Non distogliere lo sguardo da Rafah (e dalla Cisgiordania)!

articoli e video di Mehdi Hasan, Gideon Levy, Clara Mattei, Francesca Albanese, Giacomo Gabellini, Naomi Klein, Aviva Chomsky, Jorge Matfud, George Galloway, Chris Hedges, Yama Wolasmal e un disegno di Mr Fish

Cosa sono peggio, le menzogne di Israele su Gaza o i suoi sostenitori occidentali che le ripetono? – Mehdi Hasan

Gli utili idioti continuano a ripetere a pappagallo le false argomentazioni israeliane. La prima volta che mi inganni la colpa è tua, la seconda volta la colpa è mia…

Gli italiani hanno un proverbio,” ha scritto nel XVII secolo il cortigiano britannico Anthony Weldon: “Chi mi inganna una volta è per colpa sua, ma la seconda la colpa è mia.”

Oggi riassumiamo comunemente quell’antico proverbio italiano con “la prima volta che mi inganni la colpa è tua, la seconda la colpa è mia.”

Dall’orribile attacco del 7 ottobre il governo israeliano di estrema destra e il suo esercito di propagandisti hanno ingannato e preso in giro politici e giornalisti occidentali non una volta o due, ma molte volte.

Ci sono troppe menzogne, distorsioni e falsità di cui tener conto. Quaranta bambini decapitati da Hamas? Non è mai successo. Bambini cotti nei forni o appesi sui fili della biancheria? Falso. Un nascondiglio in stile James Bond sotto l’ospedale al-Shifa? Macché. I palestinesi di Gaza ripresi da una telecamera che fingono di essere feriti? Una totale invenzione. La lista degli ostaggi presi da Hamas trovata su un muro dell’ospedale pediatrico al-Rantisi? Spiacenti, erano solo i giorni della settimana su un calendario in arabo.

Che dire delle atrocità di cui sono credibilmente accusate le forze israeliane, che poi hanno sonoramente negato, e di cui in seguito… sono state ritenute responsabili? Il massacro della farina a febbraio? Il bombardamento di un convoglio di profughi lo scorso ottobre? L’attacco con il fosforo bianco nel sud del Libano, sempre in ottobre?

Come ha elencato il mio amico, l’analista palestinese-americano Omar Baddar, in un tweet diventato virale:

Cronologia che si ripete continuamente:

Israele commette un massacro
Israele nega il massacro
I media dicono di non sapere chi ha commesso un massacro
Indagini rivelano che Israele ha commesso un massacro
Il ciclo delle notizie va avanti
Le persone comuni non sanno che Israele sta sistematicamente commettendo massacri.
Eppure gli israeliani continuano a raccontare menzogne e i nostri politici e media in Occidente continuano a farsi prendere in giro. Che siano loro a vergognarsi.

Tuttavia nessuna bugia israeliana è stata tanto dannosa, distruttiva e mortale dell’affermazione che l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Sostegno e il Lavoro per i Profughi palestinesi in Medio Oriente, la principale organizzazione responsabile di fornire aiuti a Gaza, è collusa con Hamas, e, peggio ancora, che 12 dipendenti dell’UNRWA hanno partecipato all’attacco terroristico del 7 ottobre. Perché? Perché è stata una menzogna così grave che ha contribuito a creare le basi di una devastante, continua carestia creata dall’uomo all’interno della Striscia di Gaza.

A fine gennaio, dopo un’incessante campagna contro l’UNRWA da parte di Israele e dei suoi alleati in Occidente, culminata con l’accusa senza prove che alcuni dipendenti dell’UNRWA avevano partecipato alle atrocità del 7 ottobre, 16 Paesi donatori, tra cui gli Stati Uniti, il principale finanziatore dell’UNRWA, hanno sospeso circa 450 milioni di dollari di fondi per l’agenzia.

Questi Paesi sono stati avvertiti che danneggiare l’UNRWA, la principale organizzazione umanitaria a Gaza, avrebbe rischiato di “accelerare la carestia”. Sono stati avvertiti che il tanto decantato dossier dell’intelligence israeliana sull’UNRWA conteneva solo “inconsistenti accuse senza prove.”

Ma hanno creduto a Israele.

