Vietato l’ingresso a cinema e teatri

Le opinioni di Oreste Pivetta, Andrea Aloi, Marino Sinibaldi, Christian Raimo e Massimiliano Virgilio

 

Cinema e teatro, troppe proteste per un mese di chiusura – Oreste Pivetta

Se il celeberrimo marziano di Ennio Flaiano, senza prendersi l’incomodo di scendere sulla terra, s’affacciasse sul nostro facebook o ascoltasse qualche radio dovrebbe dedurre che gli italiani non sono solo un popolo di naviganti, di santi e di poeti, ma sono soprattutto un esercito di teatranti, di spettatori teatrali, di attori, di registi, di consumatori accaniti di Shakespeare, di cinefili affamati (con propensione netta per i cinepanettoni natalizi), oltre che di drogati dallo spriz.

Proteste contro le chiusure

Mai tante proteste si sono levate contro una decisione del governo in tempi di coronavirus, la decisione di chiudere teatri e cinema. Per un mese. Sottolineo: per un mese. Nella illusione che questo ed altri provvedimenti ci permettano, tra un mese, di cominciare a riaprire.
Sono il primo, come tanti altri, a dire che la cultura è risorsa centrale in un paese civile e che le istituzioni dovrebbero investire e investire molto di più per la cultura (magari a partire dalle scuole elementari, prima che dai teatri), che il degrado che sta vivendo questo paese nasce da lì, dallo smarrimento di valori culturali, dal dissesto della istruzione pubblica, dalla oscena comunicazione televisiva (sì, forse, per la salute pubblica sarebbe urgente chiudere anche la tv), eccetera eccetera.

Quanti sono gli spettatori di cinema e teatro

Però tanto alte grida di dolore per la chiusura di un mese di cinema e teatri francamente mi sconcertano. Riesco ancora a contare: secondo l’Istat nel 2018 solo il venti per cento (arrotondo per eccesso) della popolazione italiana dai sei anni in su dichiara di essere andata a teatro una volta almeno, è soprattutto tra i bambini e i ragazzi fino ai 19 anni che si registrano le quote più elevate di spettatori (quante volte mi sono lasciato travolgere a teatro da simpatiche scolaresche vocianti), per quasi l’84 per cento degli spettatori si registra un’affluenza a teatro che non oltrepassa le tre volte nell’anno, contro un 6,3 per cento di chi vi si reca sette volte o più (tra questi ultimi si distinguono le persone dai 55 anni in su)… Risparmio il fiume delle percentuali Istat e mi risparmio il cinema. Se si chiude un mese, tre spettacoli o sette spettacoli li si recupera in un amen e si pareggiano altrettanto alla svelta i conti con la propria ansia di cultura.

E’ ovvio che quanti lavorano nel teatro (penso ad attrezzisti, costumisti, elettricisti, falegnami, eccetera eccetera) hanno diritto a rivendicare un sostegno. Non so come: finanziamenti, cassa integrazione… Vale anche per il cinema: penso ai gestori di sale cinematografiche, già sufficientemente deserte ben prima dell’avvento del coronavirus (racconto sempre quando due anni fa, a Milano, all’Anteo mi capitò di assistere alla proiezione di Dogman, il bel film di Matteo Garrone, da solo, circondato dal vuoto totale: roba da prendersi paura).
Ma anche in questa protesta mi sembra di leggere il vizio nazionale (spolverato nobilmente di amor per la cultura), che si potrebbe riassumere in quell’acronimo anglosassone divenuto popolare a proposito di cave, discariche, strade, gallerie, gasdotti, inceneritori: Nimby, Not In My Back Yard, Non nel mio cortile sul retro. Chiudetemi tutto, ma non… la piscina, il ristorante, il bar, la palestra, il parrucchiere…

Ciascuno rivendica un dpcm su misura, come se la pandemia fosse solo affare degli altri, sempre accusando per ciò che non si è fatto, sempre indicando una giustificazione per i propri desideri, senza mai avvertire la responsabilità per ciò che si è combinato, dalle discoteche alle spiagge, dalle scampagnate sui monti al ritorno all’irrinunciabile movida.

