Un’intervista ad Arundhati Roy

Arundhati Roy: «Forse non abbiamo bisogno di pace in questa società ingiusta; abbiamo bisogno di persone che siano preparate a resistere».

ANJALI KAMAT: All’inizio del mese, quando Fobes ha pubblicato la lista annuale dei miliardari del mondo, la stampa indiana riportava con piacere che due dei suoi connazionali ce l’avevano fatta a rientrare nell’ambita lista dei dieci uomini più ricchi del mondo. Nel frattempo, migliaia di truppe paramilitari e agenti di polizia indiani stanno combattendo una guerra contro alcuni dei suoi abitanti più poveri che vivono sperduti nella cosiddetta cintura tribale del Paese. I funzionari indiani affermano che più di un terzo del Paese, perlopiù la zona forestale ricca di minerali, è in parte o del tutto sotto il controllo dei ribelli maoisti, noti anche come Naxaliti. Il primo ministro indiano ha definito i maoisti come «la più grave minaccia alla sicurezza interna del Paese». Secondo stime ufficiali, sono morte circa 6000 persone negli ultimi sette anni di combattimenti, più della metà civili. La nuova offensiva paramilitare governativa contro i maoisti è stata soprannominata Operazione “Caccia Verde”.

All’inizio del mese, il leader dell’insurrezione maoista, Koteswar Rao, o Kishenji, ha invitato Arundhati Roy -la romanziera vincitrice del Booker Prize – a mediare nei colloqui di pace con il governo. Poco dopo, il ministro degli Interni, G. K. Pillai, ha mosso critiche contro la Roy e tutti quelli che hanno definito pubblicamente la violenza di Stato contro i maoisti«genocidio».

G.K.PILLAI: Se i maoisti sono assassini, vi prego di chiamarli assassini. Come mai se i maoisti hanno ucciso l’anno scorso, da giugno a dicembre, 159 civili innocenti nel distretto di Midnapore Ovest, non ho sentito alcuna critica al riguardo? Perché quello dei maoisti non è genocidio?

AMY GOODMAN: Arundhati Roy ha avuto un insolito incontro giornalistico con i guerriglieri armati nelle foreste dell’India centrale. Ha trascorso alcune settimane addentrandosi con l’insurrezione a fondo nella roccaforte maoista indiana e ha scritto della loro lotta in un saggio di 20.000 parole pubblicato questo fine settimana sulla rivista indiana Outlook. Si chiama Walking with the Comrades (nota 1).

Siamo stati raggiunti qui a New York da Arundhati Roy, autrice di fama mondiale e attivista per la giustizia globale. Ha vinto il Lannan Foundation Cultural Freedom Prize nel 2002 ed è autrice di numerosi libri, incluso il romanzo vincitore del Booker Prize Il Dio delle piccole cose. La sua ultima raccolta di saggi, pubblicata dalla Haymarket, è Fields Notes on Democracy: Listening to Grasshoppers(nota 2).

Arundhati Roy, benvenuta a Democracy Now.

AMY GOODMAN: Prima di addentrarci nell’interessantissimo viaggio che hai intrapreso, notiamo che questa intervista coincide con il settimo anniversario dell’invasione statunitense in Irak. Sei stata estremamente esplicita sulla guerra e hai continuato ad esserlo. Ricordo di averti visto alla Riverside Church con il grande Howard Zinn, mentre facevi un discorso contro la guerra. Qual è la tua opinione dopo sette anni? E come ha influenzato il tuo continente, come ha influenzato l’India?

ARUNDHATI ROY: Penso che la cosa più triste sia quando ci sono state le elezioni americane ed eravate tutti influenzati dalla retorica che il suo sarebbe stato un cambiamento in cui poter credere; anche il più cinico di noi guardando Obama vincere le elezioni si sentivacommuovere, guardando quanto la gente fosse felice, soprattutto quelli che avevano partecipato al movimento per i diritti civili e così via. In realtà quello che è successo è che è andato al potere e ha esteso la guerra. Ha vinto il Premio Nobel per la pace e ha colto l’opportunità per giustificare la guerra. È stato come se con le lacrime degli afroamericani che osservano un uomo di colore andare al potere avessero fatto un taglia e incolla sugli occhi dell’élite del mondo per giustificare la guerra.

