Valentina, Philo e le altre
Due donne, passate per la migrazione e l’esilio, si ripropongono di creare un osservatorio privilegiato sui cambiamenti sociali in Africa e in Europa. Così scrivono: «La considerazione iniziale è il ruolo della letteratura, della poesia, dell’arte come strumento di consapevolezza, voce del dissenso, lotta contro le ingiustizie per la difesa dei diritti civili fondamentali. L’incontro, arricchito di letture dei testi delle due autrici, mira a diffondere l’idea della scrittura, della “PAROLA” come luogo dell’incontro, della scelta, del dialogo e della condivisione». L’idea parte «dalle recenti esperienze delle due autrici in Sudafrica (dove Valentina ha condotto un workshop formativo di scrittura civica con un collettivo di donne migranti e non) e in Norvegia, dove Philo è in esilio e condivide la sua lotta per i diritti umani». L’ obiettivo dell’incontro è «creare un legame fra passato e presente, fra qui e l’altrove, passando attraverso la scrittura transculturale diffondendo idee per una società sostenibile senza barriere».
Presto saranno in Italia. Se vi interessa l’opportunità di ascoltare queste due autrici a confronto potete contattare Valentina Acava Mmaka alla mail: valentinammaka@gmail.com.
Qui sotto le schede biografiche e due brevi testi delle autrici (db)
Chi è Valentina Acava Mmaka
Giornalista e scrittrice, nata a Roma ma cresciuta in Sudafrica durante l’apartheid. Vive la sua esistenza fra il Kenya, il Sudafrica e l’Europa. E’ autrice di libri per bambini in cui promuove i valori del dialogo interculturale Il mondo a colori della famiglia BwanaVal (Kabiliana 2002); Amani. I nomi della pace (EMI 2004); Jabuni: il mistero della città sommersa (EMI 2003); di poesie L’ottava nota (Prospettiva 2002); di testi teatrali Io…donna… immigrata… volere dire scrivere (EMI 2004), di romanzi Cercando Lindiwe (Epoché 2007) e di testimonianze Il viaggio capovolto (Epoché 2010). Attualmente sta lavorando in Sudafrica con un collettivo di donne sulla scrittura civica per promuovere la scrittura come ponte tra immaginari e diritti. Sta portando a termine il suo ultimo romanzo.
www.valentinammaka.net
http://valentinammaka.blogspot.com
da Cercando Lindiwe
di Valentina Acava Mmaka
Quando me ne andai era un giorno caldissimo, io … Lindiwe e Bongani. Ci eravamo imbarcati su una nave, a Durban. BIGLIETTO DI SOLA ANDATA. Destinazione: TRENTATRÉ ANNI DI ESILIO. Mai sentito il nome di questo posto, eppure qualcuno c’era stato già, prima di noi e tanti vennero dopo. Non eravamo i primi e non saremmo certo stati gli ultimi. Sicuro, lo sgombero di Sharpeville aveva rimosso masse intere di uomini e donne, ne aveva fatto marcire le aspettative, le speranze. Sotto le percosse dei manganelli brucianti al contatto con la pelle, sono cadute le nostre case, le nostre scuole, le nostre chiese, sono caduti i nostri uomini giovani e vecchi…. L’età non contava in quel mondo di bianchi intemperanti…..sono caduti i mattoni, le strade, le nostre birrerie clandestine, ma non la nostra fede…. Non le nostre idee. Quella nave significava il nostro NO a un regime la cui aria respiravamo da troppo tempo. Quella fitta in mezzo al petto quando ci siamo voltati a guardare la città che restava immobile, pensavamo che quella nostra partenza era un NO a quella insolita inverosimile fissità.
Sì, le città sono corpi vivi, già dalle prime ore dell’alba sgusciano dai loro carapaci di latta e cemento e si affacciano ad un nuovo giorno, agli occhi dei loro abitanti pieni di frustrazioni, certo… ma anche di speranze e sentimenti con cui accarezzare le ore più buie del giorno…. magari quando i padroni cercano di ferire la dignità.
Quella Durban che ci lasciavamo dietro le spalle era ferma, immobile….nessun segno di vita, come stesse piangendo per quel triste e innaturale commiato di una madre che vede andare via i suoi figli. Le periferie, le nostre township, parevano immobili, loro che invece ai nostri occhi erano sempre state le uniche anime segretamente in movimento, in quel paese immobilizzato dall’impossibilità di essere…
Le nostre township parlavano lingue diverse, e non mi riferisco solo agli idiomi di discendenze tribali secolari, parlavano le lingue delle nostre vite, delle nostre pulsioni, delle nostre emozioni, delle nostre lagrime, lingue diverse a seconda dell’ora del giorno e degli umori del paese. La mattina si parlava un linguaggio pratico, diretto, senza troppe cerimonie, il linguaggio che doveva assicurarci qualche rand sul fondo delle nostre tasche; il pomeriggio erano le voci cantilenanti dei bambini che gonfiavano le mura del quartiere; la sera il registro cambiava e il linguaggio si tingeva di sfumature, in certi casi diventava musica, note canticchiate tra una boccata di fumo e l’altra, qualche vagito sommesso, un accordo di ciopi per una sinfonia improvvisata. Con tutte le sue componenti arrischianti, era il linguaggio che vibrava sotto la nostra pelle e contaminava i nostri corpi, la nostra sensibilità modellando la percezione di una realtà così lontana dal nostro modo di essere, così lontana da ogni minima aspettativa per chi ancora è cosciente del suo essere “uomo”.
