Via da Magniverne
un racconto di Maurizio Cometto (*)
Claude ci mostra i quattro fiammiferi di legno disposti paralleli sul palmo della mano. Uno è spezzato a metà, c’è solo più la parte con la capocchia. Gli altri tre sono interi.
Si gira, armeggia qualche istante, si volta di nuovo verso di noi. Dal pugno chiuso spuntano le quattro capocchie rosa allineate. Chi sceglie per primo?
Io, Spocchia e Rumore ci guardiamo in faccia.
– Per ordine alfabetico del cognome – dice Rumore.
– Un ordine vale l’altro – dico io.
– Siete proprio dei cacasotto – dice Spocchia, scuotendo la zazzera bionda.
Sceglie subito, con gesto nervoso. Fiammifero intero. Sorride e mi guarda.
Anch’io lo becco intero.
Rumore ha la mano che trema. Ma anche a lui va bene. Fiammifero intero.
Toccherà a Claude andare per primo.
Ripetiamo la stessa operazione con tre fiammiferi, e infine con due. Dopo Claude andrà Rumore, dopo Rumore Spocchia. Io sarò l’ultimo.
– Mi raccomando – dice Claude prima di partire. – Se tra un quarto d’ora non sarò di ritorno…
– Anche il grande Claude si sta cagando addosso, chi l’avrebbe mai detto? – fa Spocchia.
Claude lo squadra dal basso verso l’alto; Spocchia si guarda intorno, facendo l’indifferente. Claude è il più basso di tutti, ma è quello con la testa più grossa, ed è anche il più vecchio. Quest’anno fa già prima superiore.
– Non mi sto cagando addosso. Sapete tutti che è una notte senza luna, l’abbiamo scelta apposta. E lungo il sentiero non ci sono i lampioni come qui.
– In un quarto d’ora hai tempo di andare e tornare tre volte – osserva Rumore, facendo schioccare le nocche.
– Con questo buio potrei inciampare e rompermi un ginocchio.
Claude ha paura degli incidenti e delle malattie, tutto il resto non gli ha mai fatto un baffo.
– Stai tranquillo Claude, controllerò io l’orologio – dico.
Claude mi guarda. Forse sono l’unico di cui si fida. Senza aggiungere più nulla, si volta e imbocca il sentiero.
Per qualche istante vediamo la sua schiena ondeggiare al passo rapido delle corte gambe. Poi non lo vediamo più. Scomparso, inghiottito dal tunnel buio formato dagli alberi.
Controllo l’orologio: le undici e mezza.
– Claude, adesso ce ne andiamo, mi senti? – grida Spocchia, soffocando una risata nervosa.
L’unica risposta è il rumore del Labironte, che scorre parallelo al sentiero.
Io, Rumore e Spocchia ci guardiamo in faccia. Non sappiamo cosa dire. Penso a Claude solo, in quel buio totale, col Labironte che gli scivola di fianco.
– Ma chi ce lo fa fare? – chiedo a un certo punto.
– Puoi anche tornartene a casa, se vuoi. E’ una prova. Vediamo chi riesce a passarla.
– Si, ma perché? Che senso ha?
– Chiedilo a lui. E’ lui che ha avuto l’idea – dice Spocchia, indicando Rumore.
Rumore si schiocca le nocche delle dita. – Avrai mica paura del fantasma di Carlin?
– Non ho paura di un bel niente.
– Si vede che hai paura. In fondo Carlin era un tuo parente. Lo sanno tutti giù in paese.
– Parente alla lontana.
– Parente alla lontana, ma sempre parente.
– Si può sapere cosa c’entra che era mio parente?
Nessuno dei due risponde.
– Voi lo sapete il motivo per cui si è impiccato? – chiede poi Spocchia, per una volta serio.
– Dicono per soldi. Ma che soldi aveva quello lì? Viveva come un barbone.
– Barbone o non barbone, soldi o non soldi, s’è impiccato a quel maledetto palo della luce.
– Credete che il suo fantasma se la prenderà quando ci vedrà passare sotto il palo, raccogliere dal pacchetto la sigaretta segnata e tornare indietro?
– Con noi no, ma con te… Te eri suo parente, cazzo.
Adesso basta, mi hanno stufato. Mi allontano e vado a sedermi sull’erba. Perché discutere con due dementi?
Passano i minuti. Sono ormai sette. Claude non è ancora tornato.
Cosa fai Claude? Ti sei fermato a farti un pisolino, sprezzante della paura? O hai incontrato il fantasma di Carlin, e ti sei messo a chiacchierare con lui?
