Una spina nella corona inglese
di Maria G. Di Rienzo
Fu l’ultima, e la più persistente, oppositrice alla colonizzazione britannica dell’India: più esattamente, del Punjab di cui era regina. Si tratta della Maharani Jindan Kaur, una donna sikh che, a poco più di vent’anni, organizzò due guerre contro gli inglesi e sebbene sconfitta in entrambe continuò a essere «una spina nella corona» della regina Vittoria d’Inghilterra. Il film documentario sulla sua vita, diretto da Michael Singh nel 2010, si chiama infatti «La regina ribelle – Una spina nella corona».
«Prevalentemente – dice in una recensione Herpreet Kaur Grewal, giovane sikh nata in Gran Bretagna – se si parla di donne asiatiche si parla di delitti “d’onore”, matrimoni forzati e violenza domestica: e sono tutte cose serissime contro cui dobbiamo continuare a lottare. Ma non vi è alcun modello che possa ispirare le ragazze nei media, nell’arte o nei libri di storia con cui entrano in contatto, soprattutto se, come me, sono figlie di migranti. Quando ho visto il film sono rimasta colpita da quanto poco sapevo della mia stessa storia. Sono cresciuta a Londra in una famiglia di sikh del Punjab e sebbene guardassi ai miei genitori, alla loro onestà, alla loro fatica, quando pensavo a cosa volevo essere io costruivo un ibrido fra la detective dei gialli per ragazzi Nancy Drew, l’agente televisiva dell’Fbi Dana Scully e Bruce Springsteen. Il tratto comune che io trovo in questi tre personaggi è l’aver abbattuto barriere per aprire un mondo di possibilità. Non c’era niente del genere nella mia cultura d’origine, o almeno questo era quel che credevo: dopo aver visto “Rebel Queen” mi sono sentita riconnessa a un passato negletto. Un passato in cui ci sono donne come Mai Bhago, una santa guerriera nelle fila del 10° profeta sikh, il guru Gobind Singh Ji, o Bibi Dalair Kaur, un’altra guerriera del 17° secolo. Non erano solo sikh: la guerriera più nota in India è probabilmente Lakshmibai di Jhansi, una regina hindu che pure combattè contro la colonizzazione. E più vicino al nostro tempo ci sono state donne come Rokeya Hossain, l’autrice del romanzo utopico “Il sogno della sultana”, scritto nel 1905, in cui si descrive un mondo alternativo in cui le donne dominano la sfera pubblica. Molte artiste d’origine asiatica, al presente, documentano le difficoltà relative all’avere un’identità “mista” ma non si raccontano abbastanza storie come quella della Maharani Jindan, storie di quel che è accaduto prima che la mia famiglia dovesse lottare con il fatto di essere asiatica in una società di bianchi. Non siamo venuti all’esistenza nel momento in cui siamo immigrati, questo è quel che voglio dire».
Non sono riuscita ancora a vedere il filmato per intero, ma alcuni spezzoni e trailer sì, e credo di avvicinarmi a capire come deve essersi sentita Herpreet: le sequenze e la vicenda stessa dell’ultima regina del Punjab sono davvero ammalianti. La rivolta di Jindan comincia con la morte del marito nel 1839, quando gli inglesi rifiutano di riconoscerne il figlio Duleep Singh come erede al trono e rivendicano il Punjab (che all’epoca comprendeva una zona più vasta di quella che oggi viene designata con tal nome). Sati e purdah –il destino delle vedove di immolarsi alla scomparsa del coniuge – non significano niente per lei: il Punjab è il suo regno, lei presiede ogni consiglio di corte, dirige l’attività dei ministri, incontra i capi dell’esercito. Lo storico Peter Bance la definisce «una donna di fegato» e aggiunge: «Tenne testa agli inglesi molto attivamente». Altrettanto attivamente, gli inglesi cercarono di sottrarle il consenso del popolo che la proteggeva. Definita come «un serio ostacolo» al governo britannico dell’India, fu messa in moto contro di lei la macchina della propaganda per darle la reputazione peggiore possibile. La campagna denigratoria la definiva la «Messalina del Punjab», «seduttrice ribelle», «donna disonesta fuori controllo», eccetera. Gli intrighi con vari potenti a corte fecero il resto. Fu chiesto a Jindan di cooperare e farsi da parte, ma poiché essa rifiutò e poiché la sua influenza sul figlio era notevole, gli inglesi decisero di separarli. Jindan fu trascinata fuori dalla corte di Lahore per i capelli e gettata in prigione: prima nella Fortezza di Sheikhupura e poi nel Forte Chunar a Uttar Pradesh. Il figlio Duleep, che aveva allora 9 anni, fu portato in Inghilterra e convertito al cristianesimo. Là condusse l’esistenza tipica di un gentiluomo britannico e scambiava lettere con la regina Vittoria.
Dalla seconda prigione, Jindan riuscì a fuggire travestendosi da servetta. Viaggiò da sola per 800 miglia per raggiungere un santuario in Nepal, dal quale scrisse una lettera al governo britannico in cui si vantava di essere scappata «per magia». Ma non riuscì più a radunare il popolo attorno a sé e a riconquistare il suo regno. Parecchio tempo dopo, le fu permesso di andare in Gran Bretagna per rivedere il figlio (Jindan morirà due anni più tardi, nel 1863, e sarà sepolta a Londra). La riunione bastò, secondo le parole di quest’ultimo, a cancellare tutto «il lavaggio del cervello» che gli era stato fatto: lui era un sikh, figlio del re e della regina del Punjab, e tale sarebbe rimasto sino alla morte.
Così comincia il bel film che documenta tutto questo: «Una donna indiana che porta una crinolina assieme ai suoi abiti tradizionali, e un intreccio di perle e smeraldi nei capelli sotto il cappellino, cammina nei Giardini di Kensington nel 1861. E’ l’ultima regina sikh del Punjab e il suo nome è Jindan Kaur».
Che bella storia! Non ne avevo mai sentito parlare. Aveva un nome adatto – Jindan Kaur significa colei che ha vissuto, che vive. Grazie.