I camion di Bergamo, gli intubati e i contagiati…

Ho sempre negli occhi la fila dei camion militari che attraversano Bergamo, gli “intubati” in attesa di sentenza, i quarantamila morti, i ventimila contagiati al giorno. Quest’altro lockdown di un mese è niente di fronte a quelle immagini: in fondo a teatri chiusi, a palestre chiuse, a ristoranti e bar semichiusi, continuiamo a mangiare, ad andare a scuola, a lavorare, a camminare, insomma, fortunatamente per molti di noi, a vivere. Dovremmo rallegrarci per un sacrificio a termine, partecipando alla salvaguardia di un interesse comune.

Messaggio da Hong Kong

P.s. Ho letto da qualche parte che il professor Crisanti indica come modelli da perseguire quelli adottati da Corea e da Taiwan.

Ricopio da un post apparso su facebook alcune righe di una signora (non cito il nome) che vive ad Hong Kong: “… io vorrei tanto tornare in Italia ma visto il modo scellerato in cui gli italiani (e gli europei in genere) stanno reagendo alla pandemia, non so quando sarà possibile. Gestire una pandemia è difficile e di sicuro le scelte sono discutibili. Però vi prego: c’è la pestilenza. Il mettere costantemente in discussione tutto non sta aiutando. Vi imploro di accettare una disciplina a tempo determinato che ci aiuti a superare questa crisi sanitaria. Noi a Hong Kong da dieci mesi viviamo a metà: con grande disciplina e pochissima polemica, ma ancora solo a metà. Mascherine per tutti sempre e senza storie, rare o inesistenti cerimonie religiose e nessun concerto o teatro. Qualche cinema ma non sempre. Qui applicano “sopprimere e rilasciare”: quando aumentano i casi sopprimono le attività. Quando diminuiscono aumentano. Quasi nessuno di noi è andato in vacanza per cercare di togliere fiato al virus. In Europa non capisco perché questo sia parso improponibile… qui bar e ristoranti hanno chiuso e i contagi sono scesi. Perché in Italia è tutto una polemica e un’opinione? C’è una pandemia! Non si può sperare che passi con questo costante “sì, ma così no” e mancanza totale di volontà di sottomettersi alle restrizioni inevitabili. Perché l’esempio asiatico (Corea, HK, Taiwan: democrazie o semi-democrazie) vi deve sembrare così inutile? Certo che le chiusure servono. Se le persone si vedono fuori ci sono due considerazioni: intanto fuori il contagio è inferiore che in locali chiusi. E se le persone si assembrano, multe. Da dieci mesi a HK abbiamo il massimo di 4 persone alla volta all’aperto (due al massimo da marzo a giugno). Dura, ma nessuna polemica all’italiana…”.

Scusate per la lunghezza del post scriptum.

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Ma davvero il problema erano cinema e teatri? – Andrea Aloi

L’intervento di Oreste Pivetta su Strisciarossa (“Cinema e teatro, troppe proteste per un mese di chiusura”) è inappuntabile e condivisibile al 94%.

Ecco un 1 per cento di dissenso. Lamentare la chiusura di cinema e teatri non è uguale al dolersi per la serranda chiusa del parrucchiere (peraltro gli hair stylist rimangono aperti in base all’ultimo dpcm) o della palestra sotto casa per il semplice motivo che il tasso di contagiosità di una sala cinematografica ben regolamentata è tendente a zero, a differenza di una palestra. Di qui lo sconcerto di categorie dello spettacolo e relativi utenti. Non si tratta di cacciare la testa sotto la sabbia, di guardare le cose dall’alto di una villa in collina o di un attico ai Parioli, imbizzarrendosi perché si ritiene leso il proprio “particulare”.

