Zelensky dichiarerà guerra alla Cina?

articoli e video di Patrick Lawrence, Giorgio Abamben, Danilo Torresi, Davide Fiorello, Aurelien, Giorgio Monestarolo, Alessandro Bergonzoni, Manlio Dinucci, Giacomo Gabellini, Roberto Buffagni, Elena Basile, Pepe Escobar, con un disegno di Mr Fish

Finale di partita degli Stati Uniti in Ucraina – Patrick Lawrence

Guerra senza fine, amen

Cosa succede quando una nazione potente non può permettersi di perdere una guerra che ha già perso?

Sono ormai trascorsi due anni e mezzo da quando Mosca ha inviato due progetti di trattato, uno a Washington e uno alla NATO a Bruxelles, come proposta di base per colloqui di un nuovo accordo sulla sicurezza: un rinnovamento delle relazioni tra l’alleanza transatlantica e la Federazione Russa..Una ristrutturazione urgentemente necessaria, bisogna subito dire. E poi dobbiamo anche aggiungere l’immediato rifiuto da parte del regime di Biden delle proposte della Russia in quanto “neppure considerate” più velocemente che pronunziare “illusi”. Fermiamoci un attimo per rammentare tutti coloro che sono morti nella guerra scoppiata in Ucraina un anno e pochi mesi dopo che Joe Biden aveva rifiutato, o addirittura deriso, l’onorevole iniziativa diplomatica di Vladimir Putin. Tutti i mutilati e gli sfollati, tutti i paesi e le città distrutti, tutti i terreni agricoli trasformati in paesaggi lunari. E l’accordo di pace quasi completo, negoziato a Istanbul poche settimane dopo l’inizio della guerra che Stati Uniti e Gran Bretagna si sono affrettati a far naufragare. E ovviamente tutti i miliardi di dollari, qualcosa più dei 100 miliardi di dollari attuali, non spesi per migliorare la vita degli americani, ma spesi invece per armare un regime di Kiev che ruba gli aiuti in modo stravagante mentre schiera un esercito di sedicenti neonazisti. È utile ricordare queste cose perché danno un contesto a una serie di sviluppi recenti che è importante capire, anche se i nostri media di sistema scoraggiano tale comprensione. Se teniamo a mente la storia recente, saremo in grado di vedere che le decisioni viscosamente irresponsabili di un paio di anni fa, così dispendiose in vite umane e risorse comuni, si ripetono ora in modo tale che è ormai certo che le brutalità e gli sprechi continueranno all’infinito, anche se la loro inutilità è ormai molto, molto, molto oltre ogni negazione.

La porta che si apre su questa nuova sequenza di eventi è la recente avanzata dell’esercito russo nel nord-est dell’Ucraina. Questa nuova incursione ora minaccia Kharkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina a sole 25 miglia dal confine russo. Anche la stampa mainstream, restia a riferire le battute d’arresto subite dalle Forze Armate dell’Ucraina (AFU), descrive la campagna della Russia nel nord-est, iniziata poche settimane fa, come una disfatta. Il Cremlino afferma di non avere alcun interesse a prendere Kharkiv, e finora sembra che sia proprio così.

Ma la rapida ritirata dell’AFU porta con sé un forte lezzo di sconfitta finale che si diffonde da non molto lontano. “Molte brigate combattenti ucraine non hanno disertato, né hanno pensato di farlo”,  ha riferito nella sua newsletter la settimana scorsa [1] Seymour Hersh, citando le sue consuete fonti “mi è stato detto”, “ma hanno fatto sapere ai loro superiori che non parteciperanno più a quella che sarebbe un’offensiva suicida contro una forza russa meglio addestrata ed equipaggiata”. Le brigate contano in media dai 4.000 ai 5.000 soldati ciascuna e possono arrivare a 8.000 o anche di più. Il rapporto di Hersh suggerisce che un numero considerevole di truppe ucraine, e forse un numero davvero considerevole, si stanno ora effettivamente ammutinando all’alto comando dell’AFU. In evidente risposta alla nuova rapida incursione della Russia e alla direzione generale della guerra, la macchina di propaganda americana, ben coordinata seppur non molto astuta, ha iniziato a preparare l’opinione pubblica a una guerra più ampia che si estenderà, come questione di politica e strategia militare, in territorio russo. Questo sforzo è iniziato con una intervista del New York Times a Volodymyr Zelenskyj [2], videoregistrata e pubblicata nelle edizioni di mercoledì scorso. Una trascrizione dell’intervista la trovate qui [3]. Questo documento ha chiaramente lo scopo di fare appello ai liberali mangia-cavoli che sostengono Biden, i quali devono essere certi dell’umanità e del buon senso del presidente ucraino, proprio come lo siamo noi. Ha parlato dei suoi figli e dei suoi cani – devono sempre esserci dei cani in questo tipo di immagini – e di come legge romanzi ogni sera ma poi è troppo stanco per procedere nella lettura. Ma il punto centrale, al di là della facciata, è stato insistere sul fatto che è ora di iniziare a bombardare il territorio russo e che il regime di Biden deve revocare il divieto di tali operazioni.

Un passaggio chiave:

Quindi la mia domanda è: qual è il problema? Perché non possiamo abbatterli? È una difesa? SÌ. È un attacco alla Russia? No. Stiamo abbattendo aerei russi e uccidendo piloti russi? No. Allora qual è il problema nel coinvolgere i paesi della NATO nella guerra? Non esiste un problema del genere.

Abbattiamo ciò che c’è nel cielo sopra l’Ucraina. E dateci le armi da usare contro le forze russe ai confini”.

Zelenskyj, senza dimenticare che è un attore televisivo, ha interpretato questo ruolo in numerose occasioni: Tormentateci con richieste di carri armati, aerei, artiglieria a lungo raggio e missili, recita il copione scritto a Washington, e noi esiteremo un po’ prima di soddisfare le vostre pressanti esigenze mentre difendete la democrazia, il mondo libero e tutti quegli altri “valori” dell’inventario della Guerra Fredda. Due giorni dopo, il Times ha riferito in esclusiva [4] che il segretario di Stato americano Antony Blinken, di ritorno da “una visita a Kiev che fa riflettere”, ha improvvisamente deciso che è davvero giunto il momento di ampliare la guerra nella direzione di uno scontro diretto con la Russia. Val la pena notare il sottotitolo di questo articolo: è di David Sanger, che di solito scrive questo tipo di pezzi profondi perché, a quanto pare, lui è così malsanamente profondo. “Ora è in corso un acceso dibattito all’interno dell’amministrazione per alleggerire il divieto”, riferisce il nostro David, “per consentire agli ucraini di colpire siti di lancio di missili e artiglieria appena oltre il confine con la Russia – obiettivi che, secondo Zelenskyj, hanno consentito le recenti conquiste territoriali di Mosca”. Capite cosa intendo per senza arte? L’uno-due di questa operazione di gestione della percezione ha tutta la finezza della vecchia rivista MAD. Comincio a offendermi, sinceramente. Se devo essere sottoposto a una propaganda incessante, esigo, esigo assolutamente che sia abbastanza sofisticata da essere almeno divertente. Tra l’intervista di Zelenskyj e il rapporto Sanger, i russofobi al Congresso non hanno perso tempo ad impegnarsi in questa operazione. Michael McCaul, il repubblicano del Texas che si colloca insieme a Tom Cotton tra gli eminenti dummköpfe [stupidi] che popolano Capitol Hill, si è avventato in modo partigiano mercoledì scorso.