Negli ultimi 3 mesi, mentre i bambini palestinesi stavano letteralmente morendo di fame, molti di quei Paesi, compreso il governo tedesco, che è la seconda principale fonte di finanziamento dell’agenzia, hanno tardivamente ripreso a finanziare l’UNRWA.

Perché? La scorsa settimana una verifica indipendente del lavoro dell’UNRWA, guidata dall’ex ministra degli Esteri francese Catherine Colonna, ha concluso che l’agenzia “rimane fondamentale nel fornire aiuto umanitario salvavita e servizi sociali essenziali” e “come tale, l’UNRWA è insostituibile e indispensabile per lo sviluppo umano ed economico dei palestinesi.”

Soprattutto, in riferimento all’esplosiva denuncia del governo israeliano secondo cui dipendenti dell’UNRWA erano stati coinvolti negli attacchi di Hamas, il rapporto di Colonna afferma che “Israele deve ancora fornire prove a sostegno” di quelle affermazioni. Ha anche evidenziato come di fatto ogni anno l’UNRWA “condivide la lista del suo personale” sia con Israele che con gli Stati Uniti e ha rivelato che “dal 2011 il governo israeliano non ha informato l’UNRWA di alcuna perplessità riguardante alcun dipendente dell’UNRWA in quella lista del personale.”

Dal 2011. Quindi era tutta una menzogna. Da parte di Israele. Di nuovo.

Ora, per chiarezza, come ha informato Julian Borges del Guardian, “è in corso un controllo separato su specifiche accuse secondo cui dipendenti dell’UNRWA avrebbero preso parte all’attacco del 7 ottobre”, ma “l’ultima volta che c’è stato un rapporto di valutazione… Israele ha negato la collaborazione” anche con quella verifica (persino nell’improbabile caso in cui quest’altro controllo concludesse che una dozzina di dipendenti vi abbia preso parte, si tratterebbe di 12 su 13.000 dipendenti dell’UNRWA a Gaza, ovvero circa lo 0,1% della forza lavoro totale!).

Ciononostante gli Stati Uniti si sono rifiutati di tornare a sostenere l’UNRWA: infatti il Congresso ha approvato una legge che vieta di finanziare l’agenzia almeno fino al marzo 2025.

Ingannami una volta… o decine di volte? Prendete in considerazione i politici ed editorialisti creduloni che si sono schierati ed hanno ripetutamente sostenuto la falsa narrazione di Israele sull’UNRWA.

Il senatore repubblicano Ted Cruz, per esempio, ha twittato sei volte sull’UNRWA tra gennaio e marzo, sostenendo che l’agenzia “appoggia il terrorismo”, è “complice di Hamas” ed ha “almeno 12 dipendenti… coinvolti nell’attacco terroristico del 7 ottobre.”

David Frum, che scriveva i discorsi di George W Bush, ha affermato che è “ormai tempo di chiudere l’UNRWA,” e l’ha accusata di “fornire appoggio materiale a un’organizzazione terroristica.”

L’UNRWA, ha scritto l’opinionista neoconservatore Bret Stephens sul New York Times, “pare essere infestata da terroristi e loro simpatizzanti” e “dovrebbe essere chiusa”.

Sono tutti in errore, tutti diffondono menzogne, tutti spacciano propaganda israeliana.

E, tristemente, non si è trattato solo di repubblicani e persone di destra. C’è stato anche un certo numero di democratici della Camera che hanno ripetuto ciecamente le affermazioni infondate del governo Netanyahu sull’UNRWA.

Per esempio il parlamentare democratico Josh Gottheimer, come Ted Cruz, tra gennaio e marzo ha pubblicato una mezza dozzina di tweet che attaccano l’UNRWA, dichiarando che “le prove sono chiare: il 7 ottobre dipendenti dell’@UNRWA hanno appoggiato Hamas.” Il deputato democratico Brad Sherman ha detto di aver applaudito la decisione dell’amministrazione Biden di sospendere i finanziamenti all’UNRWA e ha affermato che il personale dell’agenzia è stato “denunciato come terrorista”. Il parlamentare Ritchie Torres ha twittato che l’UNRWA ha “governato Gaza su richiesta di Hamas.”

Da quando è stato reso noto il rapporto indipendente la scorsa settimana nessuno di questi importanti democratici ha ritrattato queste false affermazioni sul proprio account twitter, né ha mai menzionato i risultati di quel rapporto.