Dal mio punto di vista è probabile che neanche il governo Usa capisca cosa stia facendo. Non capiscono su che tipo di terreno si trovano. Quando dicono «Dobbiamo annientare i talebani», cosa significa? I talebani non sono un numero preciso di persone. I talebani sono una ideologia nata dalla storia, una storia comunque creata dall’America.

In Irak la guerra continua. L’Afghanistan naturalmente è in rivolta. Questa si è riversata in Pakistan, e dal Pakistan in Kashmir e in India. Quindi stiamo assistendo a una superpotenza che affonda nelle sabbie mobili a causa dell’incapacità concettuale di capire cosa sta facendo, in che modo liberarsi o rimanerci dentro. Gli Stati Uniti saranno di sicuro trascinati nella polvere da questo processo. Ecco, penso sia un vero peccato nel senso che, almeno la stupidità di George Bush era palese in maniera oscena, mentre nel caso di Obama assistiamo a un teatrino di fumo e specchi, e la gente trova più difficile decifrare quello che sta succedendo. E, difatti, la guerra si è estesa.

ANJALI KAMAT: Arundhati, come spiegheresti il ruolo dell’India nella guerra di espansione statunitense in Afghanistan e Pakistan? E’ un clima di ottimi rapporti fra l’India e gli Stati Uniti.

ARUNDHATI ROY: Il ruolo dell’India in questo momento è cercare di presentarsi, come continua a ribadire, come alleato naturale di Israele e degli Stati Uniti. E l’India sta tentando con difficoltà di destreggiarsi fino ad arrivare a una posizione di influenza in Afghanistan. Personalmente credo che il governo americano sarebbe molto contento di vedere le truppe indiane in Afghanistan. Non si può fare apertamente in quanto si creerebbe un’esplosione, quindi ci sono vari modi in cui stanno tentando di creare una sfera di influenza laggiù. Così il governo indiano si trova nel cuore del grande gioco e ovviamente il risultato consiste negli attacchi nel Kashmir e a Mumbai, che non sono collegati direttamente all’Afghanistan, ma naturalmente esiste tutta una storia di queste continue manovre.

AMY GOODMAN: Per il pubblico americano, e forse per un pubblico che non appartiene a quella regione del mondo, ci potresti parlare di una zona sulla quale ti sei concentrata molto, cioè il Kashmir. La maggior parte della gente qui la conosce per i maglioni. È questo quello a cui pensano quando sentono “kashmir”.

ARUNDHATI ROY: mm… hmm.

AMY GOODMAN: Quindi, partendo da questo presupposto, raccontaci cosa sta succedendo laggiù – collocacelo anche geograficamente.

ARUNDHATI ROY: Il Kashmir, come dicono in India, costituisce la faccenda in sospeso nella divisione dell’India e del Pakistan. Dunque, come al solito, fu un regalo del colonialismo britannico. Ce lo diedero quando se la filarono – voglio dire, quando si ritirarono. Allora il Kashmir era un regno indipendente a maggioranza musulmana su cui però regnava un sovrano induista. All’epoca della divisione nel 1947 quasi un milione di persone perse la vita, in quanto la linea tracciata fra India e Pakistan attraversava villaggi e comunità: mentre gli induisti fuggivano dal Pakistan e i musulmani fuggivano dall’India, ci furono massacri su entrambi i fronti.

In quel periodo, stranamente, il Kashmir era pacifico. Ma poi, quando a tutti i principati indipendenti in India e Pakistan venne chiesto di annettersi o all’India o al Pakistan, per il Kashmir accadde che il re era indeciso e quella indecisione ebbe come conseguenza che entrarono nel Paese truppe pakistane e combattenti non ufficiali. Il re fuggì in Jamu e poi decise di annettersi all’India. C’era già un movimento per la democrazia all’interno del Kashmir in quel periodo. Comunque, la storia è questa.