Molto più normalmente: se si leggono le cifre della ricerca Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) che registra, su un pubblico di oltre trecentomila spettatori, un solo contagio Covid da maggio all’inizio di ottobre dovuto alla presenza a concerti, proiezioni in sala, recite teatrali, un po’ si resta contrariati. Ciascun individuo è portatore di esigenze anche interiori e culturali, mica dico che sono istanze superiori alla permanente o ai colpi di sole, ma un pelino di rispetto in più non guasterebbe. Poi, è chiaro, la salute e la responsabilità verso la comunità in un tempo di emergenza vengono prima di tutto e se c’è da limitare – motivatamente – al massimo affollamenti sui mezzi pubblici di trasporto (è lì, pare, il nocciolo del problema per ciò che concerne cinema e teatri) lo si faccia e stop.

Pupi Avati e l’ordine pubblico

Ora il 5% di dissenso rimanente. Tra i motivi per cui le proteste contro la chiusura di cinema e teatri gli paiono risibili, Pivetta si diffonde ampiamente sulla esiguità dei relativi pubblici. Ovvero: non vedo masse accalcarsi nelle sale e nelle platee, zitti e buoni. Il che sarebbe in effetti e per contro un argomento ottimo per non infierire ulteriormente su un settore gracile, anche se meno negletto della scuola, dell’Università e della ricerca (scuole e università migliori e più frequentate, tra l’altro, porterebbero naturalmente ad aumentare il numero dei fruitori di cinema e teatro).

Gli intellettualini cinefili e i teatrofili, i lavoratori dello spettacolo e collegati comunque non daranno ulteriore fastidio, a parte qualche appello o raccolta di firme, né susciteranno problemi per l’ordine pubblico (certo che vedere Pupi Avati, Raoul Bova e Glauco Mauri con in mano i fumogeni sarebbe straniante). Quindi meriterebbero almeno il riconoscimento del diritto a dolersi di una misura che rispetteranno senza subire ramanzine. Sospetto che il governo abbia in questi giorni problemi di piazza più seri, con manifestazioni anche dure di uomini e donne sempre più impoveriti e preoccupati, con rigurgiti violenti ben distribuiti tra antagonisti di gauche, destraccia manesca, manodopera criminale e ultras del calcio. Un magma in cui è complesso affondare le mani e su cui è meno facile emettere sentenze.

Diritto al dissenso: difendiamolo, anche dentro le nostre coscienze. E stiamo attenti, in nome dell’emergenza, a non sentire troppa insofferenza per chi alza (educate e civili) voci fuori dal coro. Credo che – professionisti dei tafferugli a parte – molti italiani si sarebbero aspettati nei giorni scorsi una comunicazione migliore, più chiara da parte del governo. Un allarme motivato lanciato con parole chiare, senza magari tenersi nel cassetto (è un’ipotesi, visto quanto è si è saputo a proposito della prima ondata Covid) proiezioni e cifre preoccupanti. Questo Conte II – per quanto molto più digeribile del Conte I – è una coalizione congenitamente debole e i risultati si vedono, anche sul piano comunicativo, si spera non sulla tenuta del sistema. Per restare nell’ambito cinema-teatro, il ministro Franceschini ha garantito aiuti, come già fatto in primavera.

Che fare degli sciatori

Intanto in Alto Adige fanno valere l’autonomia e cinema e teatri restano aperti, insieme agli impianti sciistici. E pure in altre zone alpine stanno già passando la sciolina. Nel dpcm è scritto che “gli impianti sono aperti agli sciatori amatoriali solo subordinatamente all’adozione di apposite linee guida da parte della Conferenza delle regioni e delle Province autonome”,  idonee “a prevenire o ridurre il rischio di contagio”. E vogliamo che a breve non spuntino le linee guida apposite per impianti e alberghi? Quelle non si negano a nessuno. “Ridurre il rischio di contagio”? Per una sciata in montagna – dove naturalmente non ci si incontra mai tra gruppi o persone singole ed è pieno di vigili urbani sullo snowboard – c’è un rischio accettabile. In sala al cinema o a teatro, luoghi controllatissimi, invece no. Ok, non tutto si può capire. Per l’intanto adeguiamoci: c’è un buonissimo motivo per farlo. E un mese passa in fretta, ha ragione Pivetta. Purché basti.

