creste delle onde sfavillavano sull’oceano, onde pallide sotto la luna appena sorta. Si aggrappò alle pareti della carlinga, gigante in balia dei vuoti d’aria. Il pacco giaceva a terra immobile nonostante i sussulti del velivolo. Parise lo fece scivolare fino alla portiera. Seimila piedi: nessuna luce splendeva nella notte tormentata, solo, in lontananza, i fanali indifferenti di un cargo. La sua cintura di sicurezza sbatteva nell’ angusto abitacolo.
– Ok!- ruggì all’indirizzo del pilota. L’uomo alzò il pollice in segno di assenso. Il vento gli sferzava il viso; Parise afferrò il corpo addormentato per le ascelle e non poté trattenere un sorriso.
– Su, va a giocare fuori tesoro-
Stava per gettare il pacco sull’area di sgancio quando una scintilla balenò dagli occhi aperti: un barlume di vita, di terrore. Il colosso barcollò nella tormenta, colto dallo stupore e dallo spavento: stordito dal Pentotal, il pacco non avrebbe dovuto svegliarsi, tanto meno aprire le palpebre! Era la Morte che lo sfidava, un gioco di riflessi notturni, una semplice allucinazione?! Parise agguantò il corpo con tremori da indemoniato e lo scagliò nel vuoto”.
La potente scrittura di Caryl Férey fa vivere in diretta, a fianco del criminale Parise, del pilota e della vittima, qualcosa già letto o ascoltato, magari con il distacco che si riserva a storie del passato: un duello con la morte, che avviene ai giorni d’ oggi.
Cosa dire dell’ autore e del suo rapporto con il romanzo? Lascio che Caryl stesso ne parli in un’ intervista rilasciata al sito francese “Le Telegramme“, il 26 giugno 2012:
“Non so se Mapuche è’ il mio miglior romanzo, ma è quello per il quale mi sento maggiormente coinvolto. Mi sento vicino alla collera e alla volontà di lotta degli argentini dopo la dittatura economica che hanno subìto con la crisi del 2001-2002. Mi sento anche vicino a las abuelas de Plaza de Mayo, così emozionanti. Hanno conosciuto il peggio, la sparizione dei propri cari, spesso torturati, stuprati, assassinati, private anche dei corpi per il lutto. Hanno conosciuto il peggio. Malgrado tutt,o dopo 35 anni sono come il primo giorno! Ammirevoli! Il mio libro è anche un romanzo d’amore verso l’Argentina”.
“Volevo scrivere un romanzo d’ amore, ma leggendo documenti d’archivio spaventosi la dittatura ha preso il sopravvento. E perché la tortura non sia troppo soffocante ho scelto la poesia, che mi sembra la cosa più lontana dalla tortura. I poeti e gli scrittori argentini hanno d’altra parte pagato sotto la dittatura un prezzo pesante. È dunque una maniera di apportare colore, di dare speranza, di essere un riflesso della cultura, molto presente a Buenos Aires”.
Aggiungo che Caryl Férey, oltre che uno scrittore poetico, ha le doti di un ricercatore storico e di sociologo che danno spessore, verosimiglianza, credibilità al suo romanzo che sarebbe limitativo definire polar, poliziesco o noir.
“Mapuche” ha vinto premi letterari, fra i quali il prestigioso Premio 2012 della rivista “Lire” per il poliziesco e ha venduto in Francia quasi 100.000 copie. Caryl Férey era a Cannes l’ultimo giorno del festival quest’anno per accompagnare il film tratto dal suo romanzo “Zulù” e ha accennato dove sarà ambientato il prossimo romanzo: il Cile dove ha già incontrato i Mapuches che vivono ad ovest della cordigliera andina. Ha anche scritto su di loro. L’ articolo è apparso con il titolo di “Machi” il 16 novembre 2012 nella rivista francese “Longours“. Caryl ha detto che per scrivere il romanzo sarebbe ritornato in Cile, forse è in viaggio, forse è già laggiù. Tutti i suoi lettori attendono , io compreso.
Concludo menzionando l’ottima traduzione di Teresa Albanese: smentisce chi pensa che tradurre sia tradire. Il suo è un amore fedele che ci permette di leggere in italiano la bellezza della scrittura francese. Spero che Teresa Albanese stia traducendo in italiano “Zulù“, il penultimo romanzo di Férey.
Il libro è pubblicato da E/O: 454 pagine per 18 euro
“Zulu” è già stato tradotto, proprio da Teresa Albanese:)
Ciao, sono Teresa Albanese. Sono capitata per caso su questa recensione e volevo ringraziarti di cuore per il commento sulla traduzione. In effetti Férey mi piace molto e tradurre Mapuche è stato particolarmente divertente. Anni fa avevo tradotto Zulu, anche se sono meno contenta di quel lavoro perché lo stile dello scrittore non mi era ancora così familiare. Spero vivamente che mi tocchino anche i suoi prossimi libri. Vorrei a mia volta farti i complimenti: sono pochi i recensori che si accorgono della traduzione! Grazie a nome di tutta la categoria