In seguito, c’è sempre stata lotta per l’indipendenza o l’auto-determinazione, che nel 1989 è diventata un’insurrezione armata ed è stata sedata militarmente dall’India. Oggi, il modo più semplice per spiegare la portata di quello che sta succedendo è che gli Stati Uniti hanno 165.000 soldati in Iraq, ma il governo indiano ha 700.000 soldati nella Valle del Kashmir – voglio dire che tengono a bada un Paese con la potenza militare. Quindi si tratta di occupazione militare.

AMY GOODMAN: Interrompiamo e poi ritorniamo ai tuoi viaggi in Kashmir, Arundhati Roy, premiata scrittrice indiana, rinomata attivista per la giustizia globale.

[pausa, musica]

AMY GOODMAN: […]  Questa è Democracy Now!, il bollettino di guerra e di pace. Io sono Amy Goodman, con Anjali Kamat. La nostra ospite per la prossima ora è Arundhati Roy, premiata scrittrice indiana, rinomata attivista per la giustizia globale. Il suo ultimo libro, Quando arrivano le cavallette(nota 3).

ANJALI KAMAT: […] Arundhati Roy che sta succedendo nelle foreste dell’India? Cos’è questa guerra che l’India ha intrapreso contro i più poveri, persone note come popolazioni tribali, popolo indigeno, Adivasi? Chi sono i maoisti? Cosa sta succedendo laggiù? E come ci sei arrivata?

ARUNDHATI ROY: Continua da un bel po’ ma esiste una connessione. Se osservate l’Afghanistan, il Waziristan, gli Stati a nord-est dell’India e tutta questa cintura mineraria che va dal Bengala Occidentale al Jharkhand all’Orissa al Chhattisgarh, quella che viene chiamata il Corridoio Rosso in India, è interessante che su tutto questo territorio vi sia un’insurrezione tribale. In Afghanistan, ovviamente, ha assunto la forma di un’insurrezione islamica radicale. Qui è un’insurrezione della sinistra radicale. Ma l’attacco è lo stesso. È un attacco delle società multinazionali nei confronti di questa gente. La resistenza ha assunto diverse forme.

Osservando una mappa dell’ India, questo Corridoio Rosso, vi rendete conto che la popolazione tribale, le foreste, i minerali e i maoisti sono tutti accatastati gli uni sugli altri. Negli ultimi cinque anni, i governi di questi vari stati hanno firmato i Mou, cioè pre-contratti, con società minerarie per un valore di miliardi di dollari.

ANJALI KAMAT: I memoranda d’intesa.

ARUNDHATI ROY: I memoranda d’intesa. Dalle nostre parti, è quasi un gioco di parole, il corridoio mouista equivale al corridoio maoista (nota 4). E’ interessante che molti di questi Mou siano stati firmati nel 2005. In quel periodo, subito dopo l’elezione del Congress Party, il primo ministro Manmohan Singh, annunciò che i maoisti «sono la più grande minaccia alla sicurezza interna». Era molto strano che avesse detto una cosa del genere, in quanto i maoisti erano stati decimati nello Stato di Andhra Pradesh. Penso che ne avessero uccisi qualcosa come 1.600. Ma nel momento in cui lo dice, i titoli azionari nelle società minerarie salgono: questo è ovviamente un segnale che il governo è preparato a fare qualcosa, dà il via all’assalto che si trasforma poi nell’Operazione Caccia Verde, verso cui adesso stanno confluendo decine di migliaia di truppe paramilitari che si dirigono verso le zone tribali.

Prima dell’Operazione Caccia Verde, hanno tentato un’altra cosa, cioè il governo ha armato una sorta di milizia tribale appoggiata dalla polizia nello Stato del Chhattisgarh (in cui ero stata di recente) nella foresta. Questa milizia bruciò villaggio dopo villaggio, qualcosa come 640 villaggi, più o meno, vennero sgombrati. Il piano era noto come accampamento strategico, che gli americani provarono in Vietnam, ideato per la prima volta dagli inglesi in Malaya. Tale strategia prevede di obbligare la gente a spostarsi in accampamenti fuori mano sorvegliati dalla polizia in modo da poterla controllare, e i villaggi vengono sgombrati in modo che le foreste vengano aperte a diverse società multinazionali.