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Ai teatri e ai cinema serve un’alternativa vera – Marino Sinibaldi

Forse bisognerebbe fermarsi un attimo e riflettere sulle parole che stiamo spendendo e le proposte che stiamo avanzando per non chiudere cinema, teatri, sale da concerto. Non perché siano sbagliati gli argomenti, e tantomeno non condivisibili le intenzioni. Non c’è dubbio sul fatto che “l’arte rifonda continuamente la comunità” e che “senza teatro la polis comincia a disgregarsi”, come ha scritto per esempio Nicola Lagioia. E dunque non deve esserci dubbio sul fatto che nel buco nero di una pandemia che sembra non finire più abbiamo davvero bisogno di arte, cultura e bellezza come del pane. Ne abbiamo bisogno come comunità e come singoli individui: senza saremmo (siamo) tutti più deboli, più poveri, più soli.

Ma una pandemia è qualcosa che irrompe nelle nostre vite e non si lascia dominare. Lo stiamo imparando – a fatica, attoniti e renitenti – settimana dopo settimana. I dati, a meno di non abboccare all’idiozia delle varie sfumature negazioniste, sono crudeli. Quelli meno equivoci da tutti i punti di vista – la pressione sugli ospedali e in particolare sui reparti di terapia intensiva – ci dicono già che avremo un inverno durissimo.

L’unica arma che abbiamo è rallentare, svuotare, isolare. Chiudere quello che si deve, rinunciare a quello che si può. E allora qualche verità amara va detta. I cinema e i teatri si sono già svuotati. E comunque, nel loro piccolo (molto piccolo, ahimè) contribuiscono al movimento, alla circolazione, alla riunione. Proprio quello che dovremmo evitare. Non è dunque in discussione la grande sicurezza garantita da una sala con i posti distanziati. Né, se c’è bisogno di ripeterlo, l’irrinunciabilità dei contenuti, del linguaggio, dei valori e delle emozioni di uno spettacolo teatrale o musicale. Ma appunto, è questi che bisognerebbe difendere ad ogni costo. È per questi valori (nell’impossibilità, non sappiamo quanto provvisoria, di frequentare i luoghi che li esprimono) che va lanciata una mobilitazione all’altezza dei tempi. Cioè della gravità ma anche della responsabilità di chi – proprio perché ha a cuore l’arte e la cultura, cioè la vita più piena, aperta e generosa – non può nemmeno minimamente mettere a rischio salute ed esistenza altrui.

Non si tratta dunque di rassegnarsi. Ma anzi, di non arrendersi all’alternativa tra la resistenza egoriferita e la rinuncia fatalistica. La mobilitazione degli operatori culturali e di tanti cittadini e cittadine che hanno a cuore il futuro dell’arte come quello della propria esistenza andrebbe indirizzata in un’altra direzione. Meno retorica (va ripetuto: teatri e cinema si svuoteranno comunque, qualunque siano i dpcm che ci aspettano) e più efficace. Non meno esigente: bisogna in primo luogo chiedere risorse certe e rapide per un mondo che ha sempre vissuto ai margini della povertà e che ora rischia di precipitare. È in gioco, puramente e semplicemente, la sua esistenza.

In vista c’è la scomparsa di un intero tessuto di compagnie, orchestre, gruppi e singoli operatori. Risorse – cioè soldi e servizi – subito, anzitutto. Ma poi bisogna pensare come non perdere la ricchezza dell’esperienza artistica e culturale. E dunque reinventare modalità materiali e digitali, luoghi reali e virtuali, nei quali continuare a praticare arte, intelligenza, bellezza. Studiare (e pretendere) incentivi da usare in questa direzione: progettare piattaforme e tecnologie capaci di scavalcare ogni isolamento, ogni separazione (che saranno comunque necessari nel mondo che sta nascendo dalla pandemia).