Tuttavia ancora peggio è stata la dichiarazione fatta il 29 gennaio da Antony Blinken, il segretario di stato democratico, quando ha ammesso che gli Stati Uniti non hanno avuto “la capacità di indagare [sulle accuse] da soli”, ma poi ha continuato definendo quelle accuse israeliane non verificate “molto, molto credibili.”

Eppure solo qualche settimana dopo lo stesso Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli USA ha affermato di ritenere “poco convincente” che personale dell’UNRWA abbia partecipato all’attacco del 7 ottobre. (La comunità dei servizi di informazione USA definisce “poco convincente” come “inadeguato, discutibile o molto approssimativo”, l’esatto contrario di “molto, molto credibile”).

Blinken deve ancora scusarsi, o persino ritrattare, le sue false affermazioni.

Ci chiediamo: cos’è peggio? Le menzogne israeliane o le persone in Occidente che continuano a crederle e le diffondono? Le accuse senza fondamento del governo israeliano contro l’UNRWA o i governi occidentali che poi le hanno accolte come un dato di fatto e hanno immediatamente tagliato i fondi alla principale agenzia umanitaria a Gaza?
Israele ha affamato la gente di Gaza. Che la vergogna ricada sugli sciocchi che hanno contribuito a giustificarlo.

Mehdi Hasan è capo-redazione di Zeteo [organizzazione di monitoraggio sull’accuratezza dell’informazione, negli USA ndt.] ed editorialista del Guardian negli USA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

da qui

 

 

Lasciamo che i leader israeliani vengano arrestati per Crimini di Guerra – Gideon Levy

Tutti gli israeliani perbene devono porsi le seguenti domande: il loro Paese sta commettendo Crimini di Guerra a Gaza? Se sì, come dovrebbero essere fermati? Come dovrebbero essere puniti i colpevoli? Chi può punirli? È ragionevole che i Crimini non vengano perseguiti e che i Criminali vengano scagionati?

Naturalmente si può rispondere negativamente alla prima domanda: Israele non sta commettendo alcun Crimine di Guerra a Gaza, rendendo così superflue le altre domande.

Ma come rispondere negativamente di fronte ai fatti e alla situazione di Gaza: circa 35.000 persone uccise e altre 10.000 disperse, circa due terzi dei quali civili innocenti, secondo le Forze di Difesa Israeliane; tra i morti ci sono circa 13.000 bambini, quasi 400 operatori sanitari e più di 200 giornalisti; Il 70% delle case sono state distrutte o danneggiate; Il 30% dei bambini soffre di malnutrizione acuta; ogni giorno due persone su 10.000 muoiono di fame e di malattie. (Tutti i dati provengono dalle Nazioni Unite e da organizzazioni internazionali.)

È possibile che queste cifre orribili siano emerse senza la commissione di Crimini di Guerra? Ci sono guerre la cui causa è giusta e i cui mezzi sono Criminali; la giustizia della guerra non giustifica i suoi Crimini. Uccisioni, Distruzioni, Fame e Sfollamenti di questa portata non avrebbero potuto verificarsi senza la commissione di Crimini di Guerra. Gli individui che ne sono responsabili devono essere assicurati alla Giustizia.

L’Hasbara israeliana, o diplomazia pubblica, non cerca di negare la realtà di Gaza. Si limita a sostenere l’antisemitismo: perché prendersela con noi? E il Sudan e lo Yemen? La logica non regge: un automobilista fermato per eccesso di velocità non scende sostenendo che non è l’unico. I Crimini e i Criminali restano. Israele non perseguirà mai nessuno per questi reati. Non l’ha mai fatto, né per le sue guerre né per la sua Occupazione. Nel migliore dei casi, perseguirà un soldato che ha rubato la carta di credito di un palestinese.

Ma il senso umano di Giustizia vuole che i Criminali siano assicurati alla Giustizia e che venga loro impedito di commettere Crimini in futuro. Seguendo questa logica, possiamo solo sperare che la Corte Penale Internazionale dell’Aja faccia il suo lavoro.

Ogni patriota israeliano e chiunque abbia a cuore il bene dello Stato dovrebbe augurarselo. Solo così cambierà la norma morale di Israele, secondo la quale tutto è permesso. Non è facile sperare nell’arresto dei capi del proprio Stato e del proprio esercito, e ancor più difficile ammetterlo pubblicamente, ma esiste un altro modo per fermarli?