McCaul, che presiede (non riesco a crederci) la commissione per gli affari esteri della Camera, stava davanti a una mappa che mostrava – secondo i miei conti – circa 50 obiettivi in ​​territorio russo. E lì ha fatto la doppietta, sostenendo la rimozione delle restrizioni allo spiegamento di armi statunitensi e trasformando la questione in un attacco noiosamente inutile al regime di Biden.

Ecco cosa ha detto:

Stiamo vivendo una situazione davvero brutta, come sapete. Questa è una zona santuario che hanno creato loro [i russi] …. Tuttavia, la vostra amministrazione e Jake Sullivan [sic] hanno limitato l’uso delle armi in modo che l’Ucraina non può difendersi e rispondere al fuoco contro la Russia. Ecco perché col supplemento [il pacchetto di aiuti che Biden ha firmato in legge il mese scorso], ho ordinato gli attacchi a lungo raggio, a corto raggio e gli HIMARS che la vostra amministrazione aveva impedito [di usare] legando [agli ucraini] le mani dietro la schiena”.

Non importa l’incoerenza. Un santuario? I russi hanno creato un santuario sul proprio territorio? Che razza di linguaggio è questo? Cosa passa per la stramba mente di McCaul, il confine cambogiano nella primavera del 1969, l’Operation Menu [5]? Dichiariamo tutti che ci sentiamo insicuri quando ci rendiamo conto di ciò di cui parlano queste persone e di quello che stanno rischiando. Qualsiasi autorizzazione per un uso esteso di armi prodotte dagli Stati Uniti contro obiettivi russi, che poi richiederà personale americano sul terreno in Ucraina, trasformerà inequivocabilmente la guerra per procura in un conflitto diretto tra Stati Uniti e Federazione Russa. Un pantano, per qualcuno? La scorsa settimana la Reuters ha presentato una rilevante esclusiva che cambia tutto [6], rivelando inequivocabilmente fughe intenzionali di notizie dal Cremlino che segnalano il desiderio del presidente Putin di fermare la guerra in Ucraina e negoziare un cessate il fuoco. Guy Faulconbridge e Andrew Osborn hanno citato interviste con “cinque persone che lavorano o hanno lavorato con Putin ad alto livello nel mondo politico e imprenditoriale”.

È ora di mettersi seduti.

“Tre delle fonti, che hanno familiarità con le discussioni nell’entourage di Putin”, hanno riferito i due corrispondenti, “hanno detto che l’anziano leader russo aveva espresso frustrazione a un piccolo gruppo di consiglieri per quelli che considera tentativi, sostenuti dall’Occidente, di ostacolare i negoziati e la decisione del presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy di escludere i colloqui”. Hanno poi citato una delle loro fonti, “una fonte russa di alto livello che ha lavorato con Putin ed è a conoscenza delle conversazioni ad alto livello al Cremlino”, affermando: “Putin può combattere per tutto il tempo necessario, ma Putin è anche pronto per un cessate il fuoco, al fine di congelare la guerra”. Anche se Putin ha inviato segnali del genere in numerose occasioni nel corso degli ultimi dieci anni di guerra, a mio avviso si tratta di un segnale importante. Per prima cosa, indica chiaramente in cosa consiste la nuova campagna di Kharkiv. Mosca non vuole prendere Kharkiv, come suggerisce il rapporto Faulconbridge e Osborn: vuole entrare nei colloqui dalla posizione di forza che tutte le parti in tutti i conflitti cercano nella fase di pre-negoziazione. Alcuni altri dettagli confermano ciò che distingue questo insieme di segnali del Cremlino da quelli inviati in precedenza. Dal rapporto Reuters:

Tre diverse fonti hanno affermato che Putin era consapevole che qualsiasi nuovo progresso drammatico [nella guerra] avrebbe richiesto un’ulteriore mobilitazione a livello nazionale, cosa che non vuole, mentre una fonte, che conosce il presidente russo, ha affermato che la sua popolarità era diminuita dopo la prima mobilitazione nel settembre 2022.

Quella convocazione nazionale ha spaventato parte della popolazione russa, spingendo centinaia di migliaia di uomini in età di leva a lasciare il paese. I sondaggi hanno mostrato che la popolarità di Putin era diminuita di diversi punti”.

Interessante. Un altro motivo per ascoltare ciò che il Cremlino vuole che il mondo sappia proprio adesso.

Non accetterò il suggerimento di Reuters secondo cui Putin soffre di nervosismo in politica. Ha appena vinto un nuovo mandato di sei anni come presidente. Ma il leader russo ha dimostrato numerose volte in passato di essere sensibile al sentimento popolare, ai sacrifici dei soldati lontani dalle loro comunità e dai luoghi di lavoro, e alle immagini della guerra: sacchi per cadaveri negli aeroporti, file di tombe di soldati. Come riferiscono Faulconbridge e Osborn, Putin continua a respingere l’insistenza del regime di Zelenskyj secondo cui nessun dialogo potrà iniziare finché l’Ucraina non avrà riconquistato tutto il territorio che ha perso dall’inizio della guerra nel 2014, compresa la Crimea. “Lasciamo che i colloqui riprendano”, ha detto Putin venerdì, “ma non sulla base di ciò che vuole una delle parti”. Tramite le rivelazioni dei suoi confidenti, quasi certamente autorizzati, Putin propone quello che equivale ad un armistizio. Entrambe le parti smetterebbero di sparare e le conquiste territoriali rimarrebbero quelle attuali, non necessariamente definite per sempre, ma fino a quando entrambe le parti non riusciranno a negoziare un altro passo verso una soluzione duratura. No, Kiev non riconquisterà la Crimea o le quattro repubbliche che hanno votato nel settembre 2022 per unirsi alla Russia; ma la Russia non avrà neppure smilitarizzato o denazificato l’Ucraina, come ha più volte affermato quale suo obiettivo.

