Zampogne e fantascienza
di Mauro Antonio Miglieruolo
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È il passato che determina la capacità di resistenza di un popolo e che lo stimola alla crescita.
Capita a volte di udire commenti sarcastici e persino altezzosi sulla musica e sugli strumenti del passato. In particolare quella eseguita con le zampogne. Commenti non qualsiasi, commenti usciti da bocche del Sud, le ultime a staccarsi dalle tradizioni del mondo rurale. Segnale non secondario della enorme crisi culturale che ha investito e travolto il paese tra gli anni ’50 e ’60, rendendolo irriconoscibile a se stesso. Il prezzo pagato lo conosciamo tutti, quello più grave lo stiamo pagando adesso, nell’era della restaurazione borghese, il prezzo di una emarginazione culturale che si somma a quello della perdita di sovranità, alla disintegrazione dello stato sociale, al tendenziale abbandono dello stato di diritto. Sono sempre gravi le conseguenze della perdita di relazione con le proprie radici. Non a caso le imprese coloniali cominciano proprio con la demolizione del collante culturale e religioso che tiene insieme un popolo. Senza questo preventivo lavoro di perdita di identità, svolto nel passato dai missionari e oggi dagli operatori dei media (e economisti che abitano questi media), è praticamente impossibile assoggettare anche il più primitivo dei popoli.
Tutte le volte che ho avuto occasione di udire tali commenti sprezzanti ho avvertito anche la tentazione di intervenire per esortare a moderare il disdegno, anzi a considerare il valore del proprio passato, in assenza del quale nessun presente è possibile. Ne sono stato dissuaso dalla forte consapevolezza dell’inutilità di qualsiasi tentativo di rimettere le cose nell’ordine giusto e considerare (ad esempio) che essere giovani e nuovi non vuol dire necessariamente caricarsi una scimmia sulla schiena, utilizzare il divertimento come mezzo di fuga dalla realtà, presumere di poter fare a meno della cultura ereditata, che costituisce il 99% dei pensieri, delle parole, degli strumenti, delle idee professate. Vana è la pretesa di reinventare tutto. Anche in tempi rivoluzionari, lo abbiamo visto non in una ma almeno in una decina di rivoluzioni (a partire da quella inglese delle Teste d’Uovo per finire nella Grande Rivoluzione Culturale Cinese), il giorno dopo la presa del potere i condizionamenti determinati dal passato sono tali da comprometterne o quantomeno pesantemente condizionare gli esiti di qualsiasi rivolgimento. Noi viviamo perché abbiamo un passato, abbiamo genitori e nonni, lo hanno anche le nostre idee, anche loro generate da altre idee, altri pensieri. Nulla mai si perde nella storia del mondo e tutto può essere riutilizzato. Le tendenze predominanti oggi possono offuscare questo o quel punto di vista; non è detto che domani esso non torni sul proscenio della storia come protagonista, pur essendo stato nei suoi trascorsi poco più che una comparsa. Succede nelle religioni, che recuperano materiali di risulta delle avversarie sconfitte (vedi la parte avuta dalla religione Pagana nella formazione dei riti della Chiesa – per non parlare del ruolo nei riti popolari); e succede nella moda, nella quale sfacciatamente vengono riciclati stili che sembravano seppelliti per sempre (personalmente temo il ritorno delle camice con maxi colletti e i pantaloni a zampa d’elefante). Solo nelle scienze il passato seppellito generalmente non ritorna (ma qui siamo sul terreno della continua confutazione), ma anche nelle scienze i paradigma di oggi si fondano su quelli del passato (sul lavoro dei titani del passato).
Si tratta di considerazioni di semplice buon senso alle quali il corso degli eventi, gli interessi ideologici della borghesia, l’incultura galoppante, ha tolto ogni senso. A partire dal senso storico, quasi annientato per demerito del pensiero debole e dei deboli di pensiero enunciatori di leggerezze tipo “fine della storia”.
L’alluvione del non-senso storico, contro il quale ha vanamente tentato di far argine la fantascienza (che essenzialmente è senso della storia), è tale che nessuna parola, nessuna dimostrazione possono fare argine contro questa deriva culturale; e allentare la morsa del pregiudizio che accerchia l’idea di processo storico e di Storia. Si tratta dello stesso pregiudizio che rende la vita difficile ai fantascientisti: senza il concetto di divenire, di mutamento e di costruzione del presente come processo, neppure quello di fantascienza può farsi avanti. Se non nelle menti di alcuni avventurosi che dell’esplorazione del possibile fondano molte loro convinzioni. È sull’allentamento della presa di questi concetti, la cui lontana origine, insieme a altre e molteplici cause, risiede nelle attuali difficoltà del marxismo (difficoltà conseguenti ai grandi successi conseguiti negli ultimi decenni dal Capitale nella sua ininterrotta, diuturna offensiva di classe contro il lavoro), che si basano le analoghe difficoltà che rendono asfittica, non persuasiva, la proposta della fantascienza. Senza senso della storia neanche può esservi senso nella fantascienza (senza capacità di lettura del passato, neppure può esservi capacità di lettura del presente, che da quello dipende. In assenza di una lettura accettabile del presente neppure è possibile immaginare un futuro plausibile). Senza fantascienza, per altro, neppure può esservi efficace difesa delle concezioni della storia non storiciste, la cui sussistenza dipende dalla capacità di immaginare e gestire le varie istanze di futuro inscritte nella realtà corrente, nel proprio vissuto; istanze che sono mere possibilità in attese del divenire. Il presente è tanto condensazione di un passato, quanto il futuro è possibilità di sviluppo di un presente che si fa passato (fantastica finzione, che tanto ha affascinato noi e affascinerà forse coloro che seguiranno).