Le uccisioni e le distruzioni a Gaza hanno messo Israele in una situazione al di sopra delle sue possibilità. È la peggiore catastrofe che lo Stato abbia mai dovuto affrontare. Qualcuno lo ha portato a questo punto, no, non l’antisemitismo, ma piuttosto i suoi leader e ufficiali militari. Se non fosse stato per loro, dopo il 7 ottobre la situazione non si sarebbe trasformata così rapidamente da un Paese amato e ispiratore di compassione a uno Stato reietto.

Qualcuno dovrà essere processato per questo. Così come molti israeliani vogliono che Benjamin Netanyahu venga punito per la corruzione di cui è accusato, così dovrebbero desiderare che lui e i perpetratori a lui subordinati siano puniti per Crimini ben più gravi, i Crimini di Gaza.

Non si può permettere che rimangano impuniti. Né è possibile incolpare solo Hamas, anche se ha un ruolo nei Crimini. Siamo noi che abbiamo ucciso, fatto morire di fame, sfollato e distrutto su scala così massiccia. Qualcuno deve essere assicurato alla Giustizia per questo. Netanyahu è il capo, ovviamente. La foto di lui imprigionato all’Aja insieme al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’IDF è roba da incubi per ogni israeliano. Eppure, probabilmente è giustificato.

È altamente improbabile, tuttavia. Le pressioni esercitate sulla Corte da Israele e dagli Stati Uniti sono enormi (e sbagliate). Ma le tattiche intimidatorie possono essere importanti. Se nei prossimi anni i funzionari si asterranno effettivamente dal viaggiare all’estero, se vivranno davvero nella paura di ciò che potrebbe accadere, possiamo essere sicuri che nella prossima guerra ci penseranno due volte prima di inviare i militari in Campagne di Morte e Distruzione di proporzioni così folli. Almeno possiamo trovare un po’ di conforto in questo.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo ultimo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

da qui

 

 

 

 

Colonialismo: come la Palestina divenne dipendente da IsraeleClara Mattei

100 ANNI Dal mandato britannico a oggi: l’estrazione di valore a favore dell’economia israeliana, aiutata da leggi e forza militare, ha impoverito i palestinesi e li ha messi alla mercé del “vicino”

Nel suo magistrale libro J’accuse (Fuoriscena), in cui mette in luce la violenza strutturale della colonizzazione e la violazione di diritti umani perpetrata da Israele, la special rapporteur delle Nazioni Unite Francesca Albanese riproduce la giornata tipo di un lavoratore palestinese: “Alle 7.30 ti svegli, vuoi fare una doccia ma l’acqua la devi comprare da Mekorot, l’azienda idrica di Israele, che ha preso il controllo dell’80% delle risorse idriche della West Bank.

Alle 8.30 sali in auto per andare al lavoro, in un percorso simbolico, come può essere quello da Betlemme a Ramallah. In Cisgiordania, l’esercito israeliano ha una rete di 97 check-point fissi e centinaia di posti di blocco ‘volanti, che compaiono e scompaiono senza preavviso.

Lunghe code, controllo documenti, spesso chiusure — collettive o verso singole persone senza spiegazioni. Ogni lavoratore palestinese deve muoversi da casa con largo anticipo.

In pausa pranzo, per comprare un panino o fare la spesa, si usa solo lo shekel israeliano, non avendo Mai avuto una moneta palestinese.

Magari devi tare benzina, solo da gestori israeliani, che hanno il totale controllo delle risorse energetiche. Se lavori con l’estero, qualsiasi viaggio tu voglia fare, per qualsiasi motivo, dipende dall’autorizzazione che ti sarà eventualmente concessa da Israele, che controlla tutti i punti di accesso e di uscita dalla Palestina”.

QUESTA IMMAGINE è emblematica di una ultra-decennale storia di oppressione economico-politica, che gli economisti critici chiamano “teoria della dipendenza”: la vicinanza geografica tra Israele e Palestina ne è un caso da manuale. L’idea fondamentale è quella per cui lo “sviluppo” delle nazioni ricche non accade in maniera indipendente, ma deriva dall’attiva creazione di “povertà” in quelle povere. La struttura economica della periferia (Palestina) è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro (Israele). Prova ne sia il Pil di Israele: il doppio di quello palestinese nel 1967, oltre 14 volte tanto nel 2022 (in valori assoluti oggi e quasi 20 volte quello palestinese).