E infine chiedere, anzi pretendere, che i mezzi di informazione e le grandi agenzie di comunicazione aprano i loro spazi all’arte e alla cultura non solo quando protestano ma nel loro lavoro quotidiano. Le piattaforme italiane – a cominciare naturalmente dalla Rai – andrebbero incalzate e infine costrette a dare spazio a esperienze, spettacoli, scene e suoni che non possono più esprimersi altrove. Qui si dovrebbero concentrare appelli, petizioni, rivendicazioni. Per compensare e sostituire come si può le sale vuote e silenziose. Non nella cocciuta (e temo inutile) pretesa di restare aperti comunque. Ma per aprirsi di più, durante e dopo la pandemia.

da qui

 

È straziante ma è così – Christian Raimo

Sta succedendo a tutti quello che succedeva alle persone che abitavano in Val Seriana, nelle zone rosse, lo scorso marzo. Conosciamo persone che si ammalano, ogni giorno, più volte al giorno abbiamo notizia di qualcuno si è ammalato, sta male, di qualcuno che è in ospedale o che è morto.

È un fenomeno che dovrebbe darci l’idea di una crescita esponenziale, incontrollata, del contagio; ma ancora evidentemente in molti casi non ce la dà.

Dovrebbe dirci una cosa terribile: non riusciamo più a tracciare. E se non riusciamo più a tracciare, è sconsiderato dire: in quel posto non ci si infetta, quel posto è sicuro, quel posto è importante tenerlo aperto.

Il luogo dove ci si ammala siamo noi, il luogo dove ci si ammala sono i nostri corpi. Il virus non infetta i luoghi ma i corpi.

Chiunque di noi ha un amico medico, sente le sue paure più grandi: che in ospedale entrino degli spreader, che questa mancanza di tracciamento produca focolai incontrollati, che si sia costretti a non poter curare.

L’unico imperativo che dobbiamo avere nelle prossime settimane è: vedere meno gente possibile, lockdown o non lockdown.

Quindi scoraggiare qualunque attività di gruppo, collettiva, di condivisione, etc… È straziante, ma è così. È straziante perché la socialità è ciò che fa parte più profondamente della nostra natura umana, e è ciò per cui politicamente combattiamo tutti i giorni. Per avere più occasioni di incontro, più biblioteche, più teatri, più cinema.

Il secondo orizzonte morale che dovrebbe muoverci è: come possiamo aiutare quelle attività che altre persone non riescono a fare. Non possiamo reinventarci medici, ma possiamo ripensarci come educatori, caregiver, fattorini.

Il senso di solidarietà contrasta in modo pratico l’avanzare della pandemia e la crisi sociale che questa genera.

Alcune cose sono cambiate e in modo molto rapido nelle utltime settimane: quello che valeva a metà ottobre non vale più. Il sistema di tracciamento è saltato, e nella maggior parte dei locali chiusi non è possibile a fine ottobre inizio novembre tenere aperto, areare i locali, e anzi occorre accendere i riscaldamenti. Per un virus che – abbiamo capito negli ultimi mesi – si propaga moltissimo attraverso l’aerosol e non solo i droplet, qualunque posto chiuso è un luogo d’elezione. Lo sono le case, i ristoranti, e purtroppo i teatri, i cinema. Lo sono purtroppo più i teatri dei cinema, come lo sono i set, o i programmi televisivi, perché le compagnie, perché lo spettacolo mette in scena la socialità non la solitudine, gli attori devono provare, e in questo momento se non si riesce a tracciare, ogni prova può essere rischiosa. Lo sono ovviamente anche le chiese, in cui le funzioni andrebbero sospese, anche se paradossalmente sono meno pericolose perché spesso non hanno riscaldamenti.

