Un’altra economia per un’altra Europa
Il modello su cui sono state costruite le politiche economiche dell’Unione europea va archiviato. E il paradigma dell’Unione monetaria è iniquo e insostenibile. Alla vigilia delle elezioni del 26 maggio, il Rapporto Euromemorandum 2019 indica le alternative per rifondare l’Europa.
di Giulio Marcon (*)
Alcune settimane fa gli economisti europei di EuroMemo-European Economists for an Alternative Economic Policy in Europe hanno pubblicato il Rapporto EuroMemorandum 2019. Una politica economica per le classi popolari.
Curato in traduzione italiana da Sbilanciamoci! e scaricabile in formato e-book qui, il Rapporto è pubblicato anche in appendice del volume Europa. La posta in gioco, appena edito da manifestolibri (a cura di Simona Bonsignori e Marco Gremigno, introduzione di Luciana Castellina). Ne parleremo il prossimo 23 maggio a Roma, presso la sede della FILT-CGIL (Piazza Vittorio Emanuele II 113) dalle 17.00 alle 19.00 (qui i dettagli dell’iniziativa).
Come ogni anno il gruppo di EuroMemo fa il punto sullo stato di salute dell’Europa, tratteggia la diagnosi delle sue politiche economiche (sbagliate) e disegna uno scenario diverso, fatto di alternative di politica economica e sociale per un’Europa radicalmente diversa.
Alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo del prossimo 26 maggio, riportare la discussione sul merito del futuro dell’Unione europea e dell’Unione monetaria è assolutamente fondamentale. Il modello su cui si sono costruite le recenti politiche economiche dell’Unione europea deve essere largamente rivisto. Il paradigma dell’Unione monetaria si è dimostrato profondamente insostenibile.
Sono cresciute le divergenze regionali, è aumentata l’instabilità economica di molti Paesi, è peggiorata o al massimo rimasta inalterata la condizione sociale delle fasce più povere della popolazione e sono cresciute le diseguaglianze.
Si è evocata (e praticata) in questi anni la necessità di “riforme strutturali”, che in realtà hanno significato politiche di austerità, privatizzazioni selvagge, riduzione dell’intervento pubblico e precarizzazione del mercato del lavoro. Si tratta di “riforme” che stanno trasformando l’Europa secondo le più tradizionali logiche del modello neoliberista.
Gli economisti di EuroMemo ci ricordano le possibili alternative. Invece dell’equilibrio di bilancio serve un’economia equilibrata; invece delle politiche di austerità, una politica espansiva; invece del predominio del mercato, la rivalutazione dell’intervento pubblico; invece di un’Europa à la carte, politiche economiche e fiscali comuni. Per fare tutto questo servono una consapevolezza diversa, un cambiamento sotanziale dei Trattati e una democratizzazione radicale della struttura europea.
Dalle elezioni del 26 maggio speriamo possa esserci una spinta in questa direzione. Nazionalismi e populismi non fanno che perpetuare il modello neoliberista e la centralità del mercato, dell’interesse privato. E poiché non esiste nessun “piano B”, solo da un rinnovato impegno – a livello sociale, politico, associativo, culturale – delle forze democratiche, ambientaliste e progressiste può rinascere la speranza di un’Europa sociale e dei popoli.
Fonte: Sbilanciamoci
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Il rapporto EuroMemorandum 2019 è on line
Una politica economica per classi popolari in Europa”. È questo il titolo del volume realizzato anche quest’anno dal Gruppo EuroMemo. Alla vigilia delle elezioni europee del 26 maggio, pubblichiamo la traduzione italiana del testo curata da Sbilanciamoci! scaricabile gratuitamente.
“Una politica economica per classi popolari in Europa” è il titolo del Rapporto Euromemorandum 2019, redatto dal gruppo di economisti di EuroMemo – European Economists for an Alternative Economic Policy in Europe e tradotto, come ogni anno, da Sbilanciamoci!. Alla vigilia delle elezioni europee del 26 maggio, ci pare fondamentale affrontare con decisione i nodi della crisi – economica, politica, sociale – europea. E discutere le possibili vie d’uscita. Di seguito pubblichiamo il testo dell’introduzione del Rapporto 2019, che può essere integralmente scaricato qui
Nel 2018, per il secondo anno consecutivo, tutte le economie della UE hanno registrato una crescita. Tuttavia, questo trend si indebolirà nel corso del 2019, a fronte di tensioni politiche, sociali ed economiche di vasta portata all’interno dell’Unione e all’incertezza dello scenario internazionale.
