Voci dal carcere
articoli di Carmelo Musumeci e Sergio Segio, il XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, il film di Andrea Appetito e Christian Carmosino più una maratona per la libertà, a cura della Associazione Yairaiha Onlus (con Samuele Ciambriello, Gabriella Stramaccioni, Eleonora Forenza, Salvatore Torre, Nicoletta Dosio, Pietro Ioia tra gli altri)
Carceri: “Io ho visto cose, che voi umani non potreste immaginare”- Carmelo Musumeci
In questi giorni, forse per ricordarmi da dove vengo, ho dato un’occhiata ai diari che scrivevo dal carcere e ho pensato di rendere pubblici alcuni brani. Non lo so perché lo faccio, forse perché m’illudo di poter seminare qualche dubbio in alcune persone che pensano che chi fa del male ne deve ricevere altrettanto. Forse semplicemente perché mi sento un po’ come un reduce di guerra e non riesco a scrollarmi il carcere di dosso, perché spesso mi tornano alla mente tutti i ventisette anni di carcere, con i periodi d’isolamento, i trasferimenti punitivi, i ricoveri all’ospedale per i prolungati scioperi della fame, le celle di punizione, ecc. Se vi va leggete, perché spesso in un prigioniero c’è un pezzo di cuore di ognuno di noi:
“Oggi un compagno si è tagliato le vene… Tutto quel sangue mi ha impressionato: la limitatezza e la fragilità della natura umana in carcere è come uno specchio e ti senti emotivamente coinvolto… Insomma non è come vedere la sofferenza in televisione, è tutto molto più brutto, più vero, più crudele…”.
“Verso le 16.00 mi hanno chiamato in matricola ed ho avuto l’occasione di vedere una donna detenuta con una bambina bellissima in braccio. Nonostante in carcere ne abbia viste tante, mi ha fatto molto effetto vedere un angelo dietro le sbarre… Mentre andavo via non ho resistito alla voglia di farle una carezza e lei mi ha sorriso come solo i bambini sanno fare. Aveva sul visino molte punture di zanzare e anche questo fatto mi ha fatto molta pena…”.
“Oggi c’è stata una battitura alle sbarre, collettiva e spontanea… un detenuto che si sentiva male, per protestare perchè non veniva il medico, si è rifiutato di entrare in cella e per risposta è stato aggredito da due guardie… Abbiamo visto il compagno albanese con il sangue che gli colava dalla testa e poi l’hanno portato alle celle di punizione…”.
“Agli ergastolani malati, per tirare su il morale, dicevo spesso che il destino, per farci soffrire di più, ci avrebbe fatto morire per ultimi, ma purtroppo non sempre è così. Oggi ho ricevuto la notizia che un altro ergastolano ha finito di scontare la sua pena prima dell’anno 9.999 perché è morto per un colpo al cuore”.
“Sono partito da Nuoro verso le 11.00, con il solito blindato che sembra una scatoletta di sardine… Chi ha progettato questi furgoni blindati per trasportare i detenuti deve essere una persona che ha dei problemi mentali perché neppure gli animali sono trasportati in queste condizioni. Arrivo ad Olbia verso le 12.30. Dopo ore di attesa, dentro quella scatola di sardine, con un caldo soffocante, senza poter bere ed andare in bagno, prendo l’aereo verso le 16.00 e alle 17.00 arrivo a Firenze e dopo dieci minuti al carcere di Sollicciano. Come al solito mi assegnano alla sezione transito ma, peggio del solito, capito in una cella dove sembra che siano passati i vandali: il tasto del volume della televisione rotto, senza cuscino, senza luce artificiale, solo uno stipetto, muri della cella sporchi e in alcune parti macchiate di sangue. Pulisco come posso, mangio un pezzo di pane con un po’ di formaggio, che mi sono portato da Nuoro, e poi mi addormento, con il desiderio di non svegliarmi più”.
“Ogni tanto penso a tutto il tempo che il mio magistrato di sorveglianza ci ha messo per rispondermi che devo morire in carcere. Prima di questa esperienza pensavo che la violenza fosse nelle urla, nelle botte, nella guerra e nel sangue. Adesso so che la violenza è anche nel silenzio delle cosiddette persone perbene. Loro vedono sempre la cattiveria degli altri, mai la loro”.