Ma c’è un altro fattore essenziale: è vero che luoghi come la scuola, i cinema, i teatri in questi mesi sono stati luoghi più sicuri, dove ci si contagia meno rispetto al resto. Ma è da scoraggiare, da evitare quello che avviene ovviamente spesso prima e dopo la scuola, il teatro, il cinema, la messa. Ci si incontra. Si va in macchina insieme, si fa una chiacchiera. E non dobbiamo incontrarci, dobbiamo farlo il meno possibile. E se vogliamo incontrarci, dovremmo farlo all’aperto, a distanza, con le mascherine. È evidente quanto questo sia terribile. Tanto terribile che c’è il rischio che alcuni posti non riaprano più.

È evidente soprattutto quanto questo sia inaccettabile se non arrivano, in tempi brevissimi, sussidi per tutto il settore culturale e dello spettacolo. Non l’elemosina di primavera, ma sussidi consistenti. Ci vuole una redistribuzione di reddito tanto consistente da essere scioccante. Non è possibile tollerare che in una pandemia ci siano alcuni che si arricchiscano sulle condizioni dello strazio, ossia sul fatto che non possiamo incontrarci.

Nel frattempo vanno sospese o ridotte il più possibile tutte le attività in presenza che si possono sospendere anche se non esplicitamente indicate dal dpcm: le ripetizioni private, lo sport il pomeriggio anche per chi è agonistico, le lezioni di musica, etc… Sono spesso le cose a cui teniamo di più, che danno senso alla nostra vita, o ci danno il reddito per pagare le bollette. Ma qualunque attività sociale in presenza andrebbe scoraggiata, per poter consentire almeno un po’ di sicurezza in più per le attività di cura. Non solo per i malati, ma per le persone fragili, i disabili, le persone non autonome, per i quali è impossibile sospendere i contatti.

Soprattutto vanno sospese tutte le attività che si fanno nei luoghi chiusi e che chiedono una presenza di più di dieci minuti. Questo è chiaramente ancora più straziante, ma è possibile fare altrimenti? A marzo paradossalmente era più facile, non lo sapevamo, ma il fatto che stavamo andando incontro a una stagione di socialità all’aperto ci avrebbe aiutato.

Anche qui, occorrono sussidi, molti sussidi, per genitori, persone sole, per avere farmaci in casa: tachipirina, eparina, cortisone, dispositivi medici: mascherine, saturimetri.

C’è da avere paura? Sì. Ma una paura informata, razionale. La paura che dà responsabilità. E che ci evita un’angoscia che ci mette stupidamente a rischio, ci fa vedere pericoli che non ci sono e ci fa rimuovere i pericoli che ci sono.

Nel momento in cui non c’è più un tracciamento e in cui ci saranno sempre meno indicazioni di protocolli da seguire, le regole della convivenza stanno a noi. Rispettarle, educare a rispettarle, modularle ogni giorno sullo stato d’emergenza.

Nel frattempo lavoriamo su quello su cui non abbiamo lavorato finora: un’infrastruttura sanitaria e sociosanitaria pubblica degna, un welfare d’emergenza che informi anche quello postemergenziale, un sistema che valorizzi prevenzione e educazione.

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E se chiudere teatri e cinema fosse una buona idea? – Massimiliano Virgilio

E se invece non ci fosse alternativa alla chiusura di teatri, cinema e sale concerto? E se invece non ci fosse alternativa a mettere in campo misure che abbassino la curva del contagio evitando il collasso del nostro sistema sanitario? Siamo davvero sicuri che, in proposito, ci sia una scelta? Forse no, non c’è. E a breve potrebbe non esserci anche per altri settori economici, se non per l’intera economia del Paese. Ricordiamo sempre che la scuola, il baluardo principale della cultura nel Paese, dopo un gran parlare durato mesi, è difatti chiusa ovunque e la didattica di quest’anno sarà per gran parte (almeno il 75%) a distanza. E se quindi, capovolgendo per un attimo la prospettiva, approfittassimo di questa chiusura (arbitraria, dannosa, iniqua, sono d’accordo, ma altrettanto inevitabile, come per la scuola) per discutere il problema serissimo che si nasconde dietro questa chiusura e che la rende così drammatica? E cioè la mancanza di tutele per gli operatori dello spettacolo?