C’è un principio giuridico che risale ai Romani: Qui tenet teneat – “chi possiede continui a possedere”, in parole povere – è spesso una caratteristica della diplomazia asiatica, che accetta maggiormente la fluidità e le incertezze temporanee che gli occidentali di solito non sono disposti ad accettare. Chas Freeman, il noto diplomatico, me lo ha insegnato anni fa attraverso le complesse controversie sulle giurisdizioni marittime nel Mar Cinese Meridionale. La proposta di Putin, vista in questo contesto, mi sembra l’idea più promettente al momento e, da notare, un certo numero di funzionari e commentatori in Occidente hanno diffuso quell’idea negli ultimi mesi. “Un conflitto congelato, come quelli in Kashmir, Corea e Cipro”, ha detto l’altro giorno John Whitbeck, noto avvocato internazionale, in una nota diffusa privatamente, “anche se non è l’ideale, sarebbe molto meglio di un’ulteriore guerra e moltissimo nella prospettiva dell’interesse dell’umanità”. Questo ci riporta a… a dicembre 2021, in realtà. Oggi come allora, né Kiev né Washington hanno alcun interesse ad avere idee ottimistiche. Gli addetti alla sicurezza nazionale di Biden non si sono nemmeno mossi per reagire al rapporto Faulconbridge e Osborn. Che almeno rispondessero con un “non-starter” [perso in partenza], il loro inglesismo preferito. Il regime di Zelenskyj ha immediatamente risposto al rapporto Faulconbridge e Osborn con un altro attacco, ancora una volta non di meno della sua consueta antipatia personale verso l’uomo. “Putin attualmente non ha alcun desiderio di porre fine alla sua aggressione contro l’Ucraina”, ha detto a Reuters Dmytro Kuleba, il dilettante ministro degli Esteri di Kiev. “Solo la voce unita e di principio della maggioranza globale può costringerlo a scegliere la pace invece della guerra”. Putin. La sua aggressività. Nessun desiderio di farla finita. Semplicemente non riesco a capire come qualcuno possa prenderla sul serio come modalità di governo. È un atteggiamento fallimentare, niente di più. Per quanto riguarda la voce della maggioranza globale menzionata da Kuleba, aspettiamola. Questo è un riferimento a una conferenza di due giorni che Zelenskyj e i suoi ministri hanno organizzato a metà giugno. Gli svizzeri hanno accettato di ospitarlo in un resort di proprietà del governo del Qatar vicino al Lago di Lucerna, e il Ministero degli Esteri svizzero, accettando le pretese degli ucraini, lo definisce “un vertice di pace”. Un vertice di pace? Per favore ditemi come funziona. I russi non sono nemmeno invitati. Si tratta di un tentativo di Zelenskyj di convincere il mondo ad allinearsi con lui mentre continua a condurre una guerra che ha già perso. Come mi ha detto sabato sera a cena un ex funzionario svizzero: “È un problema di soldi. Kiev ha bisogno di soldi”. Si dice che Biden abbia intenzione di partecipare, ma penso che sia fuori discussione. Zelenskyj ha detto che a metà aprile si aspetta da 80 a 100 capi di Stato, ma ne ho molti dubbi. Al 15 maggio,  riferisce Le Monde, all’invito di Berna avevano risposto circa 50 nazioni. Ricordate, dall’80 al 90% del globo, misurato in termini di popolazione o contando le nazioni sovrane, è rimasto risolutamente non allineato sulla questione ucraina. Conferenze di pace svizzere, interviste rilasciate dal New York Times, membri del Congresso che suonano le sirene da nebbia mentre applaudono una guerra più ampia: trovo tutto questo straordinariamente penoso. Forse Putin è serio riguardo alla sua proposta di armistizio, forse c’è meno di quanto sembri. Ma nessuno dalla parte opposta vuole neppure prendere in considerazione l’idea di porre fine alla guerra? La risposta netta alla nuova avanzata russa verso Kharkiv e alle fughe di notizie del Cremlino della scorsa settimana è quella di lanciare una nuova fase in una guerra per procura che l’Occidente ha già perso – una fase che sembra avere anch’essa poche possibilità di successo, ma che comporta più pericoli che altro e che qualunque statista veramente responsabile mai rischierebbe di correre. Dmitry Peskov, l’elegante portavoce del Cremlino, l’altro giorno ha detto a Faulconbridge e Osborn che la Russia non vuole “una guerra eterna”, una guerra eterna nel linguaggio americano. Questa è una buona cosa da non volere. Né Biden né Zelenskyj, d’altro canto, vogliono che questa guerra finisca: non possono permetterselo per una serie di ragioni. Questa è la realtà. Sono loro il principale ostacolo alla pace. Hanno dipinto il conflitto come una sorta di confronto cosmico tra il bene e il male, mettendo così anche loro stessi in un angolo.

Ma cosa succede quando una nazione potente non può perdere una guerra che ha già perso?

Traduzione a cura di Old Hunter

Note

  1. https://www.nytimes.com/2024/05/21/world/europe/ukraine-zelensky-interview.html
  2. https://www.nytimes.com/2024/05/21/world/europe/zelensky-interview-times-transcript.html
  3. https://www.nytimes.com/2024/05/22/us/politics/white-house-ukraine-weapons-russia.html
  4. https://www.c-span.org/video/?c5118262/rep-michael-mccaul-restrictions-ukraine
  5. https://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Menu
  6. https://www.reuters.com/world/europe/putin-wants-ukraine-ceasefire-current-frontlines-sources-say-2024-05-24/

da qui

 

 

 

 

L’invenzione del nemico – Giorgio Abamben

Credo che molti si siano chiesti perché l’Occidente, e in particolare i paesi europei, cambiando radicalmente la politica che avevano perseguito negli ultimi decenni, abbiano improvvisamente deciso di fare della Russia il loro nemico mortale. Una risposta è in realtà senz’altro possibile. La storia mostra che quando, per qualche ragione, vengono meno i principi che assicurano la propria identità, l’invenzione di un nemico è il dispositivo che permette – anche se in maniera precaria e in ultima analisi rovinosa – di farvi fronte. È precisamente questo che sta avvenendo sotto i nostri occhi. È evidente che l’Europa ha abbandonato tutto ciò in cui per secoli ha creduto – o, almeno, ha creduto di credere: il suo Dio, la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, la giustizia. Se nella religione – con la quale l’Europa si identificava – non credono più nemmeno i preti, anche la politica ha perduto ormai da tempo la capacità di orientare la vita degli individui e dei popoli. L’economia e la scienza, che hanno preso il loro posto, non sono in grado in alcun modo di garantire un’identità che non abbia la forma di un algoritmo. L’invenzione di un nemico contro il quale combattere con ogni mezzo è, a questo punto, il solo modo di colmare l’angoscia crescente di fronte a tutto ciò in cui non si crede più. E non è certo prova di immaginazione aver scelto come nemico quello che per quarant’anni, dalla fondazione della NATO (1949) alla caduta del muro di Berlino (1989), ha permesso di condurre sull’intero pianeta la cosiddetta guerra fredda, che sembrava, almeno in Europa, definitivamente sparita.
Contro coloro che cercano stolidamente di ritrovare in questo modo qualcosa in cui credere, occorre ricordare che il nichilismo – la perdita di ogni fede – è il più inquietante degli ospiti, che non soltanto non si lascia addomesticare con le menzogne, ma non può che portare alla distruzione chi lo ha accolto nella sua casa.

da qui

 

 

 

 

 

Per una posizione coerente contro l’allargamento del conflitto in Ucraina – Davide Fiorello

Ufficialmente il nostro Paese non è in guerra. Tuttavia, invia, o contribuisce ad inviare, sostanziosi aiuti finanziari e di materiale logistico e bellico all’Ucraina e firma con essa accordi di cooperazione militare[1];  partecipa attivamente e convintamente alle sanzioni economiche nei confronti della Russia e fa parte di organizzazioni internazionali in seno alle quali emergono sempre più frequentemente prospettive di impegno diretto nel conflitto.

Dunque, la guerra ci riguarda molto più da vicino di quanto sia mai successo dalla fine del Secondo conflitto mondiale e molti segnali fanno temere che il nostro coinvolgimento sia destinato ad approfondirsi. Il fatto che una guerra non sia più un evento da libri di storia, da notizie del telegiornale o, al limite, da edizioni straordinarie, ma una realtà concreta e diretta, non sembra però suscitare particolare allarme. Certamente, non lo suscita tra le forze politiche, visto che in cima al dibattito non ci sono le ventilate possibilità che alcuni Paesi europei inviino truppe al fronte o il fatto che il nostro governo firmi un accordo militare senza che tale decisione sia una scelta del Parlamento, ma i cosiddetti “dossieraggi” o gli esiti delle elezioni regionali. Ma anche l’opinione pubblica non sembra credere davvero alla possibilità che la guerra possa estendersi. Legge o ascolta dei gravi rischi legati a un coinvolgimento diretto della NATO senza che questo faccia scattare iniziative, mobilitazioni, manifestazioni della portata che ci si aspetterebbe di fronte alla gravità degli scenari.