Spocchia si masturba un ricciolo biondo più ribelle del solito, appoggiato al corrimano del ponte sul Labironte. Rumore continua a schioccarsi le nocche, sempre in piedi all’imbocco del sentiero. Dopo tocca a lui.
– Piantala Rumore per piacere! – grida d’un tratto Spocchia, senza smettere la sua attività.
Rumore smette, e allora sentiamo i passi lontani. La cadenza è tranquilla. Come un uomo che passeggia.
Claude spunta dal sentiero, e tra le dita ha il testimone, una delle quattro sigarette segnate. Sotto il palo della luce, uno di quei pali dalla struttura reticolare, con quattro basamenti, abbiamo nascosto un pacchetto contenente quattro sigarette segnate. Ciascuno di noi ne dovrà recuperare una.
Bravo Claude, ce l’hai fatta.
Claude s’infila la cicca tra le labbra. Sfrega il suo fiammifero su una pietra. Se l’accende.
Tira tre lunghe boccate, come ne avesse veramente bisogno. Poi ci osserva, uno a uno. Non avevo mai visto Claude fumare.
– Com’è stata, Claude? – chiedo.
Claude non risponde. Continua a fumare. Continua a guardarci.
Si sofferma soprattutto su di me.
– Da quando in qua anche Claude si è abbandonato al vizio? – chiede Spocchia.
Claude si fa largo e va al corrimano; vi si siede sopra, ancorandosi coi piedi a uno dei correnti.
Lo guardiamo, un po’ stupiti.
– Forse Carlin gli ha mangiato la lingua.
– Lasciamolo tranquillo, deve solo riprendersi. Dai Rumore, tocca a te.
Rumore è già ai blocchi di partenza. Fa schioccare tre volte le nocche, poi parte deciso. Ha il passo lungo, elastico, ondeggiante.
La classica andatura della checca, anche se non glielo diciamo mai, sennò si offende.
Guardo l’ora: le undici e quaranta.
Vado a sedermi sul corrimano accanto a Claude, mentre Spocchia, solitario, alza il naso e cerca le stelle verso sud.
– Non ti preoccupare, Fabri, è una cazzata – dice Claude d’un tratto.
– Come?
– E’ una cazzata. Però adesso sto meglio. Molto meglio.
– E’ parecchio buio?
– No, pensavo peggio. Ci si orienta facilmente. Vedrai, sarà una cazzata anche per te.
Non dico nulla. Claude tira l’ultima boccata. Si getta il mozzicone alle spalle, nel Labironte.
Si volta e di nuovo mi fissa. Non avevi mai fumato in vita tua, Claude. Perché hai cominciato proprio stasera?
Cinque minuti e arriva Rumore. La camminata non è più da checca. E’ lenta e tranquilla, come quella di Claude.
Tiene già la sigaretta tra le labbra, ovviamente spenta, altrimenti non vale.
– Se ce l’ha fatta Rumore ce la faremo anche noi – dice Spocchia, guardandomi.
Rumore non commenta; si accende la sigaretta.
Claude è appoggiato coi gomiti al corrimano e osserva lo scorrere del Labironte. Non sembra interessato a Rumore. Non gliene frega più niente di noi.
Rumore si fa largo e lo raggiunge. Claude si gira, si guardano in faccia. Rumore aspira una lunga boccata, poi fa il gesto di passare la sigaretta a Claude, che la rifiuta.
– Ehi Rumo, non le fai più schioccare le tue nocche cazzute? – fa Spocchia, nervoso.
Rumore lo guarda, senza rispondere. Non ho mai visto Rumore così calmo e distaccato. Mi ricorda suo padre, non so bene perché.
– Ma che avete voi due? Avete visto Carlin, per caso? Spero che non tagli la lingua anche a me.
– Sarebbe un bene per tutti se te la tagliasse, invece. Ora basta cazzate. Tocca a te.
Spocchia mi guarda facendo spallucce. Poi parte anche lui. Il passo è lungo e spedito, ma non ancheggiante, com’era quello di Rumore.
– Dai Rumo, racconta. Com’è andata?
Rumore fa una smorfia, come per dire: niente di che.
– L’hai visto davvero il fantasma di Carlin?
– Non esistono i fantasmi – interviene Claude, quasi infastidito.
– Eh?
– Non esistono i fantasmi. C’è solo il palo della luce. E sotto il palo c’è il pacchetto di sigarette.
– Ma durante il tragitto cos’avete provato? Ditemi qualcosa. Raccontate, dai.
E’ che dopo tocca a me, e non dico che mi sto cagando addosso, ma ci sono vicino.
Nessuno dei due sembra avere voglia di rispondere.
Appoggiati al corrimano mi guardano, come da un’altra dimensione.
– Vedrai da te stesso – dice alla fine Claude.