“Oggi ho ricevuto una lettera da una detenuta, che mi ha raccontato di quando si è suicidato il marito (e padre di suo figlio) in carcere, che mi ha molto commosso. Le sue parole mi hanno confermato ancora una volta quanto spesso sono disumani gli umani: (…) Mia madre e mia zia, che non vedevo da anni, mi vennero a dire che Giampiero si era impiccato in carcere. Tre giorni prima nei sottotitoli del TG3 avevo letto una frase sfuggente, veloce, che mi aveva fatto venire i brividi: “Un altro suicidio in carcere”. Avevo pensato: “Non sarà mai il mio Giampy, speriamo che non lo sia…” (…) Mi diedero il permesso d’uscita per gravi motivi familiari con la scorta. Non mi tolsero neanche le manette dai polsi. Non ero mai entrata in un obitorio. Erano dei mostri. Aprirono uno di quei cazzo di orribili cassettoni frigoriferi davanti a me. Me lo portarono davanti agli occhi ancora chiuso nel sacco nero. Non l’avevano neanche vestito. Aprirono il sacco: era nudo, con i punti dell’autopsia sul torace fino al ventre, che deturpavano il suo bellissimo tatuaggio tribale. Non mi tolsero le manette. Ho dovuto accarezzarlo con i ferri ai polsi. Non mi hanno neanche concesso la pietà di salutarlo come avrei voluto. Il suo collo era pieno di lividi. Odiai Dio. Odiai la vita. Odiai me stessa. Odiai la morte. Odiai tutto l’universo. Lo baciai sulle labbra. E gli dissi: “Perdonami. Ti amo.” Poi me ne andai”.
“Mi ha chiamato Nicola, il compagno che ha tentato d’impiccarsi lo scorso mese, e l’ho un po’ consolato. Lo stanno imbottendo di farmaci, io invece credo che più di psicofarmaci abbia bisogno di speranza e io gli ho dato proprio quella, promettendogli che gli farò una istanza di permesso”.
“All’ultimo giorno utile per fare l’esame, mi hanno portato a Firenze. A parte i soliti disagi del viaggio, ho dovuto farmi Roma/Firenze con il furgone blindato senza la possibilità di urinare e di mangiare un panino… Sono arrivato a Sollicciano alle 17.00 ma mi hanno fatto salire alla sezione del transito alle 22.00 e non sono riuscito a trovare nulla da mangiare… Nel muro della cella, scritto con il sangue, ho letto: “Non t’impiccare, resisti, non devi avere paura dalla galera, è lei che deve avere paura di te”. Che cazzate! Mi sono addormentato subito dalla stanchezza“.
“Oggi ho scritto un reclamo ad un compagno per un fatto che mi ha emotivamente colpito: per aver fatto una carezza alla moglie in gravidanza, per sentire il bambino/a muoversi, è stato sottoposto al 14 bis e dalla Sicilia l’hanno trasferito in Sardegna”.
“Oggi un uomo ombra, che credevo fosse un duro, commentando il suicidio di un nostro comune amico ergastolano, mi ha confidato: Io non mi ucciderò mai, ma sento spesso il desiderio di farlo. Io ho pensato che sono proprio quelli che dicono che non lo faranno mai che sono più a rischio, ma non gliel’ho detto”.
“Ho ricevuto questa lettera da una detenuta: Sono stata condannata ad anni quattro e mesi otto di reclusione. La cosa che mi preoccupa più di tutto è perdere il lavoro perché, credimi, l’unico mezzo di sostentamento per me e per mia figlia era proprio il mio lavoro. Ti parlo con il cuore in mano, sono molto giù. E ho paura che psicologicamente stia crollando. Sono una persona molto semplice, che ha sbagliato, ma erano dieci anni che non entravo più in carcere. Mi ero sistemata. Adesso mi sento di aver perso tutto. E non ho più voglia di vivere. Sono giorni che piango da sola. Penso al suicidio. Non so Carmelo, può la giustizia far perdere tutto ad una donna di 45 anni che con fatica e impegno era riuscita a trovare un posto di lavoro fisso e una casa popolare? Il mio avvocato continua a chiedere soldi, ma io non so dove prenderli”.