C’è da augurarsi che questa apparente noncuranza sia giustificata e non rappresenti un atteggiamento da struzzo che non vuole vedere qualcosa di troppo orribile per credere che potrebbe succedere davvero e presto. Io ho il timore che l’ipotesi dello struzzo sia fondata, che i rischi di un’esplosione del conflitto siano molto alti. Che questa eventualità non si faccia largo nell’opinione pubblica può essere spiegato, a mio avviso, con un ampio consenso sulla posizione ufficiale del nostro Paese, dell’Unione Europea e della NATO sulla guerra in Ucraina. Anche solo perché è proposta incessantemente e in modo martellante, credo, che molti accettino l’interpretazione della guerra come un evento scatenato unilateralmente da un pericoloso dittatore che, senza alcuna motivazione, ha voluto invadere un Paese confinante per sottometterlo. Un’invasione che sarebbe soltanto il primo passo verso un progetto di progressiva espansione militare verso occidente. Dunque, la guerra in Ucraina va combattuta e vinta per impedire che il mondo libero e democratico cada sotto il giogo del totalitarismo.

Se è vero che la blanda attenzione nei confronti dei rischi del conflitto dipende dal fatto che questa rappresentazione è accettata da molti, allora chi osserva sgomento il montare dei toni belligeranti, prova terrore alla prospettiva di una progressiva escalation, vorrebbe manifestare il proprio allarme e la propria volontà di scongiurare un allargamento del conflitto deve prenderne atto. Dunque, non può limitarsi a dichiarazioni di principio e ad appelli generici. Né può cercare di far riflettere l’opinione pubblica facendo leva solamente sulla paura per scenari disastrosi, fino all’apocalisse nucleare. Per cercare di creare un movimento di opinione che si esprima con forza contro la guerra, è indispensabile smarcarsi dalla propaganda bellicista e negare la lettura della guerra che viene proposta in modo martellante.

In questo momento, per cercare di allontanare lo spettro della guerra bisogna affermare alcuni presupposti fondamentali che il bombardamento politico e mediatico vuole negare.

Il primo presupposto è che non c’è un nemico della civiltà che minaccia, oggi, un Paese campione di democrazia e libertà innocente e, poi, tutti noi. Bisogna prendere atto che:

  • L’aggressione militare dell’Ucraina da parte della Russia non è un atto inaudito e gratuito, ma uno dei tanti sciagurati eventi analoghi che costellano la storia geopolitica anche recente.
  • Le politiche e gli atti della Russia e del suo gruppo dirigente possono essere legittimamente oggetto di dissenso e condanna, ma ciò non rende la Russia uno “stato canaglia” più di altri. Gli USA stessi e la NATO hanno un lungo curriculum di interventi militari e hanno eccellenti rapporti con Paesi illiberali e/o responsabili di ripetute azioni belliche (come Israele, per restare alla tragica attualità).
  • Non vi sono argomenti logici o elementi di fatto per sostenere che la Russia si proponga di invadere altri Paesi europei, come la Polonia o i paesi baltici, qualora sconfiggesse l’Ucraina.

Il secondo presupposto è che i processi geopolitici non si governano a colpi di principi astratti e di manicheismo puritano (e spesso ipocrita) ma con realismo. Bisogna prendere atto che:

  • La solidarietà nei confronti della popolazione ucraina non implica il sostegno alla classe dirigente di quel Paese, che ha disatteso gli accordi di Minsk, inasprito la tensione nelle provincie russofone e si è prestata ad alzare progressivamente il livello di provocazione nei confronti della Russia avvicinandosi alla NATO.
  • Fermare le ostilità per giungere a un compromesso, sul piano territoriale e sulla collocazione dell’Ucraina in relazione alla NATO, non significa tradire gli aggrediti e darla vinta all’aggressore. A prescindere dai meccanismi che hanno portato a questa guerra, la cessazione del conflitto sarebbe nell’interesse della popolazione Ucraina assai più di quanto non sia la sua prosecuzione nel tentativo di riappropriarsi dei territori attualmente sotto il controllo russo.
  • Pretendere che l’unica conclusione accettabile della guerra, una cosiddetta “pace giusta”, sia quella che preveda il ritorno ai confini precedenti all’attacco russo, se non anche il ritorno della Crimea all’Ucraina, equivale a rifiutare la strada delle trattative, perché qualunque trattativa tra belligeranti non può avere come precondizione che il risultato sia il completo prevalere della posizione di uno dei due contendenti.

Il terzo presupposto è che la guerra attuale è una strada senza uscita. Bisogna prendere atto che:

  • Il sostegno finanziario e l’invio di armamenti all’Ucraina non saranno mai in grado di far prevalere quest’ultima, e in tempi rapidi, nel confronto militare contro un Paese come la Russia, largamente superiore per mezzi e per dimensione. Fornire mezzi militari all’Ucraina può solo prolungare il conflitto, non accorciarlo.
  • Poiché l’Ucraina, per quanto assistita militarmente, non potrà prevalere sul campo, rifiutare la possibilità che si possano aprire delle trattative e agire per prolungare il conflitto, sostenendo che qualunque scenario diverso dalla sconfitta della Russia rappresenterebbe un disastro, può solo portare al coinvolgimento esplicito e diretto della NATO nella guerra, con tutte le terribili conseguenze che ne deriverebbero.

Per cercare di agire contro la guerra, nei termini in cui si sta svolgendo adesso e in quelli ancora più tragici che potrebbe assumere, bisogna dire queste cose a voce alta, senza curarsi delle accuse di essere servi di Putin. Se non si agisce su questo terreno, si lascia spazio a chi agitando la paura del nuovo Hitler, farà passare presso l’opinione pubblica qualunque cosa, con tutte le conseguenze del caso.

Chi si rende conto del terribile rischio che stiamo correndo deve parlare e prendere soprattutto due posizioni chiare: bisogna smettere di sostenere l’Ucraina e bisogna smettere di considerare la Russia una minaccia per l’Europa. Senza mettere avanti questi due punti fermi non si agisce per allontanare la guerra ma, consapevolmente o meno, e al di là delle migliori intenzioni, si contribuisce alla sua prosecuzione e al suo allargamento.

[1] https://www.lafionda.org/2024/03/07/cosa-comporta-laccordo-di-cooperazione-militare-tra-italia-e-ucraina/

da qui

 

 

 

Ucraina: Un’ulteriore guida per i perplessi – Aurelien

Non lo sapevano. Ma ora lo sanno

La scorsa settimana abbiamo analizzato cosa potrebbe accadere in Ucraina. Un armistizio, ovvero un accordo su come e quando terminare i combattimenti, dovrà essere negoziato a breve, anche se non sarà semplice da realizzare e potrebbe facilmente fallire. Tuttavia, supponendo che entro la metà del 2025 (o qualsiasi altra data vogliate proporre se ritenete che sia troppo presto) ci sia un armistizio e che i combattimenti siano finiti, cosa succederà? Questo è l’argomento del saggio di oggi.

