Uno strano frutto, un amaro raccolto
Riflessioni sulla pena di morte
di Claudio Giusti (*)
La pena capitale è come la schiavitù: nessuno ha il diritto d’imporla.
La sua scomparsa è garanzia di libertà, uguaglianza e umanità per tutti.
La pena di morte è una violazione della dignità umana, dei diritti all’eguaglianza, alla vita e alla libertà dalla tortura: un territorio dai confini vaghi e incerti che cambiano nel tempo e nello spazio, dove arbitrio e capriccio la fanno da padroni. Privilegio dei poveri è una punizione irreversibile che uccide pazzi e innocenti. Non è deterrente né legittima difesa, non è di conforto alle vittime e brutalizzando la società ne accresce la violenza. La pena di morte è un assassinio rituale, una parodia di giustizia, null’altro che l’imposizione di dolore e sofferenza. Una immorale, indecente, crudele, razzista e classista violazione dei diritti umani.
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La pena capitale è una violazione dei principi di uguaglianza e libertà sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Viola il diritto alla vita, alla dignità e all’immunità dalla tortura e da ogni altra punizione crudele, inumana o degradante. Il rispetto di questi diritti è un chiaro obbligo per tutti i paesi del mondo e non v’è situazione in cui possano essere ignorati. Codesti diritti non dipendono dalla bontà d’animo dei governanti o dai capricci di una maggioranza: sono diritti di cui tutti devono godere in ogni momento e in qualsiasi luogo: qualcosa che appartiene a ciascun essere umano semplicemente perché egli è tale.
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Nessuno può essere privato del diritto ad avere diritti. La pena di morte, come la schiavitù e la segregazione razziale, viola il diritto all’uguaglianza perché crea un’artificiale categoria di persone cui questo diritto è negato ancor prima di quello alla vita. Una violazione dei diritti umani non può essere amministrata equamente e la pena di morte si accanisce sui deboli e gli indifesi; uccide gli innocenti, i poveri, i pazzi e gli appartenenti alle minoranze. La sua attesa è una tortura che può durare decenni. Non esistono pene sostitutive a quella capitale, come non ve ne sono per la tortura, perché le violazioni dei diritti umani non hanno alternative che non siano la loro scomparsa.
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Lo stato non gode del potere di vita e di morte e la pena di morte è una sua guerra contro l’individuo: un sacrificio umano, un omicidio rituale perpetrato in nome di tutti per rassicurare le paure di alcuni e rafforzare il potere di pochi. Solo gli individui possono, singolarmente o collettivamente, utilizzare la violenza in caso di estrema necessità per rispondere, in modo proporzionato, a una minaccia concreta e attuale ed esclusivamente per salvare vite. Il sistema giudiziario non si trova mai in questa situazione.
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Che sia il prodotto della giustizia del re o del democratico linciaggio, il patibolo non permette esitazioni. Il suo rifiuto non si può limitare a un’accorta selezione dei casi e non consente la scappatoia del bene comune. Al suo cospetto non possiamo restare neutrali.
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L’imposizione della pena capitale è arbitraria come il lancio di una moneta e risente dei pregiudizi della società che la applica, delle necessità del potere, dello status sociale della vittima e dell’assassino; arrivando all’assurdo della differente applicazione da un aula giudiziaria all’altra. Non esiste legame coerente fra il delitto commesso e la pena che si va a scontare. Per delitti simili alcuni sono uccisi mentre altri se la cavano con poco o nulla. Più che amore verso la vittima si mostra un odio molto selettivo nei confronti dell’assassino. Forse Abele è sempre Abele, ma certamente Caino non è sempre Caino
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Due secoli di abolizionismo hanno dimostrato che la pena di morte è priva di qualsiasi utilità e giustificazione. Non è un deterrente e brutalizza la società nel suo insieme. Non è di sollievo alle vittime e produce altro dolore. La storia mostra come non sia possibile tracciare quella sottile linea che divida i delitti passibili di pena di morte da quelli che non lo sono e il concetto di chi “merita di morire” cambia nel tempo e nello spazio. La libera espressione del pensiero, anche religioso, è stata ed è attività estremamente pericolosa.
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L’incarcerazione dell’innocente è un dramma comune a ogni sistema giudiziario, ma il solo sospetto di averlo ucciso è ragione più che sufficiente per giustificare l’abolizionismo. La moratoria delle esecuzioni è un palliativo: significa consegnare i condannati a una schiavitù, in cui la vita non è più un diritto ma una concessione del potere. Le condizioni del braccio della morte sono sovente letali e l’ergastolo, se non illuminato da una speranza di libertà, diventa una ghigliottina secca.
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Non v’è dubbio che la pena capitale abbia antiche radici, ma il fatto che sia stata, come la schiavitù, a lungo accettata e giustificata non vuol dire che lo si debba fare anche oggi. La sua abolizione è l’ammissione dell’umana fragilità e fallibilità, ma da sola non significa necessariamente rispettare completamente i diritti umani. L’abolizione è il riconoscimento della dignità inerente ad ogni essere umano, dei sui diritti eguali e inalienabili e l’applicazione della giustizia nel suo significato più alto. La sua scomparsa è garanzia di libertà, uguaglianza e umanità per tutti.
(*) «A strange fruit, a bitter harvest. Reflections on hangings». Scritto il 10.10.10 da Alessia Bruni, Cristiana Bruni, Claudia Caroli e Claudio Giusti; rivisto il 25 febbraio 2016.