Quel che è accaduto in realtà è che in questa zona, in Chhattisgarh, su 350.000 persone 50.000 si spostarono negli accampamenti, alcuni obbligati, altri spontaneamente. Il resto invece sfuggì al controllo del governo. Molti andarono in altri Stati per lavorare come manodopera immigrata, molti altri continuarono a nascondersi nelle foreste, impossibilitati a fare ritorno nelle loro case, ma non volevano andarsene. Il fatto è che in tutta questa zona, i maoisti ci sono da trent’anni, lavorano con la gente. Quindi non è una resistenza nata contro l’industria mineraria. È nata molto tempo prima. È molto radicata. E l’Operazione Caccia Verde è nata perché questa prima strategia della milizia militare, chiamata Salwa Judum, ha fallito, in quanto ci sono questi Mou con le società multinazionali che aspettano. E le società di estrazione mineraria non sono abituate ad aspettare. Ecco, c’è molto denaro in sospeso.

Voglio dire che noi non usiamo la parola “genocidio” con leggerezza e retorica. Io sono stata in questa zona, quello che si vede è la gente più povera di questo Paese, che è stata esclusa dalla sfera dello Stato. Non ci sono ospedali. Non ci sono cliniche. Non c’è istruzione. Non c’è nulla, sapete? E ora, c’è una specie di assedio, per cui la gente non può uscire dai propri villaggi per andare a comprare qualcosa al mercato, perché i mercati sono pieni di informatori che indicano chi fa parte della resistenza e così via. Non ci sono dottori. Non c’è assistenza medica. La gente soffre di fame, malnutrizione. Non si tratta solo della gente che viene uccisa. Non si tratta solo di uscire a bruciare e a uccidere, si tratta anche di mettere sotto assedio una popolazione molto vulnerabile, tagliandola fuori dalle proprie risorse e mettendola sotto grave minaccia. Questa è democrazia – come si fa a sgombrare il terreno per le società multinazionali nella democrazia? Non si può andare a uccidere la gente apertamente, ma bisogna creare una situazione in cui o devono andarsene via o morire di fame.

ANJALI KAMAT: Nel tuo saggio descrivi la gente con cui hai viaggiato, i guerriglieri armati, come gandhiani con le pistole. Puoi spiegarci cosa significa e cosa pensi della violenza perpetrata dai maoisti?

ARUNDHATI ROY: Questo è un dibattito scottante in India – anche la sinistra benpensante e gli intellettuali liberali sono molto, molto diffidenti verso i maoisti. E tutti dovrebbero essere diffidenti verso i maoisti perché essi hanno avuto un passato molto, molto difficile, e molte cose che i loro ideologi dicono ti fanno venire i brividi lungo la schiena.

Ma quando arrivai lì, devo dire, rimasi scioccata da quello che vidi, perché credo che negli ultimi trent’anni qualcosa sia cambiato in loro radicalmente. L’unica cosa è che in India, la gente prova a fare la differenza. Dicono che i maoisti e le popolazioni tribali siano due cose diverse. In realtà, i maoisti e le popolazioni tribali sono la stessa cosa, e queste popolazioni stesse hanno avuto una storia di resistenza e ribellione che precede Mao di secoli, sapete? Per cui, penso che sia solo un nome, in un certo senso. È solo un nome. Eppure, senza quell’organizzazione, il popolo tribale non avrebbe potuto mettere su questa resistenza. Ecco, è complicato.

Ma quando mi sono unita a loro, ho vissuto con loro, ho camminato a lungo con loro, è un esercito più gandhiano di chi si dichiara gandhiano, che lascia un’impronta più lieve di qualsiasi evangelista del cambiamento climatico. Come ho detto, anche le loro tecniche di sabotaggio sono gandhiane. Non sprecano niente. Vivono di niente. Nel mondo là fuori innanzitutto i media hanno sempre mentito. Ho potuto capire che molti episodi di violenza non sono mai accaduti. Molti sono accaduti, e c’è un motivo per cui sono accaduti.