Le questioni principali sono due. La prima riguarda le circostanze dell’armistizio stesso e il rapporto tra la situazione militare e le decisioni politiche che dovranno essere prese. Comincia a delinearsi la situazione che avevo previsto da tempo: gli ucraini si stanno ritirando da un certo numero di posizioni chiaramente indifendibili e alcune unità sembrano aver ceduto e si sono ritirate senza ordini. Con la crescente carenza di manodopera, equipaggiamento e munizioni, e dato che non si può combattere solo con i soldi, è probabile che entrambi questi processi continuino. Tuttavia, non c’è nulla di deterministico o matematico nella decisione di arrendersi, ed è per questo che è effettivamente impossibile prevedere anche solo una data approssimativa. La storia, che per quanto imperfetta è l’unica guida che abbiamo, suggerisce che ciò che determinerà la data sarà la perdita di speranza e di unità tra l’élite al potere, e questo potrebbe avvenire tra un mese o tra un anno.

Supponiamo quindi, per amor di discussione, che a un certo punto i russi abbiano il pieno controllo della regione del Donbas e che l’UAF si sia ritirata da Kharkov e Odessa. I russi hanno interrotto le operazioni offensive di terra, a eccezione di un’occupazione simbolica di Odessa per prendere il controllo del porto, ma continuano ad attaccare le aree posteriori dell’Ucraina e le infrastrutture del Paese. Ok, e allora? E chi decide?

La settimana scorsa ho sottolineato che la resa è qualcosa che deve essere ordinata dalla leadership politica: non può accadere e basta. Teoricamente, anche in questo caso, il governo di Kiev (e chissà chi sarà al comando a quel punto) potrebbe rifiutarsi di arrendersi. L’UAF avrebbe poche capacità di combattimento, ma d’altra parte i russi potrebbero decidere che sarebbe inutile cercare di occupare l’intero paese e prendere Kiev, e non è detto che abbiano comunque le forze necessarie. A quel punto, si avrebbe una situazione di “nessuna guerra nessuna pace”, in cui i russi probabilmente rinforzano Odessa, ma per il resto si limitano a bombardare obiettivi nelle retrovie.

In una situazione del genere, sarebbe possibile per il governo di Kiev (ammesso che esista un governo effettivo) continuare a fare rumori bellicosi e a gesticolare selvaggiamente, promettendo un’offensiva nel 2026. Da parte loro, gli Stati Uniti (o almeno Biden) cercheranno disperatamente di ritardare una resa formale fino a dopo le elezioni di novembre, per cui si può ipotizzare che almeno fino a quel momento faranno pressione su Kiev affinché rimanga sfiduciata. Ciò che è meno chiaro è cosa possano offrire o minacciare: non ci sono più attrezzature da inviare che possano influenzare l’esito dei combattimenti, e tutto ciò che il denaro può fare è mantenere lo Stato e le sue strutture ancora per un po’. Da parte loro, i russi cercheranno di esercitare una pressione psicologica su Kiev: forse con boati sonici a basso livello sulla capitale o con attacchi dimostrativi a oggetti di prestigio nazionale. Tutto diventerebbe quindi molto complicato e spiacevole, ma questo non vuol dire che, se si riuscisse a gestire una sorta di resa , tutti i problemi scomparirebbero. In molti casi saranno solo all’inizio.

Ciò è dovuto principalmente all’Occidente, e questo è il secondo punto. La coalizione disordinata che ha sostenuto l’Ucraina (NATO, UE, ma anche Giappone e Australia) ha poca coerenza interna e interessi e obiettivi nazionali molto diversi. Questo è stato oscurato dal fatto che l’obiettivo formale dal 2022 – “sostenete l’Ucraina!” – era facile da concettualizzare, almeno come slogan, anche se l’attuazione effettiva è stata molto più complicata. I leader di questi Paesi, così come i loro consiglieri e la loro classe parassitaria, hanno quindi vissuto in una sorta di sogno febbrile dal febbraio 2022. Qualcosa che non si aspettavano, qualcosa di cui non hanno esperienza, qualcosa che fondamentalmente non capiscono, si è rivoltato e li ha morsi. Si muovono meccanicamente, vivono in un universo parallelo che mantiene il più possibile le caratteristiche della loro visione del mondo, confortandosi freneticamente l’un l’altro con il pensiero che presto sarà tutto finito.

Dopo lo shock iniziale, la politica collettiva di “sostegno all’Ucraina” era fattibile perché sembrava che la crisi sarebbe stata breve e si sarebbe risolta a vantaggio dell’Occidente globale. Il peggio che potesse accadere sarebbe stato un paio di mesi di dislocazione, mentre l’esercito russo crollava, l’economia crollava e c’era un cambio di governo a Mosca. In Occidente potrebbero verificarsi alcune perturbazioni economiche, ma non molto, e i vantaggi a lungo termine di sbarazzarsi dell’attuale sistema politico ed economico russo sarebbero enormi per l’Occidente. Questo non è accaduto, naturalmente, ma nell’allucinazione consensuale che funge da club-house per i decisori occidentali, non ha avuto molta importanza, perché, beh, dategli tempo. L’economia russa sarebbe crollata, l’esercito russo era a corto di armi e i coraggiosi ucraini li avrebbero presto sfrattati dal Paese. Quando questo non ha funzionato, beh, bisognava dare un po’ più di tempo. La controffensiva, con equipaggiamento occidentale e truppe addestrate dall’Occidente, avrebbe posto fine alla guerra. Quando non ha funzionato, beh, diamo ancora più tempo e ci inventeremo un altro piano intelligente. Dopo tutto, i russi non stavano guadagnando territorio, vero? Ma ora lo stanno facendo, quindi questa scusa non è più valida.

Tutto ciò rivelerà presto, in modo molto netto, le divisioni che sono sempre esistite in Occidente sull’Ucraina, ma che sono state nascoste sotto la sete di sangue collettiva degli ultimi due anni. E queste divisioni cominceranno a venire a galla ora, quando i russi cominceranno a guadagnare territori e gli ucraini a ritirarsi. Ciò che complica le cose è che queste divisioni non sono solo tra Stati, ma anche al loro interno.

Per la maggior parte dei politici occidentali, la Russia non era una priorità prima del 2022. La Covid non era ancora finita, la maggior parte delle economie occidentali era in cattive acque, la maggior parte dei governi occidentali era spaventata da qualcosa chiamato “populismo” che stava prendendo piede. Sì, c’era una guerra civile in Ucraina, ma se ne parlava molto poco, sì, c’erano sanzioni contro la Russia, ma c’erano anche sanzioni contro ogni sorta di altri Paesi. I Paesi geograficamente vicini alla Russia erano, naturalmente, più interessati agli eventi del Paese, e i principali attori della NATO e dell’UE dedicavano un po’ di tempo al Paese, ma niente di più. Semmai si pensava di più alla Cina.