Deh qual lamento, e quanto lutto, e quanto su le mie case or cola interminabile pianto. Recita la tragedia greca.
Non eravamo mai saliti a bordo di una nave, non avevamo neppure visto prima di allora il mare. Era Mofala, il nonno, che mi raccontava degli orizzonti infiniti oltre la vastità dell’oceano. Di Cape Point, quando era un ragazzetto e vide dove i due oceani si incontrano e le onde travolgono i pesci unendosi in un amplesso amoroso. A questa immagine ero sempre stata legata fino alla tarda adolescenza, sognavo anche io di vedere il punto di unione di quelle due gigantesche masse d’acqua che sul loro immenso dorso trasportavano i profumi i dolori le ambizioni di uomini di mare, pirati, esploratori audaci, pescatori impavidi… Immagini di ragazza, quando i sogni avevano ancora una loro forma e non erano solo illusioni.
Eravamo appena saliti sulla nave quando una nostalgia senza nome piangeva in silenzio nella nostra anima, voleva la vita.
Scivolano come le acque di un torrente quieto , i versi della mia nostalgia…
Lelhala, Lelhala, Lelhala
Sei tu il canto che abita la mia voce
In esilio dalla mia casa
In esilio dalla mia memoria
In esilio dalla mia lingua
In esilio dal mio corpo
che è diventato solo il grembo di pene più gravi.
Lelhala, Lelhala, Lelhala
Sei tu il canto che nuota nel mio ventre
Quando, seduta sugli scalini davanti al portone,
tengo compagnia alla pioggia
questa pioggia batte un ritmo troppo veloce…
non è come quella di casa,
lenta, abbondante come i nostri cuori
tranquilla mentre danza dentro il ritmo delle gocce
che posano su sentieri ancora vergini.
Qui la pioggia sembra avere fretta ….
Lelhala Lelhala Lelhala
Sei tu il canto che avvolge le mie membra
cullandole nel dolce sopore che
precede la notte quando da lontano
il cuore si acquieta nella rassicurante danza
delle voci bambine nelle strade
che accarezza i nostri sensi rilassati e ci conforta
di un nuovo giorno di speranza.
I ricordi tambureggiano come un mare in tempesta, sulla superficie increspata della mia mente.
Stavamo seppellendo la nostra vita fino ad allora. Stavamo andando incontro ad un nuovo perentorio inizio.
Chi è Philo Ikonya
Poetessa e attivista kenyota. Dal 2009 vive in esilio in Norvegia dove è approdata in seguito a persecuzioni e all’incarcerazione presso le autorità di polizia del Kenia in seguito alla sua battaglia per i diritti civili nel suo Paese. Già presidente del Pen Club Kenya, è oggi ospite del programma per scrittori in esilio dell’ICORN. E’ autrice di poesie e saggi Kenya will you marry me?; This bread of Peace, Out of Prison Love song, Leading the night. E’ un’attiva blogger che sottolinea con intelligenza e fervore l’attenzione sul ruolo dell’Africa al di fuori di essa e sulla percezione che di essa ha l’Europa. Attenta ai recenti cambiamenti sociali in Europa e alla drammatica riapparizione di manifestazioni xenofobe, Philo Ikonya insiste nel voler creare un filo diretto con i suoi interlocutori sollevando, attraverso la poesia, la partecipazione delle nuove generazioni ai processi di liberazione contro ogni forma di oppressione.
http://philoikonya.blogspot.com
Oslo il mio rifugio
di Philo Ikonya
Se non mi avessi dato rifugio
sarebbe stato impossibile
cominciare di nuovo con disinvoltura
come un ragno,
a tirare il filo
per costruire una rete
e tessere un castello,
non importa quanto fragile.
Ho perso l’illusione, vedi
e la cosa più difficile
è ri-cominciare, quella parte della tua anima
che crede di farcela
quella parte che cercano di uccidere,
ma che mai morirà.
Lo so, non c’è alcuna oasi di pace
Dar es- salaam ha avuto una bomba
Nairobi mi ha spezzato la vita dentro
nessuno conosce tutti i segreti di un utero,
lo so, il mondo è in subbuglio
ma la tua carezza mi ha tenuta
protetta nella mia sanità.
Ha tenuto la mia anima viva per me
così che oggi io possa sopportare un altro dolore
Mi ha tenuta viva per tutti
così che io possa celebrare un nuovo anno.
Grazie Daniele!