Le due maggiori economie del mondo si trovano entrambe ad affrontare sfide che avranno effetti rilevanti a livello globale. La crescita sostenuta degli USA nel 2018 è stata alimentata dai tagli fiscali del governo Trump, ma l’impatto di questi tagli dovrebbe diminuire già a partire dal 2019. L’espansione statunitense, iniziata a metà 2009, appare insolitamente lunga e vi sono segnali che potrebbe volgere al termine – la redditività e gli investimenti sembrano aver raggiunto il picco e il mercato azionario è, in base agli standard storici, fortemente sopravvalutato. Nel frattempo, in Cina, dove la crescita economica annuale è stata attorno al 10% per molti anni, le autorità hanno cercato di stabilire un regime più sostenibile, mentre il tasso ufficiale di crescita nel 2018 è stato di circa il 6,5%. Ciononostante, a causa dell’enorme spesa del governo per contrastare l’impatto della recessione internazionale e dell’altissimo debito accumulato da imprese e famiglie prima e dopo la crisi, l’indebitamento complessivo rimane pericolosamente alto.
Uno degli elementi chiave della politica economica del governo Trump è stato un approccio aggressivo nei confronti dei principali partner commerciali volto alla riduzione in ambito bilaterale dei deficit commerciali statunitensi. Dopo molte turbolenze, nel 2018 gli Stati Uniti hanno optato per cambiamenti relativamente modesti nei trattati commerciali con il Canada e il Messico; hanno anche rinunciato ai minacciati aumenti delle tariffe sulle automobili importate dalla UE, sebbene le recenti tariffe sull’acciaio e sull’alluminio restino in vigore e la lobby agricola continui a spingere per un più ampio accesso ai mercati europei.
Nei confronti della Cina, tuttavia, gli Stati Uniti perseguono una politica commerciale molto più decisa. Sia negli ambienti repubblicani che in quelli democratici la Cina è vista come un concorrente strategico e il governo Trump chiede un profondo cambiamento nella strategia di intervento statale cinese. Come primo passo, gli USA hanno imposto dazi del 10% su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi e minacciato una rapida estensione e il rafforzamento dei dazi. Allo stesso tempo, il Pentagono ha espresso preoccupazione per la dipendenza degli USA dalle importazioni di prodotti ad alta tecnologia e sta spingendo per un maggiore approvvigionamento interno. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, la possibilità che il conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina si inasprisca ulteriormente è una delle ombre più pesanti che grava sull’economia mondiale.
L’Unione Europea ha espresso anch’essa preoccupazione in merito ai rapporti commerciali con la Cina, ma in altre aree vi sono segni di tensione con gli Stati Uniti. Nel 2015 gli USA, insieme alla Russia e a diversi governi europei, hanno raggiunto un accordo con l’Iran che ha impegnato quest’ultimo a utilizzare l’arricchimento e la ricerca nucleare esclusivamente a scopi pacifici. Dopo che Trump nel 2018 ha annunciato che gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dall’accordo, insistendo che anche gli altri firmatari facessero lo stesso, la UE ha cercato di mantenere accordi commerciali profittevoli con l’Iran, istituendo un canale di finanziamento che aggirasse le banche USA. Tuttavia, Swift, il principale sistema internazionale di telecomunicazioni finanziarie tra le banche, con sede in Belgio, ha ceduto alle richieste americane e il lancio di un nuovo canale di pagamenti europeo è stato ritardato a causa del timore, da parte dei potenziali nuovi utenti, di una dura reazione statunitense.
La Politica di sicurezza e di difesa comune della UE (CSDP-Common Security and Defence Policy) rappresenta un altro settore di potenziale conflitto con gli USA. Il tentativo di rafforzare la capacità militare comune dell’Unione è stato lanciato nel 2016 e, secondo il presidente della Commissione Europea (CE) Jean- Claude Juncker, dovrebbe compiersi entro il 2024. La tesi secondo cui la UE sta tentando, con ciò, di guadagnare maggiore autonomia dalla NATO a guida USA è stata minimizzata da Juncker. Nel giugno 2018, su iniziativa del presidente francese Emmanuel Macron, nove paesi UE hanno accettato di formare una Forza militare d’intervento europeo. Le preoccupazioni sul rapporto tra questa e la NATO sono state messe da parte dal segretario generale NATO Jens Stoltenberg, il quale ha dichiarato di aver accolto favorevolmente l’iniziativa. Formalmente, il nuovo comando è estraneo alle strutture UE, la qual cosa permetterà alla Gran Bretagna di partecipare a prescindere dal suo abbandono dell’Unione.
Il Regno Unito dovrebbe, infatti, abbandonare la UE nella primavera 2019. Tuttavia, il partito conservatore al governo è profondamente diviso al suo interno ed è apparso in estremo ritardo nella presentazione di proposte concrete sulle modalità di uscita, cercando di evitare fino all’ultimo le questioni più spinose, in particolare quella che riguarda lo status dell’Irlanda del Nord. Malgrado l’insorgere di una grave crisi costituzionale in Gran Bretagna, tuttavia, al momento lo scenario più probabile è che alla fine la Gran Bretagna si barcamenerà in uno status di associato che, se da un lato la vincolerà al rispetto delle regole dell’Unione e alla contribuzione al bilancio comunitario, dall’altro la spoglierà della sua capacità di promuovere in Europa quelle politiche neoliberiste di cui pure si è fatta alfiere sin dagli anni 80.