Non c’è mai stata un’unica “politica” sulla Russia all’interno della NATO o dell’UE, e ci sono stati approcci diversi anche all’interno dello stesso governo. (In effetti, chi ha esperienza del funzionamento interno delle organizzazioni internazionali sarà probabilmente un po’ divertito nel vedere, ad esempio, le parole “NATO” e “politica” comparire nella stessa frase). Per quanto possa essere interessante immaginare comitati segreti che lavorano in tane sotterranee a Bruxelles elaborando piani astuti per molti anni, la NATO è istituzionalmente incapace di fare una cosa del genere. Il che, in un certo senso, è un peccato, perché una politica adeguatamente organizzata potrebbe teoricamente essere messa in atto ora, mentre i membri del comitato segreto si riuniscono d’urgenza, roteando i baffi e dicendo “Maledizione! Sventato di nuovo!”. Ma il problema principale è che, al di là del livello retorico, né la NATO né l’UE hanno una politica coerente e ponderata da cui tirarsi indietro. Tutto è stato inventato nel panico e nella fretta, con compromessi e dita incrociate, e muta continuamente a seconda della situazione. Pertanto, probabilmente nessun Paese ha la stessa idea di ciò che sta facendo e perché, e nemmeno di come ci è arrivato, anche supponendo che i governi stessi siano uniti sulla questione. Dopotutto, molti Paesi hanno seguito le dichiarazioni e i comunicati politici aggressivi nei confronti della Russia perché non si preoccupavano più di tanto e non aveva senso sprecare capitale politico per opporsi. Allo stesso modo, sostenere l’Ucraina contro quelle che sembravano essere mosse aggressive da parte della Russia non sembrava un grosso problema nel 2010, e molti governi avevano altre priorità.

Questo ha portato a una curiosa situazione in cui i leader nazionali, i loro consiglieri e tutti gli opinionisti “seri” sono stati retoricamente dalla stessa parte dell’argomento dal 2021, anche se nella maggior parte dei casi non hanno riflettuto molto sui dettagli o sulle implicazioni. Ma questo è piuttosto insolito nella politica internazionale. Se pensiamo ai moderni disastri di politica estera – Suez, Vietnam, Iraq – è sorprendente che all’epoca ci sia stata una notevole opposizione politica aperta e che in seguito ci siano state persone che hanno potuto affermare, con ragione, di aver avvertito che le cose sarebbero andate male. In questo caso, solo alcune figure marginali in pochi Paesi hanno espresso molti dubbi all’inizio, e il consenso sul fatto che “sostenere l’Ucraina!” è una buona cosa è ancora in gran parte intatto. Di conseguenza, l’unica strategia pubblica che l’Occidente globale potrà utilizzare sarà quella che ho descritto in diverse occasioni, in cui “Putin voleva conquistare l’Europa” ma è stato frustrato dai coraggiosi ucraini e dalla fermezza dell’Occidente.

Ma se nel breve periodo questo può essere una difesa d’ufficio (e sarà rivendicato con entusiasmo dagli opinionisti che hanno sbagliato in modo altrettanto catastrofico), non risponde a quello che sarà il problema più urgente che verrà posto nei vari palazzi di Bruxelles: Che cosa faremo adesso? Né risponde ad altre domande politiche tradizionali, in particolare: chi ci ha messo in questa situazione? e a chi possiamo dare la colpa per il risultato? Mentre è già chiaro che la sconfitta militare sarà interamente colpa dell’Ucraina e che l’Occidente ha fatto tutto il possibile, questo non fermerà le recriminazioni dietro le quinte all’interno dei governi e tra di essi, e i tentativi molto pubblici da parte di diverse nazioni di proporsi come il salvatore trascurato: se solo i loro consigli fossero stati ascoltati, o il loro esempio seguito!

Questo è ciò che si nasconde, ad esempio, dietro i commenti selvaggi sul possibile invio di truppe occidentali in Ucraina. Avrete notato che, un mese o più dopo che Macron ha suggerito per la prima volta che le truppe europee potrebbero essere inviate in Ucraina, non è successo assolutamente nulla, nonostante le voci e le affermazioni senza fiato che le truppe sarebbero state dispiegate “presto”. In realtà, questo fa parte di una serie di iniziative volte a trarre il massimo profitto possibile dalle conseguenze della catastrofe e a rafforzare la posizione francese nelle lotte politiche a venire. (Più recentemente, è stata riproposta l’idea di una forza di spedizione europea per l’evacuazione dei cittadini, discussa per la prima volta trentacinque anni fa). È la stessa logica, credo, che sta alla base della recente decisione del Congresso degli Stati Uniti di sbloccare gli “aiuti” all’Ucraina. Sospetto che i responsabili siano stati informati senza mezzi termini dalle agenzie di intelligence statunitensi che la partita era finita, e che la loro preoccupazione ora sia quella di non lasciarsi vulnerare dall’accusa che, bloccando gli aiuti, siano stati responsabili della sconfitta. Può sembrare un’accusa ridicola, ma ora ci troviamo in una situazione in cui le persone fanno a gara a fare e dire cose che si presentano come più fedeli di chiunque altro nel loro sostegno all’Ucraina, in modo da non essere ritenuti responsabili quando le cose crollano…

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L’UE il suo ruolo “peculiare” nella Terza guerra mondiale. Intervista al Prof. Giorgio Monestarolo

Intervista di Giulia Bertotto

Il professor Giorgio Monestarolo è ricercatore associato del Laboratorio di Storia delle Alpi (Università della Svizzera italiana) e docente di storia e filosofia al Liceo V. Alfieri di Torino. L’AntiDiplomatico ha avuto l’opportunità di intervistarlo per parlare del suo ultimo libro “Ucraina, Europa, Mondo. Guerra e lotta per l’egemonia mondiale” con prefazione del generale Fabio Mini (Asterios Editore, 2024).

L’INTERVISTA AL PROF. MONESTAROLO

 

“La guerra in Ucraina, ormai, è passata in secondo piano rispetto ai nuovi scenari di conflitto in Palestina e in Yemen. Eppure, un evidente filo rosso collega tutti questi eventi. Un ordine internazionale o, meglio, un ordine instabile – fondato sulla diseguaglianza sociale, sullo sfruttamento dei Paesi ricchi nei confronti di quelli poveri, sul mancato diritto all’autodeterminazione dei popoli – è entrato definitivamente in crisi. La guerra in Ucraina ha segnato l’inizio dell’accelerazione verso una situazione generalizzata di caos e di conflitto. Per tale motivo, non è sbagliato attribuire un significato storico all’inizio della guerra il 24 febbraio 2022”. Così scrive nell’introduzione del suo saggio “Ucraina, Europa, Mondo. Guerra e lotta per l’egemonia mondiale”. Qual è questo filo rosso?

Potremmo dire che il filo rosso è l’indebolimento degli Usa. Sebbene la crisi in Palestina sia storica e decennale, l’intensità di questo conflitto -con Netanyahu che nei fatti ricatta Biden per ottenere il sostegno d’Oltreoceano- è aumentata con l’indebolimento parziale, economico e militare statunitense dovuto al conflitto con la Russia. Venuta meno l’Unione Sovietica la federazione americana ha trovato il suo spazio di espansione, soprattutto in Medioriente. Il Medioriente è il fulcro delle risorse petrolifere e la preziosa via del commercio tra Europa e Asia. Questo rappresentava una strategia razionale, seguire invece Israele nelle sue imprese genocidarie non lo è. In tal senso il modo di procedere americano sta diventando via via meno strategico, più irrazionale e forse più pericoloso e può portarli ad avvitarsi ancor più su tale indebolimento.

 

Quindi Israele ha la capacità di ricattare gli Usa?