Si parla di resistenza nonviolenta – io stessa ne ho parlato; io stessa ho detto che se ci fosse stata una lotta armata le donne ne sarebbero state vittime. E quando sono entrata nella foresta dei Naxaliti, ho scoperto che era vero l’opposto. Ho scoperto che il 50 percento dei quadri armati erano donne. E uno dei motivi per cui si univano a loro era che per trent’anni i maoisti avevano lavorato con le donne. L’organizzazione delle donne, 90.000 persone, è probabilmente la più grande organizzazione femminista dell’India, ora tutte queste 90.000 donne sono sicuramente maoiste, e il governo si è concesso il diritto di sparare a vista. Quindi spareranno contro queste 90.000 persone?

AMY GOODMAN: Arudhati Roy, il leader dei maoisti ti ha chiesto di fare da negoziatrice, da mediatrice fra loro e il governo indiano. Qual è la tua risposta?

ARUNDHATI ROY: Guarda, non sarei una buona mediatrice. Non sono queste le mie capacità. Penso che qualcuno dovrebbe farlo, ma non penso che dovrei essere io, perché non ho la più pallida idea di come fare a mediare, sapete? Penso che non dovremmo intrometterci in cose che non conosciamo bene. […] Non so perché abbiano fatto il mio nome, ma penso ci siano persone in India che hanno queste capacità e potrebbero farlo, perché è molto, molto urgente che l’Operazione Caccia Verde venga sospesa. Molto, molto urgente. Ma sarebbe da stupidi che la intraprendesse qualcuno come me, perché penso di essere troppo impaziente. Sono una specie di cane sciolto. Ecco, non ho quelle capacità.

AMY GOODMAN: Ricordo, di ritorno in Kashmir, quando Obama era in lizza per la presidenza, in un’intervista parlava del Kashmir come di una specie di punto critico, diceva che dobbiamo risolvere la situazione fra l’India e il Pakistan riguardo al Kashmir in modo che il Pakistan possa concentrarsi sui militanti islamici. Puoi spiegare perché secondo te è un punto critico e cosa pensi che si debba fare laggiù?

ARUNDHATI ROY: Purtroppo la questione del Kashmir è che l’India e il Pakistan si comportano come se il Kashmir fosse un problema. Per entrambi in realtà, il Kashmir è una soluzione. Il Kashmir è il luogo in cui conducono i loro sporchi giochi. E non vogliono risolverlo perché ogni volta che hanno problemi interni, possono sempre tirare fuori questo coniglio dal cappello. Quindi penso proprio che questi due Paesi non lo risolveranno.

Quello che sta succedendo è che una popolazione di gente soffre di una miseria indescrivibile da moltissimi anni, e ancora una volta sono state dette tantissime bugie al riguardo. I media indiani e le falsità che dicono riguardo il Kashmir sono incredibili. Due anni fa, ci fu una massiccia insurrezione nel Kashmir. Mi capitò di trovarmi lì in quel momento. Non ho mai visto niente del genere. C’erano milioni di persone in strada per tutto il tempo.

AMY GOODMAN: E per cosa si ribellavano?

ARUNDHATI ROY: Si stavano ribellando per l’indipendenza. E poi, a detta dei media, avevano sbagliato quando erano insorti con le armi. Ma quando insorgevano senza armi, anche quello era sbagliato.

Il modo in cui la rivolta venne sedata fu attraverso le elezioni. E tutti rimasero scioccati perché ci fu un’enorme affluenza alle elezioni. E fra tutta la moltitudine di esperti di elezioni in India, ne abbiamo moltissimi, che trascorsero tutto il tempo negli studi televisivi analizzando il cambiamento e questo e quello, non se ne trovò uno che dicesse che tutti i leader della resistenza erano stati arrestati. Nessuno si chiese: cosa significa andare alle elezioni quando ci sono 700.000 soldati che vigilano ogni cinque metri, per tutto il tempo, tutto l’anno? Quando hai una baionetta in mano non è difficile spingere la gente verso la cabina elettorale, sapete? Nessuno parlò del fatto che c’era un blocco in ogni distretto elettorale. Nessuno si chiese cosa significasse per quella gente trovarsi sotto una specie di occupazione. […]

Adesso, di nuovo, è iniziata la violenza. È una sorta di ciclo permanente in cui, naturalmente nell’interesse delle manovre geopolitiche, è scomparsa ogni etica morale. Ovviamente è di moda dire che non c’è nessuna morale in ballo nella diplomazia internazionale, ma quando si tratta di assassini maoisti la morale vi ritorna in mente al galoppo. La gente la usa quando fa comodo.

