Una donna alla presidenza della repubblica?
di Monica Lanfranco
Gli anni di attivismo femminista e di ascolto, conflitto e confronto, nel lavoro di scrittura e formazione sulle politiche di genere in Italia, mi hanno rafforzata nell’opinione che è necessario dire forte e chiaro, soprattutto a chi si affaccia con occhi e mente più giovane alla società e all’impegno, che NON basta essere dentro a un corpo sessuato per garantire una visione e uno sguardo alternativo al dominio, al potere e al patriarcato. Non basta essere gay per empatizzare con la differenza e il disagio (il leader del partito olandese xenofobo, ucciso qualche anno fa, era gay); non basta il colore della pelle per stare dalla parte dei deboli (Condoleeza Rice è nera), non basta essere donna per sentire sulla pelle l’urgenza di laicità e uguaglianza (l’on. Binetti, l’on Santanchè, e mi fermo solo per motivi di spazio, sono donne). Questo è un momento storico delicato, come altri nella vicenda umana, ma il fatto di avere a disposizione la possibilità di confrontarsi e conoscere altre realtà grazie alla tecnologia può aiutare le donne e chi abbia a cuore il cambiamento a creare condizioni di resistenza e di pressione affinché il cambiamento si realizzi. In Italia abbiamo nel passato recente vissuto alcune sconfitte cocenti causate dalla incapacità di coesione su obiettivi chiari da parte dei movimenti: l’emarginazione di Tina Anselmi, oggi tardivamente indicata come possibile presidente della Repubblica; il non ottenimento da parte di Lidia Menapace del titolo di senatrice a vita, nonostante le migliaia di firme raccolte e le pressioni istituzionali; il mancato decollo di un ampio dibattito sull’opportunità di liste di donne autonome dai partiti, e con visioni progressiste, sia ai livelli locali che a quelli maggiori della rappresentanza. Oggi vediamo un certo interesse, molto mediatizzato e focalizzato sul generico “ascolto” delle donne, che però non entra nel merito delle questioni di fondo, ovvero appunto si limita a dire che un genere va valorizzato, ma non si sa perché e su quali presupposti di contenuto e di programma, di visione globale e particolare circa le relazioni fra i sessi. Vorrei essere esplicita fino in fondo: a Genova erano candidate alle primarie tre donne. Sono femminista, ma non ne avrei votato nemmeno una, e se avessi potuto avrei votato un uomo. Non mi è mai bastato, non mi basta e non mi basterà il generico essere di una donna una mia simile perché io possa affidarle un mandato (non una delega) sui miei interessi e bisogni politici. Deve essere una donna con quale poter fare un patto di condivisione, per il suo mandato, sulle questioni di fondo urgenti che necessitano una svolta: cambiare il paradigma economico, abbandonare la logico dello sviluppo neoliberista, incidere sulla cultura sessista e omofoba facendola diventare una priorità, ricostruire la signoria della laicità nello spazio pubblico garantendolo dalle derive fondamentaliste, ridisegnare il lavoro mettendo al centro la riproduzione. Mi fermo qui. Il 50 e 50, ci insegnano le donne dei Paesi nordici e alcune esperienze africane, non basta a garantire equità e pari opportunità, perché da sempre nella storia prima del femminismo le donne sono state formidabili alleate del potere. Ragioniamo su questo, ricordando, come sosteneva Rosa Luxemburg, che chiamare le cose con il proprio nome è il primo gesto rivoluzionario.