Per demolire il solido muro di incomprensione che imprigiona la fantascienza è necessario allora entrare in una dimensione nella quale il passato (con le sue zampogne, i suoi costumi tribali, i suoi primitivismi e le sue brillantissime intuizioni) sia non solo rispettato, ma anche considerato. Non si tratta quindi di un rispetto formale, esteriore, ma da un rispetto che parte dalla capacità di intenderne ed apprezzarne il valore. Per lasciarlo dov’è, probabilmente; ma soprattutto per studiarne il cammino, che è anche il cammino virtuale che dobbiamo intraprendere per, a nostra volta, dare quei passi virtuali in grado di avviare il processo mentale che permette la costruzione di un ipotetico futuro (che non è detto non diventi futuro effettivo). Ogni presa di distanza da questo passato, è bene esplicitare, produce una analoga presa di distanza dallo stesso presente, il cui spazio viene allora occupato dal falso presente artificiale immaginario edificato dal Capitale, neutralizzando così ogni possibile pensiero alternativo, cioè ogni possibile concezione di un futuro diverso da quello di crescente servitù immaginato dal capitale.
La fantascienza, a questo punto, in quanto letteratura della speculazione e delle audacie immaginative, si ritrova inerme di fronte alle aggressioni filosofiche tendenti a eliminare ogni concezione intorno alla possibilità del mutamento, a ogni pensiero critico, ogni proiezioni verso un domani effettivamente ed efficacemente differente dall’incubo rappresentato dalle proposte del capitale; e si ritrova inerme al cospetto di ogni tentativo di diminuzione del proprio valore, fino alla negazione totale di un qualche valore.
Ecco perché colpire le zampogne equivale a colpire al cuore la fantascienza. Perché l’attacco alle zampogne non può essere efficace se non a prezzo del senso della storia: il che impedisce anche siano scritte storie.
Per dirla in altri termini, termini metaforici, la musica del dollaro, la musica della materialità cosale, ha reso sordi a ogni altra suono. Non a caso è negli USA, paese del pragmatismo e del tempo presente (riempiamoci di derivati e al diavolo quello che ne deriverà domani!), che spontaneamente la fantascienza ha trovato il modo di reagire all’impoverimento concettuale insisto nello storicismo tipico dei nostri tempi. Ed è lì, dove ha avuto inizio, con il trionfo del Reaganismo, che ha avuto pure inizio il suo apparentemente inevitabile declino.
2
Rompere i rapporti con il passato equivale a immergere le speranze del futuro nell’acido del cinismo e della superficialità.
Pentito di questo silenzio, frutto del senso di impotenza sopra descritto ma anche dell’opportunistica volontà di quieto vivere, scelgo di parlare oggi e di avanzare le esortazioni delle quali mi sono privato ieri.
Comprendo che il suono lamentoso e primitivo delle zampogne possa spiacere a più d’uno. Non tutti abbiamo gli stessi gusti, uguale sensibilità, analoghe larghe dosi di pazienza. Lo stesso aspetto rozzo dello strumento può contribuire a allontanare chi si lasciasse sedurre dalla monotona, lamentosa coerenza dei suoi suoni. Quel che comprendo meno è il raddoppio di questa indisponibilità a entrare nella musica del tempo passato. Da una parte si rifiuta di condividere; dall’altro persino di prenderne atto, di accettarne l’esistenza (da cui i sarcasmi, i sorrisetti, lo scrollare di spalle).
Un rifiuto che non è soltanto un torto che si fa a se stessi, vietandosi (oltre a vietare) un godimento estetico (mi confesso, io non mi faccio mancare, se capita, neppure la lettura di Topolino), ma anche alla società tutta, alla quale viene reso più difficile comprendere il senso che quella sopravvivenza del passato (della quale per altro nessuno si chiede le ragioni: e si tratta forse di diecimila e più anni).
Perché la zampogna è lo strumento per mezzo del quale gli uomini della preistoria si pongono in relazione con noi. Lo strumento attraverso il quale parlano di se stessi (e noi parliamo con loro), del lavoro immenso di separazione dalla natura che hanno svolto per sollevarsi di sopra dal livello animale e a permesso a noi tutti di innalzarci alle attuali altezze.
Quei grandi preistorici, che costruivano utensili senza alcun ausilio di utensili e idee senza un addestramento preventivo alla costruzione di idee; che procedevano nella totale ignoranza delle cose del mondo, in un buio appena rischiarato da qualche intuizione; che hanno lavorato a mani nude e pensieri nudi; quei grandi preistorici costituiscono, veramente ed effettivamente, le basi e le fonti dell’attuale civiltà. Su quei pilastri è stato costruito, in migliaia e migliaia di anni di guerra spietata contro l’ignoranza, il mondo moderno e l’immensa civiltà musicale d’Oriente e d’Occidente. Come è possibile chiedere implicitamente di ignorarli, ignorando che nello stesso tempo si sta chiedendo alla cultura di morire? Sarebbe lo stesso d’un albero che, per emanciparsi, pretendesse gli venissero tagliate le radici! Questo singolare strumento, la zampogna, insieme alle percussioni, allo scacciapensieri, al piffero, sono appunto parte di queste radici: sono il ponte gettato tra noi e loro; il grande ponte che permette a civiltà diverse di comunicare e forse anche di comprendersi. Può sembrare paradossale, anche se vero. Attraverso la zampogna e le riflessioni sulla zampogna, noi meglio concepiamo la vera essenza e il valore vero, profondo della modernità, nonostante che la modernità nutra pensieri poco amichevoli nei confronti del passato (la modernità è negazione radicale e illusoria del passato).
D’un passato che non passa e non passerà finché ci saranno uomini e ci sarà necessità di progredire.