L’economia palestinese ha perso nel tempo un‘autonoma base produttiva, sia manifatturiera che agricola. L’estrazione di valore è dunque oggi tutta a favore dello Stato ebraico, che ne beneficia in un doppio senso: Riceve risorse naturali, materie prime e forza lavoro da un lato; ha a disposizione un mercato per le proprie merci dall’altro. La Palestina deve infatti importare i più costosi beni finiti sviluppando un deficit commerciale che ne aumenta la vulnerabilità economica e monetaria: negli ultimi cinquant’anni il 75-80% di tutti i beni importati ed esportati dalla Palestina sono stati scambiati con l’economia israeliana; nel 50% dei casi impor palestinese ha riguardato beni in passato prodotti in Palestina (abbigliamento, calzature, bibite, mobili, eccetera).

Per studiare il fenomeno della dipendenza economica palestinese, e quanto sia inscindibile da chiare decisioni politiche, dobbiamo fare un passo indietro e guardare agli anni del mandato britannico (1922-1947). La Gran Bretagna, in collaborazione con le organizzazioni sioniste del tempo (Palestine Jewish Colonization Association, The Jewish National Fund, The Palestine Land Development Company e via elencando), ebbe un ruolo cruciale nel plasmare l’economia dell’area in direzione capitalistica: facilitò la crescita dell’industria israeliana e la proletarizzazione dei palestinesi, allontanandoli dalla terra che costituiva la base della loro economia di sussistenza.

La terra acquistata dalle organizzazioni sioniste fu censita come “terra soltanto per ebrei’, non più vendibile ai non ebrei. Gli inglesi favorirono, inoltre, grandi donazioni e investimenti per le industrie ebraiche.

E ancora: l’impero britannico richiese le tasse agricole in denaro, causando l’indebitamento dei contadini palestinesi e costringendoli a prendere denaro in prestito, rendendoli cosi pià dipendenti dal mercato. D’altro canto, la Gran Bretagna assicurò fondamentali concessioni sulle risorse naturali alle compagnie ebraiche: la Rutenberg Electricity Company (1922), la la Atlit Salt Company (1929) e la Palestine Potash Company (1929), società – quest’ultima – di estrazione mineraria.

LA POLITICA DISEGUALE dei dazi giocò poi un ruolo fondamentale per creare le condizioni dipendenza palestinesi. Gli inglesi mandatari abolirono i dazi sulle merci prodotte da ebrei e sulle importazioni di materie prime, mentre imposero alte tariffe sulle merci che potevano competere con I’industria ebraica. Il trattamento opposto fu riservato all’industria araba, con l’imposizione di alte tariffe sul sapone e l’olio di oliva, i loro primari settori economici. Non solo: la “open border policy”, già sperimentata in India, comportò che i contadini palestinesi non fossero più in grado di competere coi prodotti agricoli importati, aumentando il loro debito e portandoli a vendere le terre a grandi proprietari terrieri.

Venticinque anni dopo, al momento del piano di partizione del 1947 e della guerra del 1948 – la Nakba, “la catastrofe” degli arabi, durante la quale ”80% della popolazione palestinese divenne profuga e più di 700 villaggi furono distrutti – il peso dell’economia ebraica era molto più forte della sua controparte araba: la quota ebraica della produzione nazionale era del 53%, ma quella della produzione industriale dell’89% e gli investimenti in capitale I’88% di quelli totali.

Il momento chiave nella costruzione della subalternità politico-economica fu però l’occupazione del 1967, in cui la Palestina fu ridotta al 22% del territorio rispetto alla Palestina del mandato, ovvero Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Tra le varie ordinanze militari emesse da Israele si possono ricordare quelle che stabilirono la chiusura di tutte le banche operanti in Cisgiordania tranne due, poste sotto supervisione israeliana; o l’impossibilità di importare nuove macchine (l’unica opzione era acquistarle di seconda mano); o ancora quelle che misero in atto una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni, in vigore ancora oggi, che hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività commerciale. Tra il 2016 e il 2018, le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% dei permessi di costruzione nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania.

Da allora la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state incorporate in un’unione doganale con Israele, che impone restrizioni sui tipi di merci che possono essere importate o esportate dai Territori per proteggere l’agricoltura israeliana.

