Viaggio in carcere, tra i detenuti…
… :il “garantismo” di Nordio è una formula vuota.
di Onide Donati (*)
Tre carceri nella stesso carcere, tre condizioni di vita che partono dalla sezione-modello “Andromeda” e scendono fino alla pessima e degradante sezione 1 passando per la sezione 2 dove la situazione è su standard accettabili se confrontata con la media delle condizioni nelle carceri italiane. Dalle stelle alle stalle in poche centinaia di metri e una decina di porte a sbarre.
La Casa circondariale di Rimini è, tutto sommato, un carcere moderno: ha “solo” cinquant’anni ed è nata per la specifica funzione di custodire detenuti maschi, non come adattamento a prigione di rocche e castelli che la storia ha consegnato al demanio statale.
Le porte dei “Casetti” – così da queste parti chiamano il carcere che ha assunto il nome dell’omonima frazione – si sono aperte per una delle periodiche visite ispettive dell’associazione radicali di Rimini “Piergiorgio Welby”. Nulla a che fare con le passerelle occasionali di qualche politico, moda del momento a volte per mostrarsi preoccupati per le condizioni delle prigioni ma anche per qualche miserabile esibizione muscolare come quella del sottosegretario Andrea Delmastro che, a Taranto, non ha messo piede nelle celle perché “io non mi inchino alla mecca dei detenuti”.
Rimini con i suoi 118 posti “regolamentari” e i 165 “tollerabili” è un carcere piccolo. Sette sezioni in tutto, due delle quali a custodia attenuata. Attualmente i detenuti sono 158, un numero che oscilla giorno per giorno ma resta abbastanza stabile: in estate è condizionato dalla forte presenza turistica che attrae anche il crimine, nei mesi invernali diventa il “refugium peccatorum” di chi commette reati con pena a circa sei mesi per avere un tetto sopra la testa in una cella calda: non sono pochi quelli che preferiscono stare dentro se fuori non hanno nulla. Sembra impossibile ma esiste anche “l’albergo a cinque sbarre”, carcere con inclusa l’assistenza sociale.
Un piccolo carcere con detenuti di basso rango criminale
La polizia penitenziaria ha 111 effettivi, dovrebbero essere 150. Le immissioni in ruolo, come in tutte le carceri, avvengono col contagocce e scontano rinunce alte dopo il periodo di prova. Non è un lavoro facile.
Circa la metà dei detenuti (82, per la precisione) sconta pene fino a 5 anni, gli altri sono in attesa di giudizio. Metà della popolazione carceraria è straniera, metà è tossicodipendente. L’età media è abbastanza bassa. L’ultimo caso di suicidio risale al 2022.
“Ma attenzione – avverte Palma Mercurio, la direttrice dei Casetti -, i nostri detenuti sono la punta di un iceberg ben più grande. In provincia di Rimini vi sono altre 650 persone assegnate alle misure alternative al carcere”.
Con reati al di sotto di cinque anni di pena è facile immaginare che non vi siano criminali di alto rango. Infatti la polizia penitenziaria asseconda le richieste dei visitatori di girare per le celle.
Il gruppo ispettivo, organizzato dal radicale Jacopo Vasini, è abbastanza trasversale, comprende alcuni avvocati, il tesoriere dei radicali, l’assessora del Comune di Rimini Francesca Mattei, il consigliere comunale del Pd Edoardo Carminucci. Dieci persone in tutto. È una immersione completa nel mondo carcerario, nei suoi limiti e nelle sue risorse, nelle sue vergogne e nelle sue speranze.
Nell’inferno della sezione 1 certificata “inumana e degradante”
Si inizia dalla sezione 1, una specie di inferno in terra con 31 detenuti, in prevalenza ragazzi, ammassati in celle da 12 metri, quasi tutte da quattro con due letti a castello. I due ispettori penitenziari che ci accompagnano sono chiari: “Qui le carenze della struttura sono tanto grandi da rendere inumana e degradante la vita dei reclusi e difficile il nostro lavoro”. Così inumana e degradante che il giudice di sorveglianza, quando ricalcola la pena e applica i benefici di legge per la buona condotta, aggiunge ai detenuti della sezione 1 un ulteriore “sconto”: un giorno in meno di reclusione ogni dieci giorni passati in quella sezione.
La situazione è nota alle istituzioni, al Garante dei detenuti, all’Azienda sanitaria. La direttrice spiega che dipende da un appalto di due milioni, per rifare la sezione, incagliato da anni nelle maglie della burocrazia. Il 2027 potrebbe essere l’anno buono dei lavori per chiudere finalmente questa vergogna.
Intanto il caldo è asfissiante, le zanzare non danno tregua. Le celle dei detenuti sono aperte, si dialoga senza filtri e censure. Ne viene fuori uno spaccato potente, quasi pasoliniano per come il contatto dal vivo trascina nel mondo “dei delitti e delle pene”, in un luogo che non può fornire alcun aiuto.