ANJALI KAMAT: Sia in India che negli Stati Uniti – mentre queste guerre si estendono come le occupazioni militari in Kashmir, in Iraq, in Afghanistan – qual è il tuo messaggio agli attivisti contro la guerra, agli attivisti per la pace nel mondo, qui e in India? Cosa pensi debba fare la gente?

ARUNDHATI ROY: Voglio dire solo una cosa ancora, ossia che in Kashmir ci sono 700.000 soldati che sono stati trasformati in una forza di polizia amministrativa. In India, dove non vogliono dichiarare apertamente guerra contro gli Adivasi, c’è la polizia paramilitare che viene addestrata per diventare un esercito. Per fare accettare questo tasso di crescita, c’è fondamentalmente un intero Paese che si sta trasformando in uno Stato di polizia.

E voglio dire solo una cosa sulla democrazia. In India le elezioni costano più di quelle americane. Molto di più. Questo povero Paese costa molto di più. I più entusiasti sono state le grandi imprese. I membri del parlamento, almeno la maggior parte di essi, sono miliardari. Se osservate le statistiche, in realtà questa grande maggioranza ha il dieci percento di voti. La Bbc ha realizzato una campagna in cui si servivano di manifesti di banconote: una banconota da 500 dollari si tramuta in una da 500 rupie indiane con Ben Franklin da un lato e Gandhi dall’altro. E dice, «Kya India ka vote bachayega duniya ka note?», che significa «Il voto indiano salverà il mercato?». Gli elettori diventano consumatori. È una specie di truffa quella che ci stanno propinando.

Il primo messaggio che rivolgerei agli attivisti per la pace è cosa significa “pace”? Forse non abbiamo bisogno di pace in questa società ingiusta, perché è un modo di accettare l’ingiustizia. Ciò di cui abbiamo bisogno sono persone preparate a resistere, non solo per un fine settimana. In Paesi come gli Stati Uniti si dice «marceremo sabato e forse fermeranno la guerra in Irak». Ma in Paesi come l’India, la gente paga davvero con la propria vita, con la propria libertà, con tutto. E’ una resistenza con delle conseguenze. Non può essere qualcosa senza conseguenze. Si deve capire che per poter cambiare qualcosa, ora si deve correre qualche rischio. Si deve uscire allo scoperto e mettere da parte i sogni, perché le cose laggiù hanno preso una brutta piega.

(23 marzo 2010)


Nota 1 – L’opera non è stata tradotta in italiano. La traduzione letterale è “Camminando al fianco dei compagni”.

Nota 2 – Il libro è stato pubblicato in Italia da Guanda con il titolo Quando arrivano le cavallette.

Nota 3Ibidem

Nota 4 – Nella traduzione l’assonanza va persa in quanto i termini inglesi “mouist” e “maoist” sono omofoni, cioè hanno lo stesso suono.


La traduzione dall’inglese è di Anna Cascone (nancy92@inwind.it) e l’ho ripresa, con minimi aggiustamenti, dal numero 39 della rivista Sagarana (www.sagarana.net) che, fra l’altro, nella sezione Saggi ospita un articolo di Eduardo Galeano su Haiti, oltre all’editoriale di Julio Monteiro Martins sulla calda questione degli autori italiani che pubblicano per case editrici che fanno capo ai Berlusconi («Una resa a 5 stelle»). Nella sezione Narrativa, fra l’altro, brani di Thomas Mann, Luigi Meneghello, Erri De Luca e Christopher Isherwood. In Poesia, Ingeborg Bachmann, Alda Merini, Mario Benedetti e molto altro.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • ginodicostanzo

    Post grandioso! Queste cose devono essere portate a conoscenza del maggior numero di persone possibile.
    Grazie infinite

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