Sì, per due motivi, uno relativo alla politica interna e uno relativo alla politica internazionale. Israele è l’avamposto degli Usa in Medioriente. Gli accordi di Abramo che stavano per essere stipulati sono una garanzia di presenza e influenza degli Stati Uniti nell’area mediorientale. In politica estera gli americani hanno scommesso tutto o davvero molto su Israele e non possono rinunciare al loro partner in una zona chiave, una zona di cesura, considerando anche solo la quota di commercio mondiale che passa per il Mar Rosso. In tal senso l’attacco degli Houti yemeniti ha messo molto in difficoltà le potenze occidentali e in particolare inglesi e americani. Il secondo motivo legato alla politica interna è la presenza organizzata di tipo lobbista di Israele negli Usa attraverso l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee, Comitato per gli affari pubblici israelo-americani), che finanzia i candidati repubblicani e democratici con centinaia di milioni di dollari. Una lobby capace di condizionare in maniera pesantissima la leadership americana. Biden è probabilmente il presidente più vicino all’AIPAC degli ultimi anni.

 

Non è una crisi esclusivamente geopolitica, per quanto ampia, quello è solo l’aspetto visibile per così dire, ma una crisi del sistema mondo fondato sull’ingiustizia, l’imperialismo è in crisi. In che fase è la guerra in Ucraina?

In seguito alla controffensiva ucraina nella primavera-estate 2024 sono state esaurite non sono le armi ma anche i soldati, la carne da cannone di questa guerra per procura; quindi gli ucraini stanno lentamente retrocedendo e i russi lentamente avanzando lungo la linea. La presa di Avdiivka da parte delle forze russe rappresenta una vittoria sia simbolica che strategica poiché Kiev non riesce più a costruire un sistema di fortificazioni. Attualmente i russi stanno ultimando la conquista del Donbass ma è ancora lontana dal concludersi. Sono avanzati dell’ordine di poche centinaia di metri, tranne rare eccezioni, quindi la guerra sarà probabilmente ancora lunga. A meno che non crolli il fronte interno ucraino, non venga meno il consenso al governo dopo due anni di guerra. Questo potrebbe determinare il collasso dell’esercito di Zelenski e aprire una tensione internazionale fortissima. Cosa faranno americani ed europei difronte a una accelerazione improvvisa? Intanto Biden deve tenere un occhio aperto anche su Taiwan, la Cina sembra lontana ma il suo ruolo e quello dei BRICS in ascesa, è preponderante.

L’Ucraina potrebbe entrare presto nella NATO?

Escluderei senza dubbio l’entrata dell’Ucraina nella Nato, sia per motivi relativi al Patto Atlantico stesso, sia perché se avvenisse saremmo a tutti gli effetti in guerra con la Russia. L’Ucraina è l’ago della bilancia, il centro del conflitto tra Nato e Russia.

Dal 1996 con Clinton presidente la Nato ha mancato di osservare l’accordo informale stipulato per la non espansione occidentale, nel 2007 Putin ha dichiarato in occasione della Conferenza Internazionale di Monaco che lui non avrebbe accettato altre espansioni territoriali e la linea rossa era l’Ucraina. Solo un mese dopo è arrivata la proposta di ingresso nella Nato da parte dell’Ucraina. Da lì tutto è precipitato. A metà dicembre del 2021, cioè due mesi prima delle operazioni in Ucraina la Russia ha presentato alla Nato e agli Usa un memorandum chiamato Piano di pace in cui si proponeva di risolvere diplomaticamente i conflitti cresciuti negli ultimi anni. Sostanzialmente la richiesta era sempre la stessa smettere di avanzare nei territori ex URSS. L’ambizione espansionistica della Nato e quella russa di conservare i propri confini erano di nuovo gravemente in attrito.

La guerra nel cuore dell’Europa, il genocidio dei gazawi, la normalizzazione mediatica della guerra e il ritorno alla minaccia nucleare sono tutti indizi spaventosi di un cambiamento globale che vede il tramonto dell’egemonia americana, come previsto dal libro di Terence H. Hopkins e Immanuel Wallerstein scritto fine degli anni ’90 che lei cita.

Le azioni politiche sono il risultato di forti pressioni materiali ed economiche ma anche ideali e sociali. Dopo la caduta del Muro di Berlino l’unica super potenza erano gli Usa, i quali però non erano in una fase ascendente della loro parabola; avevano sconfitto l’URSS, possedevano il capitale militare più importante, ma era già iniziato il processo che chiamiamo globalizzazione e l’economia interna americana viveva grossi conflitti, con lo sviluppo del welfare che aveva fatto contrarre i profitti. I due studiosi vedevano in questa fase della globalizzazione i segnali di crisi di un gigante. Mentre tutti gli studiosi lodavano il loro sviluppo attraverso la finanziarizzazione e delocalizzazione, Hopkins e Wallerstein dicevano che questa fase avrebbe implicato un conflitto per l’egemonia mondiale.

Nel terzo capitolo spiega qual è la posizione dell’Europa in questa destabilizzazione globale. La sua è una strana condizione perché non possiede un proprio esercito e i suoi interessi non coincidono con quelli statunitensi, anzi.

L’Unione Europea ha trovato altri modi che non sono quelli militari per partecipare al conflitto mondiale che chiamo la Guerra delle monete. Citerò un passo dal mio libro: “Nelle prime settimane dopo il 24 febbraio 2022, alcuni tra i più importanti e prestigiosi uomini delle istituzioni finanziarie internazionali, primo fra tutti Mario Draghi, mettono a punto un sistema per strangolare l’economia russa. La mossa si fonda su due gambe: l’inasprimento delle sanzioni economiche, in modo da mettere alle strette le esportazioni di materie prime russe e colpire con il divieto di importazione di componentistica occidentale l’industria di Mosca; la sospensione delle banche e delle grandi imprese finanziarie e assicurative russe dalla piattaforma internazionale bancaria SWIFT e la requisizione, sic et simpliciter, dei fondi della Banca centrale russa depositati nelle sedi estere per operazioni di compensazione nelle transazioni internazionali”. L’Europa più che essere un braccio militare contro la Russia doveva svolgere un ruolo finanziario-economico per strozzare economicamente il Cremlino. I vertici americani e la nostra classe dirigente hanno fatto male i conti e questo dimostra che non hanno la minima visione d’insieme, nessuna lungimiranza. L’Europa sta vivendo una vera e propria crisi di razionalità confondendo i suoi desideri con la realtà.

“La retorica dell’aggressore e dell’aggredito, per cui i russi sono i cattivi e gli ucraini sono i buoni, utilizzata come un martello schiacciasassi sull’opinione pubblica da tutti i grandi media filo atlantici (per l’Italia tutti, con qualche rara eccezione come «Il Fatto Quotidiano» e qualche collaboratore de «il manifesto») fa tabula rasa della complessità di questa storia. Quello che con una certa obiettività si può affermare è che, indubbiamente, la Russia ha invaso l’Ucraina e ha dato quindi un potente contributo a destabilizzare la situazione internazionale, portandosi dietro la responsabilità di questa scelta. Allo stesso tempo, il terreno per l’invasione è stato attentamente preparato e intenzionalmente provocato dalle decisioni di politica estera degli USA, della NATO, di alcuni dei Paesi europei – principalmente dell’est – e del governo ucraino”. Scrive nell’ottavo capitolo. La responsabilità dei media è immane perché condiziona l’opinione pubblica, in fondo l’arma più forte nel fare o evitare una guerra, come ha detto anche Assange.