Ieri Roberto Andò, regista, scrittore, direttore del Teatro di Napoli, ha pubblicato una lettera in dissenso con le scelte del Governo. Tuttavia questa missiva può essere letta anche da una prospettiva diversa, al suo interno viene infatti denunciato con chiarezza quello che a mio avviso è il problema dei problemi. Scrive l’intellettuale palermitano:

La chiusura dei teatri, se confermata, avrà conseguenze gravi, sul piano del lavoro, e sul piano dell’insopprimibile voglia di elaborare il nostro vissuto attraverso l’immaginazione scenica. So che non tutti la pensano come me, personalità illustri come Thomas Ostermeier, alla guida del più importante teatro pubblico di Berlino, ritengono che in questo periodo i teatri debbano rimanere chiusi. Il regista è confortato dalla forza del governo tedesco e da una legislazione che in circostanze come questa garantisce ai lavoratori, siano essi attori o tecnici, un sussidio adeguato, e dignitoso, come d’altronde accade in Francia.

Probabilmente il punto centrale è questo: sostenere gli operatori della cultura con strumenti che non li considerino inessenziali, ma con interventi e leggi strutturali degne di un paese sviluppato. La verità è che la scelta del Governo di chiudere cinema e teatri (per questi due settori andrebbero fatti comunque discorsi molto diversi) appare ai più una scelta iniqua, perché lascia aperta tutto il resto e si accanisce con settori fondamentali per lo sviluppo del Paese, per l’idea di futuro che abbiamo e, soprattutto, perché in questi mesi è stato dimostrato che, rispettando i protocolli, il rischio di diffondere il contagio è praticamente nullo. A questo c’è da aggiungere che i nostri governanti, nel comunicare questa decisione, hanno evidenziato ancora una volta carenze comunicative, e quel tweet in cui il ministro Dario Franceschini si dichiara addolorato per la chiusura inevitabile non ha aiutato. Ma la ratio del provvedimento c’è ed evidente: bisogna azzerare la mobilità oltre il minimo indispensabile. Quindi, ancora una volta, scelta non c’è.

E con questo siamo alla querelle sul valore che attribuiamo ai teatri e alla cultura nel suo complesso, quanto essenziali sono alla nostra esistenza. Tenere i teatri aperti vale quanto tenere aperti i cantieri delle opere pubbliche? Per alcuni sì, per altri no, per me il punto è un altro. Nella mia vita libri, film e spettacoli teatrali sono beni essenziali come e più di un pacco di pasta, un viadotto funzionante, la connessione a banda larga e l’energia elettrica. Confesso il mio conflitto di interessi: con la chiusura di teatri, cinema e festival letterari, si ferma gran parte della mia attività.

Il punto è che ostinarsi a voler considerare il sistema-cultura (l’industria, come si dice con una brutta parola che rende bene l’idea) alla pari di altri settori economici strategici che non possiamo permetterci di chiudere è un errore e un danno che in questo momento facciamo innanzitutto alla cultura e ai suoi operatori. Innanzitutto, perché la cultura non deve misurarsi con il mercato. La cultura può generare un mercato, ma va tutelata con forme e strumenti diversi, altrimenti la partita è persa in partenza. I pacchi di pasta, i viadotti e la connessione a banda larga hanno strutturalmente più follower di uno spettacolo teatrale. In questo modo, non significa riconoscerne l’inessenzialità, significa separare le questioni e capire che ora è il momento di fermarsi. E lottare con serietà affinché ci siano per davvero tutte le misure di sostegno all’arte e a chi fa arte. Per arrivare a ottenere misure che siano quelle che Roberto Andò auspica nella sua lettera contro la chiusura. Oggi è il momento di lottare e resistere per farsi trovare pronti con la propria essenzialità domani.

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