Ogni commercio col resto del mondo deve passare attraverso Israele ed essere gestito da personale israeliano: qualsiasi Merce importata o esportata da singoli o da imprese palestinesi passa dalla dogana israeliana, che può bloccare e tutto e che da anni trattiene i dazi doganali invece di girarli come da Accordi di Oslo all’Autorità nazionale palestinese. Per di più le autorità israeliane hanno proibito gli investimenti da Israele – o dall’estero – nell’economia palestinese e l’esercito israeliano ha esercitato il pieno controllo sui bilanci in Cisgiordania e Gaza, compresa la tassazione e la raccolta: i palestinesi sono stati costretti a pagare imposte sul reddito dal 3 al 10% più alte rispetto a quelle applicate agli israeliani per la stessa fascia di reddito.

L’OCCUPAZIONE MILITARE ha confiscato nel tempo vaste aree di terre pubbliche e private palestinesi per la costruzione di insediamenti e riserve naturali.

Alla meta degli anni 80, il 39% della Cisgiordania e circa il 31% della Striscia di Gaza erano state Mappate come terre statali israeliane: secondo il gruppo per i diritti israeliano B’Tselem, durante i primi 36 anni di occupazione Israele sequestro quasi 200mila ettari di terre palestinesi affittandole a enti, associazioni e privati per la costruzione di insediamenti.

Le confische di terreni e le restrizioni al commercio e agli investimenti causarono il collasso dell’agricoltura palestinese, che un tempo impiegava gran parte della forza lavoro autoctona: nel 1967 l’economia agricola nei Territori assorbiva quasi il 40% della forza lavoro, nel 1993 degli Accordi di Oslo meno del 20%. Comunità autosufficienti videro scomparire i loro mezzi di sostentamento e il risultato fu una diffusa “proletarizzazione” della società palestinese: molti passarono dall’essere lavoratori autonomi nell’agricoltura locale a salariati nell’economia israeliana. Nei primi vent’anni dell’occupazione, la percentuale di individui che cercavano lavoro all’interno di Israele o dei suoi insediamenti aumentò in modo esponenziale: da pressoché zero prima del 1967 a circa il 40% nel 1987, quando scoppio la Prima Intifada.

IL LAVORO PALESTINESE serve Israele in molteplici modi. La presenza di un grosso esercito industriale di riserva riduce i costi dei salari e garantisce sufficiente estrazione di plusvalore per l’industria israeliana.

Come ha detto un imprenditore al giornale Haaretz: “E quasi impossibile licenziare un lavoratore israeliano o spostarlo senza il suo permesso e un aumento del salario, invece un lavoratore arabo è eccezionalmente mobile, può essere licenziato senza preavviso e spostato da un luogo all’altro. Non fanno scioperi, non presentano richieste.

La riduzione dei costi di produzione permette di vendere merci a prezzi migliori: è dunque un vantaggio competitivo rispetto all’estero, Palestina compresa, ma come spiega Ibrahim Shikaki, professore di economia al Trinity College in Connecticut, l’esercito industriale di riserva palestinese aiuta anche a togliere potere contrattuale ai lavoratori israeliani.

Come già fu in Sud Africa, i palestinesi sono autorizzati a lavorare solo per il datore di lavoro indicato sul loro permesso (che contiene i dettagli di entrambi), a viaggiare solo nell’area del loro lavoro e devono rientrare entro un determinato orario, pena l’arresto. I permessi sono carte biometriche necessarie per attraversare i check-point, in alcuni dei quali Israele ha implementato per i palestinesi il riconoscimento facciale automatico con l’intelligenza artificiale.