“Ho letto di un altro suicidio in carcere. Ho perso il conto, nel giro di una settimana si sono tolti la vita 4 detenuti, a pochi giorni l’uno dall’altro. D’estate i suicidi in carcere aumentano. Sembra che i funzionari dell’Amministrazione penitenziaria abbiano diramato delle Circolari (che come al solito rimarranno carta straccia) per affrontare il problema. Eppure basterebbe poco per evitare alcune morti: un trasferimento in un carcere vicino a casa, una telefonata o un colloquio in più con i propri cari, una vivibilità migliore, un semplice ventilatore in cella o anche qualche ora d’aria in più nei cortili dei passeggi. E, soprattutto, un po’ di speranza e amore sociale. Spesso molti mi chiedono perché alcuni prigionieri si tolgono la vita. Non è facile rispondere a questa domanda, penso che purtroppo per alcuni detenuti non ci sia poi così tanta differenza tra trovarsi sepolti sottoterra o murati vivi in una cella“.
Uomini o topi? – Sergio Segio
Immaginatevi di rimanere bloccati in un vagone della metropolitana affollato, anzi sovraffollato. Le porte sono chiuse, i finestrini anche e sono per giunta oscurati. Le raccomandazioni sul distanziamento suonano beffarde, ci si trova inevitabilmente addossati gli uni agli altri. Gli odori e le paure si mescolano.
Passano i giorni, le settimane, i mesi, si avvicina il Natale e siete sempre lì. I telefoni non funzionano, non avete più notizie dei vostri cari. L’unica cosa che funziona è la televisione interna, le notizie giornaliere sulla pandemia sono bollettini di guerra. Alla paura si mescola la rabbia e l’impotenza. Nessuno vi dà risposte. Non sapete più cosa fare, se non sbattere la testa alla parete, come topi in gabbia. E in effetti lo siete diventati. Proprio come per i topi, quelli fuori hanno disprezzo per voi, forse anche loro hanno paura e ve la riversano contro. Vi vedono come diversi e minacciosi; si sentono più sicuri se voi siete chiusi in quel vagone e sperano che non ne usciate più.
Immaginatevi tutto questo e sappiate che quella è la condizione quotidiana di chi sta in carcere nel tempo del Covid-19. Potete certo pensare che chi ci sta è perché se l’è cercata; probabilmente lo pensate senz’altro, anche se vi ritenete sensibili e democratici. In ogni caso, siete convinti che non ci sia nulla da fare: così vanno le cose e i problemi urgenti sono ben altri. La pandemia, come prima e assieme la crisi economica e l’impoverimento generale, non consentono generosità verso chi ha sbagliato, a volte pesantemente. Neppure a Natale. Tanto più in questo Natale, in cui ci si sente tutti sacrificati, penalizzati, impossibilitati, preoccupati. C’è da pensare prima alle persone perbene. Il domani, poi, mostra solo nuvole scure.
Ma tornate a immaginare, solo per un momento ancora, di essere anche voi chiusi in quel vagone, sia pure per sbaglio, non volevate salirci davvero: vi è capitato, non sapete neppure bene come e perché. Mentre si avvicina il Natale, non potete fare e ricevere alcun regalo o conforto. Il riscaldamento funziona poco e male, assieme alla paura sale il gelo e cresce l’ansia; manca l’aria e sentite la pressione continua degli altri intorno a voi, a contendersi il minuscolo spazio.
Adesso chiedetevi se quella sia una condizione umana accettabile, se risponda davvero alla giustizia. O se non si possa, non si debba, invece trovare altri modi per riparare i danni e le offese, per pesanti che siano stati. E non per lo spirito natalizio, non per evanescente bontà, ma perché avete finalmente capito che il carcere è uno specchio, estremo ma reale, della società. È parte di essa, non un mondo alieno; chi ci abita è uguale a voi, ha le vostre stesse paure, desideri, aspirazioni. Avete compreso che se accettate che permanga come luogo senza speranza e senza diritti vorrà dire che scegliete di vivere in una società che ha perso la voglia di cambiare e di costruire un futuro diverso e più giusto. Per sé e per gli altri. Anche per quelli bloccati in quel vagone.
https://www.youtube.com/watch?v=O9buBR2gTtE
VEDI ANCHE: Il carcere al tempo del Coronavirus. XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione
https://www.youtube.com/watch?v=-JIx4vnpvzk
in bottega cfr No prison ovvero il fallimento del carcere di Livio Ferrari
Covid 19: subito il vaccino nelle carceri
Un appello lanciato dalla «Società della Ragione»
Firma anche tu la petizione al ministro della Salute e al Commissario Straordinario per l’emergenza COVID su Change.org:
https://www.change.org/vaccinonellecarceri
BASTA DISCRIMINAZIONI:
VACCINIAMO SUBITO I DETENUTI E LE DETENUTE E CHI LAVORA IN CARCERE!