Scontiamo un periodo di ibernazione della democrazia perché le informazioni, le filosofie, le ideologie alternative a quei contenuti portati avanti dal neoliberismo sono stati azzerati sul piano mediatico e della circolazione nell’opinione pubblica. Il caso di Varoufakis è emblematico da questo punto di vista: il brillante economista voleva spiegare alla troika europea che la richiesta di austerità per la Grecia era dannosa sia per quest’ultima sia per l’Europa. Naturalmente aveva ragione ma a nessuno interessava un confronto razionale. Il potere non si mette in discussione, per questo devono esserci diversi organi di informazione indipendente a costringerlo a farlo.

Una domanda “filosofica”. Nel 1933 Einstein, esperto delle profondità cosmiche, chiedeva a Freud, che riteneva esperto delle profondità umane, se ci sarebbe mai stata un’era umana priva di guerra. Freud sostanzialmente rispondeva di no. Nell’era dei diritti per tutti e dell’inclusione sbandierata, nonostante la retorica della Memoria, stiamo assistendo quasi inermi al massacro dell’intera popolazione palestinese. Nessuno sta fermando Israele. Mentre avanza la Terza guerra mondiale. Crede che potrà esserci in futuro umanità che non fa la guerra?

Comprendo davvero il senso di impotenza ma a differenza di Freud non sono del tutto pessimista; penso che il banco di prova determinante sia come usciremo dalla pulizia etnica genocidaria della Palestina. Sono successe cose eclatanti: la Corte Internazionale di Giustizia si è espressa contro Netanyahu, così come la corte dell’Aja, si vocifera, stia indagando i vertici israeliani per crimini contro l’umanità. Se questi procedimenti avranno seguito e spiccherà un mandato di comparizione nei confronti del primo ministro israeliano potremmo avere una speranza. Negli anni ’30, ai tempi del carteggio tra Freud ed Einstein, l’ONU, la Corte di internazionale di giustizia, la corte penale internazionale non esistevano. Queste istituzioni, nate dopo la Seconda guerra mondiale, sono chiamate oggi a un nuovo compito, ci possono traghettare in un nuovo mondo multipolare più razionale. Devono cooperare l’opinione pubblica, movimenti studenteschi, le organizzazioni popolari, auspichiamo anche i sindacati e meglio tardi che mai anche quei partiti politici che possiedono ancora una visione non nichilista e irrazionale del mondo.

 

Cosa si può fare difronte alla deriva bellicista?

Mancano ancora forze politiche organizzate e di massa che riescano ad incidere sulla situazione. Nel frattempo vedo due strade. Da una parte devono essere i cittadini e i lavoratori a sentire la minaccia della guerra. Si devono auto-organizzare. Alcuni esempi. A Torino insegnanti e ricercatori si sono mossi all’interno di un movimento che si chiama la Scuola per la pace. A livello nazionale gli studenti in lotta contro il genocidio sono una voce di speranza. Insomma esiste una resistenza spontanea alla guerra. L’altra strada è quella dei media indipendenti e di contro informazione. Se queste esperienze riusciranno a federarsi, a fare massa critica, la situazione inizierà a cambiare.

Segnalo a questo proposito, come buona pratica politica, l’Osservatorio contro la Militarizzazione delle Scuole e delle Università a cui aderisco con pieno supporto. https://osservatorionomilscuola.com/

da qui

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Un commento

  • Prove di autocrazia: fermato Scott Ritter

    L’aria della sconfitta che ormai pervade l’atmosfera delle cancellerie occidentali sta facendo perdere la testa a tutta la catena di potere che via via abbandona ogni ritegno nel mostrarsi qual è, ovvero dedita a incubi autoritari. Ieri l’ultimo episodio che costella questa inquietante crescita: il governo degli Stati Uniti ha sequestrato il passaporto di Scott Ritter dopo che si era imbarcato su un volo che lo avrebbe portato in Turchia e poi in Russia: era stato invitato a parlare al Forum economico internazionale di San Pietroburgo, al quale parteciperanno 25 mila persone di tutto il mondo.

    Insomma la scena si è svolta come in quei film di Hollywood nei quali questi episodi vengono collocati nella Russia sovietica o nei Paesi satelliti: ma è ormai palese che tutto questo fa parte dei sogni bagnati dell’élite americana e di quella europea allevata e lanciata da essa. Così la racconta il protagonista: “Mi stavo imbarcando sul volo. Tre agenti della polizia mi hanno preso da parte e hanno preso il mio passaporto. Quando ho chiesto loro il motivo, mi hanno detto ordini del Dipartimento di Stato”. Ancora non si conosce il pretesto con cui a Ritter è stato impedito di parlare all’assemblea di San Pietroburgo, ma è probabile che il potere di Washington temesse che il personaggio potesse togliere ancora qualche velo sul potere americano. Ex ufficiale dei marines aveva partecipato alla prima guerra del golfo come aiutante del comandante in capo Schwarzkopf e in seguito si era occupato degli armamenti in Iraq come ispettore Onu sotto il mandato dell’Unscom. La sua carriera di dissidente cominciò tra il 2002 e l’inizio del 2003, quando George Bush e Tony Blair preparavano la guerra in Iraq: Ritter in base alla sua esperienza affermò più volte che nel Paese non esistevano le armi di distruzione di massa e che i due leader usavano questa favola come principale argomento bellico. Con dichiarazioni di questo tipo, Ritter divenne sempre più impopolare agli occhi dei politicanti alla Casa Bianca, dei neoconservatori di Washington, degli strateghi di guerra del Pentagono e dell’intero corpo della stampa americana che è culo e camicia col potere.

    Da allora ha continuato ad essere una spina nel fianco dell’establishment di Washington con articoli e libri che svelano le ipocrisie e le menzogne delle amministrazioni americane. Questa spina è diventata più acuminata con la guerra in Ucraina visto che Scott Ritter ha messo in luce le carenze in fatto di armamenti e di pensiero tattico e strategico del Pentagono e proprio negli ultimi giorni aveva anche realizzato un video nel quale esaminava le capacità dei missili ipersonici russi dopo la distruzione di un enorme bunker segreto ucraino – Nato dove si trovavano piloti, pianificatori e addestratori che preparavano l’arrivo degli F16.

    Nei giorni scorsi si era diffusa la voce che la Homeland Security avesse pianificato di impedire la partenza per San Pietroburgo anche ad altri americani invitati a parlare al Forum di San Pietroburgo e in particolare al giudice Andrew Napolitano (nessuno è perfetto) che è un noto critico della guerra in Ucraina. Ma ci si è resi conto che il contraccolpo di immagine in questa sorta di Casablanca invertita e moltiplicata sarebbe stato troppo forte e ci si è limitati al solo Scott Ritter che peraltro viene diffamato continuamente dalla stampa mainstream ed è stato trasformato in un agente di propaganda russa. Troppe persone fermate agli aeroporti avrebbero rischiato di svelare l’animus e il retropensiero dell’amministrazione Biden e avrebbe messo in luce l’agonia democratica del Paese. Perciò si è scelto di colpirne uno per avvertirne mille.

    https://ilsimplicissimus2.com/2024/06/04/prove-di-autocrazia-fermato-scott-ritter/

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