Rumore non ha ancora spiccicato parola. In compenso non fa più schioccare le nocche. E’ diventato silenzioso.
Troppo silenzioso.
Dovremo cambiargli soprannome.
Un rumore di passi. Guardo l’orologio: le undici e cinquanta. Sette minuti, esattamente come Claude.
Spocchia spunta dal sentiero, tranquillo e rilassato, con la sigaretta tra le dita. Ci sono solo io lì ad accoglierlo. Gli altri due sono sempre appoggiati al corrimano, sulla strada.
Spocchia manco si accorge di me. Mi passa davanti e va dagli altri due. Senza dire nulla, si caccia la cicca tra le labbra.
Se l’accende con il terzo dei fiammiferi.
Non dicono nulla. Si guardano e basta. Benvenuto nel club di quelli che hanno passato la prova.
Osservo meglio Spocchia. Mi pare che i suoi capelli non siano più così sconvolti. E’ come se durante il tragitto avesse avuto modo di aggiustarseli.
– Spocchia, ti sei fatto fare la piega da Carlin? – gli urlo.
Non si gira neppure. Fa il gesto di offrire la cicca agli altri due. Quelli rifiutano.
– Ehi bambino, la smetti di rompere i coglioni? – mi fa Claude d’un tratto.
Mi sento raggelare.
– Co… cosa?
– Basta con ‘ste cazzate sui fantasmi. Tocca a te, no? E allora va.
– Eh?
– Non esistono i fantasmi, te l’ho già detto, perché continui a frignare?
Claude non è più Claude. Neanche Rumore è più Rumore: non schiocca più le nocche. Spocchia, a parte i capelli, avrebbe già sparato qualche stronzata.
Carlin li ha cambiati.
– Allora, vai o no?
– Ricordatevi la regola del quarto d’ora.
– Controllo l’orologio, guarda, hai visto? Sono le undici e cinquantatre. Se a mezzanotte e zerootto non sarai ancora qua, correremo in tuo soccorso. Contento?
– Va a trovare il tuo parente, se hai davvero coraggio – dice finalmente Spocchia, guardandomi con uno strano sorriso.
Anche Rumore, silenzioso, mi guarda con aria sprezzante.
Non posso non andare. Non sarei più uno di loro. Anche se ho paura, devo andare.
M’incammino deciso per il sentiero.
Claude aveva ragione. Non è così buio. Le fronde degli alberi, per esempio, le vedo. Intuisco anche il percorso del sentiero. E poi sento il calmo scorrere del Labironte, che mi tranquillizza. Quanto ci hanno messo gli altri? Tra i cinque e i dieci minuti. Presto anch’io mi fumerò la sigaretta.
Che bastardi che sono, penso. Io quando torno non farò come loro. Non li cagherò neanche, mi farò la cicca da solo, e poi dritto a casa senza salutarli. Così imparano.
Ma non sembravano più loro, cazzo.
Cosa gli è successo?
Carlin s’è impiccato cinque giorni fa. Mio fratello ha visto quando spostavano il cadavere. Aveva il segno della corda intorno al collo.
Ha ragione Claude. I fantasmi non esistono. Figuriamoci quelli dei morti impiccati.
Che silenzio, che pace. Non pensavo che sarei stato così tranquillo. Rallento perfino l’andatura.
Caro vecchio Labironte, cara vecchia Magniverne…
L’altra opzione era quella di andare al Vecchio Mulino, dall’altra parte del ponte. Anche il Vecchio Mulino ha visto un suicidio, parecchi anni fa. Alla fine abbiamo scelto Carlin e il suo palo della luce, forse meno suggestivi, ma molto più freschi.
Ecco la chiusa; la sento e la intravedo sulla destra. Sei vicino, caro Fabri. Sei vicinissimo.
Dovrei essere a una ventina di metri dal palo della luce. Sorge in un prato, sulla sinistra del sentiero. Forse con la luna lo vedrei, ma senza luna vedo solo le stelle, e qualche lumino in lontananza sulle colline.
Però sto sentendo qualcosa.
Sento delle voci.
Mi fermo, sul bordo del prato. Delle voci. Ragazzi che parlano nel buio.
Chi sono?
Perché mi faccio una domanda così stupida?
Sono loro: li ho riconosciuti subito.
– Appena arriva ce ne andiamo.
– Siamo tutti d’accordo, vero?
– Sì.
Nocche che schioccano. E’ proprio lui. Rumore.
E Claude. E Spocchia.
Mi avvicino piano piano. Cosa significa “ce ne andiamo”? Come hanno fatto ad arrivare qui prima di me?
– Via da questo posto – dice Rumore.
