Verità e tecnocrazia: a un passo da Orwell?
Ho voluto inventarmi questa saga dal titolo “Una settimana nel 1984”, in cui ogni giorno per sette giorni riporto sul mio blog delle Fiabe Atroci un passo del romanzo 1984 di George Orwell, per vari motivi.
Ma non perché credo che siamo finiti nel Grande Fratello, almeno non ancora.
Per esempio l’ho fatto perché è un libro che indica mirabilmente meccanismi del potere e del dominio umani, a prescindere dall’esagerazione romanzata, e a prescindere dal sistema di potere paradossale descritto.
E poi leggere qualcosa di brutto immaginato da un romanziere può essere un modo per prevenirlo nella realtà.
Se come diceva Milan Kundera “l’unica morale del romanzo è la conoscenza”, allora un obbligo morale per chi scrive romanzi dovrebbe essere cercare di portare alla coscienza e alla conoscenza ciò che attraverso altri sistemi di ricerca non può emergere, e questo vale per molti fatti umani, moltissimi, che i romanzi possono descrivere.
Il passo che ho riportato il 25 marzo scorso, non a caso, riguarda la “verità”.
La verità è un tema complesso e drammatico come dovrebbe sapere chiunque abbia un minimo di conoscenza filosofica e/o scientifica.
Scovare e stabilire dei criteri di verità, quelli per cui una cosa si considera vera o non vera, è stato il modo per generare conoscenze incredibili e, all’opposto, instaurare tirannie insopportabili.
Il filosofo francese Michel Foucault, morto nel 1984, ad esempio parlava di “polizia discorsiva” in riferimento alla capacità dei sistemi di potere di stabilire ciò che è dicibile e ciò che non lo è.
Per dire, se un potere riesce a stabilire che un’opinione non può avere accessibilità pubblica, e quindi appunto non può “fare opinione”, in quanto in-dicibile, essa sparisce.
Anche se era vera.
La filosofia e la scienza, per loro stessa natura e origine, non possono (o non potrebbero) avere questo atteggiamento, ma il problema dei criteri di verità che si danno è e rimane un problema aperto e collegato alla cultura dove esse nascono e crescono.
Oggi ad esempio non siamo più nell’Ottocento in cui si credeva che un sistema teorico ben costruito potesse essere lo “specchio” della realtà: questa concezione positivista ed hegeliana è stata smontata da filosofi/e e scienziati/e del Novecento (Nietzsche e Einstein per dirne due, ma sono solo i primi).
Tra i motivi di questo smontaggio ci sono ad esempio:
– la consapevolezza dell’interazione tra soggetto e oggetto dell’osservazione (che può cambiare l’oggetto “osservato”);
– la contestualità di una teoria rispetto al tempo e allo spazio, cioè il fatto ad esempio che la tua certezza rispetto a un un dato potrebbe cambiare totalmente se esso venisse raccolto dall’altra parte del mondo, in un’epoca diversa o con metodi di osservazione sorti da culture diverse dalla tua;
– il problema dei linguaggi specialistici: quello che è vero per la tua materia potrebbe risultare incomprensibile per la mia, se non troviamo un codice comune o almeno una traduzione dei codici che usiamo: il filosofo Husserl, ne “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale” (1936), considerava la settorializzazione dei linguaggi e l’iperspecializzazione due dei più grandi problemi della modernità, perché sopprimevano la visione d’insieme, i contesti, le relazioni tra le cose (e le persone).
La permanenza di questa attitudine “ottocentesca” per me, ma soprattutto per quelle e quelli su cui mi sono formato, sta diventando il più grande fardello della vita odierna: pensare ad esempio che passare dalla “peer review” significhi condizione necessaria e sufficiente per avere accesso alla verità assoluta e definitiva, è un atteggiamento fideistico e antiscientifico, ma molto (troppo) diffuso, e non è una cosa di cui nessuno di noi può rendersi conto facilmente (è solo uno strumento umano, fallibile e anche manipolabile, come tutti i fatti umani, e non sto dicendo che non sia utile o sia sempre fallace e manipolata).
Se il sistema economico-politico utilizza i media per selezionare alcuni esperti di un settore, darli in pasto alla popolazione e farli passare per detentori della verità “oggettiva” e “assoluta” e quindi con la facoltà di impedire, radiare, ridicolizzare, minacciare, seminare odio e rendere impossibile la dicibilità ad altri “esperti” dello stesso settore, ad “esperti” di altri settori, ad esperienze della realtà che non sono possedute da “esperti” ma che contraddicono la presunta “esperienza” di quell’esperto: allora siamo di fronte ad un allarme sociale, oltre che ad un’emergenza politica, filosofica e scientifica.
Alimentare un odio di massa nei confronti di verità diverse è lo strumento per rendere in-dicibili queste verità, e non servono più manganelli e imposizioni dall’alto.
Il sistema di potere che si fonda su questa modalità di distorsione della verità è stato chiamato “tecnocrazia”. Seminare la paura delle fake news, ad esempio, e oscurare così la manipolazione mediatica ossessiva e psicologica quotidiana dei media ufficiali, è uno degli strumenti strettamente attuali della tecnocrazia.
A mio parere – e questa è una mia lettura della realtà, che non è peer-reviewed – la tecnocrazia è in atto da decenni nelle nostre società capitaliste (Estremo Oriente compreso), è il background ideologico della globalizzazione neoliberista, ha avuto una recrudescenza dei metodi dal 2001 in poi, dopo la repressione di Genova e il disastro delle Twin Towers, e in Italia ha fatto un salto di qualità nel 2017, quando cioè è stato “drogato” il dibattito pubblico con l’imposizione del Decreto Lorenzin (poi Legge 119), appiattendolo tra “esperti detentori della verità” e “complottisti inventori di teorie strampalate”, quando invece era necessario un confronto pubblico, multisettoriale e generalizzato, dati ed emergenze sanitarie alla mano, prima di instaurare una legge ineditamente coercitiva che non aveva e non ha precedenti nel dopoguerra occidentale. E’ stato probabilmente un esperimento che ha aperto una strada possibile per altri Stati, ma questa ovviamente è solo un’ipotesi.
L’emergenza per me, adesso, è proprio la verità. Ovvero farla emergere facendola uscire da questa tenaglia normativa.
Ed è un’emergenza in cui sono in gioco la salute, la libertà e la vita, come forse mai ci era successo.
Senza questo passaggio, l’altro mondo possibile, secondo me, non emergerà mai.
ID2020