Divergenze in aumento
Nell’Eurozona gli sviluppi economici successivi alla crisi sono stati caratterizzati da una crescente divergenza in termini di produttività tra i paesi del Nord e quelli del Sud, con la Francia in posizione intermedia. Anche la perfetta macchina industriale della Germania si trova di fronte alla sfida di adattarsi ai cambiamenti dei modelli di trasporto e la sua eccessiva dipendenza dalle esportazioni la rende vulnerabile rispetto a possibili rivolgimenti dell’economia globale. Tuttavia, è nei paesi del Sud Europa che le sfide economiche e sociali sono più drammatiche.
Le persistenti divergenze sul ruolo dello stato nella politica macroeconomica sono state portate alla luce dal nuovo governo eletto in Italia. Per quasi due decenni non c’è stata praticamente crescita economica in Italia e la disoccupazione è profondamente radicata, specialmente nel Sud e tra i giovani. Dopo le elezioni del 2018 un’improbabile coalizione di governo di destra e populisti, formata dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, ha ventilato una politica economica più espansiva, ma il secco no delle autorità comunitarie ha imposto di ridurre la portata delle proposte iniziali. Anche in Spagna il governo di minoranza dei socialisti ha proposto un piano economico espansivo, pur se più contenuto. Al momento, comunque, non sembra esserci alcuna mossa concertata dei paesi del Sud per rompere la morsa soffocante delle politiche monetariste che continuano a dominare la governance economica nell’Eurozona.
Nel frattempo, le proposte per rafforzare il sistema bancario dell’area euro hanno fatto solo modesti passi avanti. La preoccupazione per l’eccessiva frammentazione della vigilanza delle banche in Europa ha portato al varo di un meccanismo di vigilanza comunitario nel 2014 e le maggiori banche sono ora direttamente controllate dalla Banca Centrale Europea (BCE). Inoltre, è stata istituita una procedura europea per la liquidazione delle banche fallite. Ma una proposta decisiva per creare un sistema europeo di assicurazione dei depositi è stata respinta, in primis dalla Germania. Più in generale, rispetto a quanto avvenuto negli Stati Uniti, sono stati adottati provvedimenti limitati per rafforzare i bilanci delle banche dopo la crisi e vi sono diffusi dubbi sulla posizione di un certo numero di banche chiave, in particolare in Italia e Germania.
I livelli prolungati di alta disoccupazione in alcuni paesi, insieme alla crescente prevalenza di posti di lavoro a basso salario e di percorsi occupazionali precari, hanno contribuito ad aumentare il malcontento sociale in molti stati dell’Unione. Ciò è stato accompagnato da un crescente sostegno ai partiti nazionalisti di destra in un certo numero di paesi, molti dei quali sono ostili alla moneta unica e persino alla stessa UE. Gli sviluppi in Italia potrebbero rappresentare una sfida decisiva per la governance dell’Eurozona. Tuttavia, gli interessi di vasti settori del capitale sono così strettamente collegati all’euro (e qualsiasi tentativo di uscita dall’euro provocherebbe una tale tempesta finanziaria) che è improbabile che la sopravvivenza della moneta unica sia realmente messa in discussione.
Nella maggior parte dell’Europa, i movimenti progressisti sono in una posizione debole. I sindacati sono stati marginalizzati e i partiti socialdemocratici tradizionali hanno perso sostegno a causa della loro complicità nel promuovere politiche neoliberiste. Sfide più radicali hanno subìto una grave sconfitta, in particolare nel caso della Grecia. Iniziative più modeste si sono affermate in Portogallo, dove il partito socialista governa con l’appoggio del Blocco di sinistra e del Partito comunista, mentre in Spagna il governo di minoranza del Partito socialista ha tentato di superare le severe politiche di austerità con il sostegno parlamentare di Podemos.
Sullo sfondo del crescente consenso guadagnato dalle forze di destra nazionaliste e populiste, questo EuroMemorandum mira, come negli anni precedenti, a contribuire allo sviluppo di una politica economica progressista per l’Europa. Oggi più che mai è necessario ricostruire un progetto di integrazione politica rispondente sia ai bisogni economici e sociali della grande maggioranza delle persone che ai bisogni ecologici del pianeta. In particolare, è necessario affrontare le domande di coloro che hanno subìto l’impatto negativo della lunga crisi iniziata nel 2007-08: i lavoratori sempre più sfruttati, i precari sempre più numerosi, i disoccupati, i migranti e gli altri gruppi vulnerabili. È in questo senso che vogliamo un’economia politica progressista per l’Europa, meglio dettagliata nei prossimi capitoli.
Fonte: Sbilanciamoci