Una nuova canzone

di Maria G. Di Rienzo

L’età delle bambine vendute e trafficate a scopo sessuale diventa sempre più bassa, il loro numero sempre più alto. Degli attuali 21 milioni di persone costrette al lavoro forzato – cioè che per coercizione o inganno svolgono un lavoro che non possono lasciare – 4 milioni e mezzo sono bambine e donne vittime di sfruttamento sessuale. (Agenzia Donne NU, ILO-International Labour Organization).

In India, l’età media delle prostitute nei distretti “a luce rossa” va dai 9 ai 13 anni. (Apne Aap Women Worldwide)

Circa metà delle violenze sessuali in tutto il mondo sono dirette a femmine minori di 15 anni: quindi, si abusa di circa 6.000 bambine al giorno. (Unicef, Right to Education Project)

Una delle ragioni avanzate da vari commentatori per spiegare questi dati è «l’effetto della crisi economica nei Paesi poveri». Sicuramente la miseria gioca un ruolo importante in tali faccende. Ma la vicenda di Minh Dang, statunitense di origine vietnamita, suggerisce che le cause principali sono davvero altre e che molto di quel che c’è scritto all’inizio di questo articolo accade nelle nostre case o in quelle a noi vicine.

 

Minh Dang, oggi 28enne, è un’attivista contro il traffico di esseri umani dell’organizzazione non governativa Don’t sell bodies («Non vendete corpi umani»). Suo padre ha cominciato ad abusare di lei quando di anni ne aveva tre. Quando ne ebbe dieci, fu portata a “lavorare” in un bordello: dove, se non doveva andare a scuola, poteva essere lasciata per settimane intere. Allevata nel culto di dover servire i suoi genitori, per lungo tempo Minh ha pensato che la prostituzione fosse uno dei suoi compiti. «Mia madre metteva annunci in vietnamita su giornali e riviste. Mio padre mi portava in quelli che erano caffè di facciata e bordelli nel retro. Non ero l’unica bambina a essere venduta, in quei posti».

I genitori di Minh Dang non erano miserabili, ma grazie alla continua vendita della figlia se la sono passata ancor meglio, e la madre ha aperto un salone per la cura delle unghie. Più che la povertà, qui hanno lavorato attitudini patriarcali, sessismo, avidità e insensibilità.

Minh era una studentessa eccellente e manteneva il segreto in modo quasi perfetto: «Due delle mie insegnanti, alle medie, si accorsero in momenti diversi che c’era qualcosa che non andava. Ma non riuscirono a collegare questo “qualcosa” allo sfruttamento sessuale, perché io ero diversa dallo stereotipo della ragazzina abusata». Quando ebbe 18 anni, e veniva ancora venduta regolarmente, Minh tagliò di netto ogni contatto con i suoi genitori: «Dissi loro che se mi avessero contattata ancora avrei chiamato la polizia».

Ma restava un mucchio di lavoro da fare, come Minh ricorda, per sentirsi di nuovo umana. «Quando mi prostituivano, mi trattavano come un animale in gabbia allo zoo: i miei movimenti erano limitati e controllati, l’ambiente mi era estraneo, ed ero isolata dalle altre della mia specie. Ero una creatura esotica che la gente poteva guardare e toccare se pagava i miei proprietari, se pagava per avere il privilegio di usare il mio corpo per divertirsi. C’è anche un’altra metafora che mi viene sempre in mente: per lungo tempo ho pensato di essere un’aliena. Ero solo somigliante ad un essere umano. Gli occhi, le braccia, le gambe, la forma del corpo… era tutto simile, ma io non vivevo come un essere umano, non pensavo come un essere umano.

La maggior parte del mio lavoro di guarigione è consistita nel riconnettermi alla mia umanità e all’umanità altrui. Ho dovuto imparare o re-imparare che ero umana, lo ero sempre stata, e che quelli attorno a me, persino quelli che mi hanno ferito in modo così profondo, erano pure umani. Quando avete a che fare con le sopravvissute all’abuso sessuale, che sono state trattate come oggetti, dovete ricordare che sulla loro umanità si è, al minimo, sputato. Dovete ricordare che la relazione base di queste persone con “chi” loro sono e con quello che possono aspettarsi dagli altri, e con ciò che è possibile in questo mondo è stata danneggiata. Per cui, assicuratevi di trattarle da esseri umani. Non separatevi da loro. Quando ascoltate le loro storie non pensate, ad esempio: “Quel che ho passato io è niente, al confronto. I miei traumi sono minori”. Ciò non vi aiuta a vedere la nostra comune umanità. Trovate le vostre personali esperienze con la disumanizzazione ed esaminatele: in questo modo svilupperete quell’empatia che vi sosterrà e vi renderà quindi capaci di sostenere le vittime.

Come amate voi stessi/e? Io non ho bisogno mi amiate in modo differente. Io come sopravvissuta non sono diversa da voi. Voi non siete diversi/e da me. Trovate una via per connettervi alle sopravvissute: non c’è necessità di aver fatto esperienza delle medesime cose per immaginare cosa hanno provato. Voi potete connettervi a me anche se non capite. La maggioranza delle persone che sopravvive allo sfruttamento sessuale non si aspetta che lo facciate: desiderano in primo luogo che le trattiate come esseri umani. E un’ultima cosa: “sopravvissute” non è un titolo che definisce interamente ciò che una persona è. Le sopravvissute hanno interessi e abilità, colori preferiti e animaletti da compagnia, speranze e sogni, sofferenze e rimpianti. Proprio come ciascuno/a di voi, sono persone complesse e sfaccettate».

Minh ha usato un’altra similitudine per descrivere il suo cammino di guarigione. Dice che è stato come imparare «una nuova canzone», con un testo diverso che rimpiazzasse la “vecchia canzone”, quella che aveva sentito sino alla nausea durante 15 anni di violenze sessuali: «Il mio nuovo testo parla di libertà, di speranza e di amore»,

 

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