Capita di trovare il writer di talento che a Bologna all’ingresso della stazione ferroviaria, in una esplosione creativa probabilmente aiutata da una fase lisergica, ha disegnato centinaia di metri quadrati di graffiti di forte impatto artistico; oppure incroci il ragazzo milanese con una piccola biblioteca fantasy che mette la sua immaginazione in un diario dove illustra la sua detenzione. Sono racconti realistici per destinatari virtuali con un’eccezione: “Ho spedito un solo racconto a quella che era la mia ragazza prima di finire qui dentro. Dopo la mia lettera ha contattato mio padre. Forse la ritroverò una volta fuori di qui, se riuscirò a superare i problemi di droga”. Gli consiglio di depositare le sue opere all’archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano fondato da Saverio Tutino: “Esiste davvero?”, chiede perplesso. Mi piacerebbe che lo facesse, le lettere dal carcere hanno prodotto grandi pensieri.
Contemporaneamente si sentono le proteste dei quattro detenuti di una cella, allagati dal sifone del lavandino del bagno che perde: “Ispettore, venga a vedere. Ci vuole un idraulico, noi non siamo capaci a fare la riparazione”. La sezione è un cantiere di rattoppi che in agosto si fermano. Il sifone è da cambiare ma con i magazzini chiusi il pezzo non si trova. La vita di giorno è questa. Di notte è peggio. “La luce viene spenta da fuori, se devi andare in bagno ti devi muovere al buio, l’alba col suo fresco diventa una liberazione”.
Di notte se qualcuno sta male non ha assistenza medica. In caso di emergenza, la tutela della salute è affidata alla polizia penitenziaria. Se il caso sembra lieve si aspetta il medico che arriva alle 8 e termina il servizio alle 20. Se sembra grave viene chiamata l’ambulanza e il detenuto portato all’ospedale, ovviamente con la scorta della polizia penitenziaria. “Dobbiamo fare noi una sorta di triage sanitario, cosa per la quale non abbiamo competenze”, dice uno degli ispettori che ci accompagna. Se capitano tre casi in una notte la vigilanza del carcere va in crisi.
Condizioni migliore per i “definitivi” della sezione 2
Sullo stesso piano della sezione 1 c’è la 2 che ospita una quindicina di detenuti con sentenza definitiva. Le condizioni sono decisamente migliori: celle da due, anche queste aperte, docce nel bagno, una situazione più strutturata e rilassata. In comune con la 1 ci sono il caldo e le zanzare. Come nella 1, i detenuti offrono caffè e accettarlo sembra un dovere, anche se immagini che nelle dotazioni individuali di generi di conforto quel gesto abbia un peso per il recluso. In attesa del sibilo della moka, un albanese sintetizza la sua storia ventennale in Italia, racconta di avere moglie e due figli che lo vanno a trovare ogni settimana agevolati dal fatto che abitano in provincia di Rimini, ma non è facile arrivare fino ai Casetti perché le corse dei bus sono poche. Aspetta il fine pena e dice che fuori righerà dritto.
La sezione “Andromeda”, il fiore all’occhiello della Casa circondariale
Si passa alla sezione Andromeda, il fiore all’occhiello dei Casetti, oltre la recinzione di cinta del carcere. Dieci detenuti in tutto, nove provenienti dalla tossicodipendenza. Hanno a disposizione due grandi camere da quattro e una da due, un grande salotto in comune, cucina autogestita. È una micro comunità con custodia attenuata e sbarre che vengono chiuse solo di notte. Riceve alcuni aiuti esterni, i reclusi hanno accettato di entrare in specifici progetti individuali. Sanno che se sgarrano sono fuori da quella oasi. Lavorano per un’azienda del territorio che produce telai per porte a scomparsa: assemblano sul tavolo del salotto i kit di piccoli pezzi per il montaggio del prodotto, 4 centesimi e mezzo a confezione che formano un “capitale” elargito sotto forma di generi di consumo, dal caffè, agli alimentari, alle sigarette. Un baratto, insomma. I risultati sono incoraggianti: recidiva bassa, buon successo nel reinserimento sociale. “Quel che manca è la disponibilità degli imprenditori a portare il lavoro in carcere. Eppure è un meccanismo che offrirebbe loro notevoli sgravi fiscali”, dice la direttrice.
Ecco, il lavoro. È oramai provato che un’attività professionalizzante in carcere offrirebbe molte opportunità e farebbe calare le recidive. Ma è quello che il territorio, anche per la sua struttura economica piccola e imperniata sul turismo, non sa dare. E intanto il dibattito sui reati si è fermato alla soppressione dell’abuso di ufficio che di celle non ne svuota nessuna e alla introduzione dell’omicidio stradale che le celle le riempie. Della riforma “garantista” di Nordio qui interessa poco, anche agli addetti ai lavori: dietro le sbarre c’è un’umanità disperata di detenuti ignoti che da questo garantismo per i noti non riceverà mai niente.
(*) Testo e foto originali ripresi da: https://www.strisciarossa.it/viaggio-in-carcere-nelle-celle-dei-detenuti-dove-il-garantismo-di-nordio-e-una-formula-vuota/