– Magniverne non fa più per noi – Spocchia.
– Posto del cazzo. Lasciamolo agli altri. Noi meritiamo di meglio – Claude.
Ma cosa significa? Mi avvicino ancora. Mi viene quasi voglia di fargli uno spavento. Così imparano a darmi del cacasotto.
Intravedo finalmente il palo della luce. E le loro sagome, più scure del buio sullo sfondo. Sono seduti sull’erba, sotto il palo, tra i quattro basamenti. Vicino a dove abbiamo nascosto il pacchetto di sigarette.
Più che delle sagome, sembrano ombre.
– Fabri, sei arrivato finalmente! – grida Claude.
Mi hanno visto.
– Vieni qua sotto, bastardo – dice Rumore, schioccando le nocche.
– Vieni da noi, fratellino. Dobbiamo svelarti un segreto – dice Spocchia.
– Ma come avete fatto ad arrivare qui prima di me? – dico, con voce malferma.
– Le spiegazioni a dopo. Adesso vieni qua con noi. Fidati di me.
La voce di Claude è la sua voce. Non come quella dell’altro, quello là che si fumava la sigaretta, e mi guardava storto. Questo è il vero Claude.
Io mi fido del mio migliore amico.
Faccio quattro passi e arrivo sotto il palo della luce. Proprio nel punto dove Carlin s’è impiccato. Succede in un istante; devo chiudere gli occhi.
Salgo sulla sedia. Metto la testa nel cappio, stringo bene il nodo intorno al collo. La corda è legata lassù, alla prima traversa d’acciaio della struttura reticolare del palo.
Un calcio alla sedia. Addio Magniverne. Siete tutti dei bastardi, ma vi volevo bene.
Non mi vedrete mai più.
Avevi ragione, Carlin.
Non è stato per i soldi che l’hai fatto.
Riapro gli occhi. L’altro me stesso, girato di spalle, si sta già allontanando verso il sentiero. Tiene stretta tra le dita una sigaretta.
Raggiungerà gli altri. Se la fumeranno insieme, forse. Cominceranno a parlare di motorini, di ragazze, di soldi.
Magniverne adesso è loro.
Claude, Spocchia e Rumore mi sono intorno. Ci abbracciamo. Di nuovo insieme, finalmente.
Nel buio totale non posso vederlo, ma al tatto lo sento. Sul collo di ciascuno. Come una collana incisa nella carne.
Passo le mani intorno al mio collo. La stessa collana. La collana che ci unisce.
Aveva ragione Carlin.
– Andiamo via – dice Claude.
– Sì, via da Magniverne – fa Spocchia.
– Qui non c’è più posto per noi – concludo io.
Ci incamminiamo in fila indiana in direzione opposta, mentre Rumore continua a schioccarsi le nocche, e Spocchia si attorciglia nervosamente i riccioli disordinati.
(*) tratto dall’antologia «Veleno», a cura di Vincenzo Spasaro, Il Foglio edizioni – www.ilfoglioletterario.it – 2008. I racconti e gli autori: Raffaele Serafini (Spirale), Fabio Lastrucci (Pozzanghere gelate), Rossella Anelli (Dolci sogni), Luca Barbieri (Ekaton), Lorenza Ghinelli (La babystter), Giovanni Buzi (La farfalla), Elena Vesnaver (Il mio cuore è nero), Gordiano Lupi (La villa dei lamenti), Maurizio Cometto (Via da Magniverne) e Marco Crescimbeni (Perché i topi non tornano). Altri racconti di Maurizio Cometto – 5 se non ho contato male – sono già in “blottega”: ne vorreste altri 55? Anche io vorrei ma Cometto nicchia, si fa pregare, svolazza via. Se continua così gli cancello la C dal cognome così diventa … (tre puntini). Quale editore metterebbe in copertina un autore-omissis? E’ un po’ come dice Jack Lemmon nel film «Prima pagina» al giovane aspirante giornalista: «Vuoi un consiglio ragazzo? mai cominciare un articolo con punto e virgola». (db)
Probabilmente mi esprimo in pieno conflitto d’interessi nonostante Fantastico E Altri Orrori sia da tempo defunta e rimpianta da pochi illusi: sono orgoglioso di aver contributo a lanciare, insieme al talent scout Gordiano Lupi, uno dei più grandi e originali narratori italiani.
Maurizio Cometto è erede del fantastico di Landolfi e Calvino cui aggiunge una forte critica sociale e una tendenza verso quella letteratura che oggi anche da noi si usa definire weird.
Fra qualche anno un bel po’ di critica- Rockerduck si mangerà il cappello per essere corsa dietro al solito raccomandato qualunque e aver perso chi vale.