Siamo tutti reclusi in questo anno di pandemia, ma c’è chi è più prigioniero di altri, più esposto a rischi, più abbandonato di tutti. In questi mesi i detenuti stanno vivendo la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno, finanche con i familiari che, quando va bene, possono vedere di persona, una volta al mese e separati da una barriera di plexiglas. Unico conforto: il telefono. Il tutto per misure di prevenzione giustificate dal fatto che le carceri sono comunità chiuse, in cui convivono centinaia, se non migliaia di persone, in spazi insufficienti e con scarse condizioni igieniche; in cui è impensabile seguire le indicazioni di prevenzione e distanziamento fisico. Se le persone sono rinchiuse, il carcere è però un “luogo aperto”, purtroppo anche al contagio, dove ogni giorno entrano ed escono molti addetti.
Appare drammaticamente evidente che le prigioni rappresentano uno dei posti a più alto rischio di rapida diffusione del virus in caso di contagio. Anche all’esterno.
Non a caso il Comitato Nazionale per la Bioetica (nel parere “Covid-19: salute pubblica, libertà individuale, responsabilità sociale”, maggio 2020), definisce le carceri come “situazione particolarmente critica”, anche perché “critiche sono le condizioni di partenza” e inserisce le persone rinchiuse tra i “gruppi più vulnerabili” al contagio, assieme agli anziani confinati nelle RSA.
Ma se le carceri sono come le RSA e i detenuti rappresentano un gruppo “ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale”, come mai non sono stati inseriti tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale contro il Covid-19, a differenza degli ospiti delle RSA? Se negli istituti di pena l’età media è più bassa, le condizioni igienico-sanitarie sono certamente peggiori, e vi è ampia diffusione di patologie pregresse? Anche a loro va garantito loro il diritto alle pari opportunità nella tutela della salute, oltre ogni timore di reazioni forcaiole.
Nonostante i dati ci dicono che solo l’asintomaticità sta, per il momento, limitando il numero delle vittime, davanti alla ricerca del consenso, neppure l’appello dell’Unione Camere Penali, l’interrogazione della senatrice a vita Liliana Segre o il richiamo del portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Anastasia, sembrano bastare.
Eppure nelle circa 200 carceri italiane vivono e lavorano più di 100.000 persone; oltre a detenuti e detenute, anche operatori di polizia penitenziaria, personale socio-sanitario, amministrativo e di direzione. Persone non solo quotidianamente a rischio personale, ma anche potenziali diffusori del virus al di fuori.
COSA PUOI FARE TU
Chiediamo al ministro della Salute e al Commissario straordinario per l’emergenza Covid, di rispettare le indicazioni fornite dal Comitato Nazionale per la Bioetica. Chiediamo che i detenuti, gli operatori penitenziari e tutti coloro che svolgono attività lavorative ed educative in carcere, vengano inseriti tra le categorie prioritarie nella vaccinazione contro il Covid 19, al pari degli altri ospiti e degli altri operatori di comunità chiuse.
Unisciti a noi per mettere fine a questa palese discriminazione nei confronti di soggetti ugualmente vulnerabili, la cui salute è totalmente nelle mani delle istituzioni che li custodiscono.
È ora di porre rimedio verso una “dimenticanza”, che rischia di apparire agli occhi di detenuti e delle loro famiglie solo come una pena aggiuntiva.
Firma ora la petizione! QUI: https://www.change.org/p/ministro-della-salute-subito-il-vaccino-covid19-nelle-carceri?utm_source=share_petition&utm_medium=custom_url&recruited_by_id=adf371b0-0b3d-0130-8d5c-38ac6f16d25f
avevamo dimenticato di scrivere che la maratona è stata curata dall’Associazione Yairaiha Onlus, per la precisione
questo articolo mi ha lasciata allibita, mai avrei potuto immaginare che i carceri di questo paese che si
considere civile, sono in realtà dei lager nazisti, sono esterrefatta e addolorata. angela
mi rammarico per le notizie, ma è meglio sapere che essere fuori della realtà.
Il suicidio è una forte tentazione. E’ necessario dare speranza, anche se solo “germogli” di speranza.
Ho scritto un piccolo libro “GERMOGLI”.