Vladimir Majakovskij, la rivoluzione necessaria e «la barca dell’amore»
un ricordo (con troppa passione?)
di d. b.
«Battete in piazza il calpestio delle rivolte». E per essere ancor più chiaro, essendo lui un poeta: «Abbasso il vostro amore, abbasso la vostra arte, abbasso il vostro regime, abbasso la vostra religione».
Non ha dubbi: «E’ la mia rivoluzione» spiega nell’autobiografia.
Satira e rabbia, amore traboccante e senso di giustizia, rifiuto della cultura classista (e imbalsamata) e orgoglio rivoluzionario. Tutto questo fu Majakovskij. Il suo suicidio può davvero essere stato un fatto personale («niente pettegolezzi, il defunto li detestava») ma il regresso della rivoluzione rendeva la vita più dura a tutte e tutti, ancor più per chi crede che quello del 1917 sia “l’assalto al cielo”, «i dieci giorni che cambiarono il mondo»; per chi scrive: «Perché tutta la Terra / si rivolti al primo grido: “compagno”».
Si è sempre soli anche nelle migliori rivoluzioni (per noi appassionate/i di fantascienza il ricordo va soprattutto alla Odo di Ursula Le Guin nel racconto «Il giorno prima della rivoluzione») e nessuna conquista sociale allieva in certi momenti la fatica del vivere. Così per Majakovskij: «Sono solitario come l’ultimo occhio / di un uomo in cammino verso la terra dei ciechi». O la ricerca di altro: «Ascoltate! / Se le stelle si accendono / vuol dire che qualcuno ne ha bisogno / vuol dire che qualcuno vuole che esse siano / vuol dire che qualcuno chiama perle questi piccoli sputi».
Ma lui stesso trova nella lotta molte risposte alle angosce esistenziali, al bisogno di “altro”. Avrebbero potuto essere suoi i versi di un poeta (salvadoregno? Ne ho dimenticato il nome) che nel mio ricordo suonano così: «Il mio amore mi ha lasciato / così sono sceso in piazza / e ho scritto su un muro: / “Abbasso il governo”».
Da poeta, da rivoluzionario Majakovskij si pone il problema delle forme adatte per il mai visto prima, per l’inosabile: «Dare di colpo tutti i diritti di cittadinanza a un nuovo linguaggio: l’urlo in luogo del canto, il fracasso del tamburo in luogo della ninna-nanna». Difficile ma lui molto spesso ci riesce.
Cerca di rifiutare i privilegi degli artisti (e dei campioni sportivi come in una sua bellissima, dimenticata poesia) per dar valore d’arte all’umana fatica, alle vite proletarie.
Quando un altro grande poeta, Sergej Esenin, si suicida – «Ve ne siete andato / come si dice / all’altro mondo» – rabbiosamente Majakovskij urla: «Ma perché / accrescere / il numero dei suicidi? Meglio / aumentare / la produzione d’inchiostri». E poi: «Molto è il lavoro / e occorre fare in tempo. / Per prima cosa / bisogna / rifare la vita / una volta rifatta / si potrà esaltarla. / E’ un’epoca questa / piuttosto difficile per la penna». E conclude: «In questa vita / non è difficile morire. / Vivere / è di gran lunga più difficile». Ma lui stesso poi si arrese: Come aveva profetizzato: «La barca dell’amore si è spezzata contro la vita quotidiana».
Quel colpo di pistola contro se stesso non cancella tutto il resto. La sua consapevolezza di aver messo il mondo sottosopra e finalmente con la giustizia sociale “sopra”… a guidare le scelte: «Senza celare la gioia / sotto / una falsa modestia / grido / con i vincitori / della fame e del buio: / “Sono stato io / siamo stati noi”». E’ il 1927 e la rivoluzione non è ancora stata sconfitta dall’interno. Lo sarà e probabilmente Majakovskij lo aveva capito.
«A piena voce» (così il titolo di un suo lungo poema) Majakovskij può parlare al futuro e scrivere: «Cari compagni posteri / rimestando / nella merda impietrita / di oggi, / scrutando le tenebre dei nostri giorni / voi / forse / domanderete di me». E precisa: «Noi la dialettica / non l’imparammo da Hegel. / Con il fragore delle battaglie / irrompeva nel verso / quando / sotto i proiettili / dinanzi a noi fuggivano i borghesi / come una volta noi davanti a loro».
Perciò come lui scrisse: «A sinistra! A sinistra! A sinistra!».
In questo ricordo ho saccheggiato il libro «Majakovskij» curato da Ignazio Ambrogio (nel 1960 per Nuova Accademia) e le sue traduzioni. Ma è stato bello – per me – anche ritrovare i miei appunti lì; datati 1964 (quando comprai il libro, a 15 anni): ero piccolo ma a ripensarci… non “promettevo” male sottolineando quei versi: «A sinistra! A sinistra! A sinistra!»
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Concedetemi una nota in favore di Daniele Barbieri che in esergo si poneva il dubbio, evidentemente per porlo a tutti noi, se il suo era un ricordare con troppa passione.
No, amico, la passione in politica (e in amore) non è mai troppa. Oggi sappiamo che è stata appena sufficente a farci uscire dagli anni d’oro della contestazione operaia senza doverci vergognare troppo. Il nostro dovere forse non l’abbiamo fatto fino in fondo, ma almeno non abbiamo tradito. Noi stessi, prima che la rivoluzione.
Cosicché possiamo affermare a cuor leggero che non abbiamo perso, che abbiamo vinto. Abbiamo dimostrato che con tutto il suo strapotere, nonostante l’inarrestabile espandersi, nonostante la sua natura di medusa spaziale che tutto inghiotte, non è in grado di fare maciullagine d’ognuno. Neppure nel momento del suo massimo trionfo. Del suo tragico, sanguinario, momentaneo trionfo.
Mauro Antonio Miglieruolo