I flussi di lavoro palestinese verso Israele hanno coinvolto negli anni fino al 40% dei lavoratori della Striscia di Gaza e il 30% di quelli della Cisgiordania, dove ancora oggi sono più di 200mila: “Una volta che si sottrae una cosi massiccia forza lavoro a un’economia, non può che conseguirne miseria”, spiega al Fatto il professor Shikaki, i cui studi mostrano chiaramente che il tasso di disoccupazione palestinese è ormai strettamente correlato al ciclo economico di Israele. Con un corollario non da poco: “Oggi poi, sotto le bombe e col blocco totale delle frontiere, non si può neppure più lavorare..”.

da qui

 

Guerra a Gaza: Un importante medico palestinese torturato e ucciso durante la detenzione israeliana

Adnan al-Bursh era un chirurgo palestinese e il responsabile della medicina ortopedica dell’ospedale al-Shifa

In quello che è stato definito un “assassinio deliberato”, Bursh, 50 anni, è morto nella prigione israeliana di Ofer, nella Cisgiordania occupata, il 19 aprile, come ha comunicato il Comitato per gli Affari Civili Palestinesi, e il suo corpo è ancora trattenuto.
Anche un altro detenuto, Ismail Abdul Bari Khader, 33 anni, è morto in custodia, secondo la dichiarazione congiunta, e il suo corpo è stato consegnato il 2 maggio insieme ad altri 64 prigionieri.
“Le due vittime sono morte a causa delle torture e dei crimini commessi contro i detenuti gazawi”, si legge nella dichiarazione.
Bursh era il primario di medicina ortopedica dell’ospedale al-Shifa di Gaza City ed era stato arrestato a dicembre, nello stesso periodo in cui sarebbe stato ferito dai bombardamenti israeliani nell’ospedale indonesiano nel nord di Gaza.
Fino al suo arresto, Bursh si recava regolarmente in diversi ospedali della Striscia di Gaza per curare i pazienti e, al momento dell’arresto, lavorava all’ospedale al-Awda. Insieme a Bursh sono stati arrestati anche diversi operatori sanitari e pazienti.
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, ha dichiarato oggi di essere “estremamente allarmata” per la morte dell’importante medico.
“Esorto la comunità diplomatica a intervenire con misure concrete per proteggere i palestinesi. Oggi nessun palestinese è al sicuro sotto l’occupazione israeliana”, ha scritto in una dichiarazione su X.
Gruppi di medici, tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno ripetutamente chiesto di fermare gli attacchi contro gli operatori sanitari di Gaza, con oltre 200 morti finora nel conflitto di Gaza, secondo una stima.
Il ministero della Sanità palestinese ha dichiarato in un comunicato che la morte di Bursh ha portato a 496 il numero di operatori del settore medico uccisi da Israele dal 7 ottobre, quando è scoppiata la guerra. Ha aggiunto che altri 1.500 sono stati feriti e 309 sono stati arrestati.
La guerra a Gaza è iniziata il 7 ottobre, quando Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno lanciato un attacco a sorpresa contro il sud di Israele, uccidendo 1.200 persone e prendendo in ostaggio circa 240 persone. Israele ha risposto agli attacchi con una dichiarazione di guerra, lanciando un assedio su Gaza e una devastante campagna di bombardamenti aerei, seguita da un’invasione di terra.
La guerra di Israele contro l’enclave ha ucciso più di 34.000 palestinesi, la maggior parte dei quali sono donne e bambini, ha raso al suolo interi quartieri residenziali e ha preso di mira altre infrastrutture civili come scuole, ospedali e moschee.

Senza precedenti

Alla fine di sei mesi di detenzione amministrativa rinnovabile, ad aprile, Israele ha rilasciato decine di prigionieri palestinesi da diverse carceri – persone che erano state arrestate in seguito all’inizio della guerra contro Gaza il 7 ottobre.
Le prove di maltrattamento mostrate dai prigionieri sono indicative di ciò che i gruppi per i diritti hanno avvertito essere un livello di abuso senza precedenti che ha luogo nelle carceri israeliane, ha riportato Middle East Eye alla fine del mese scorso.
Gruppi di prigionieri palestinesi affermano che l’esercito israeliano ha arrestato più di 8.000 palestinesi della sola Cisgiordania dal 7 ottobre, tra cui 280 donne e almeno 540 bambini.
I gruppi per i diritti hanno documentato maltrattamenti diffusi, con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) che la scorsa settimana ha pubblicato un rapporto che descrive, tra gli altri abusi, detenuti a cui viene urinato addosso e che vengono fatti comportare come animali, e bambini che vengono attaccati dai cani.
Il trattamento dei prigionieri palestinesi è stato completamente oscurato e i gruppi per la difesa dei diritti si sono affidati alle testimonianze dei detenuti rilasciati per documentare gli abusi commessi nei loro confronti.
Le testimonianze dei prigionieri palestinesi hanno inorridito le loro famiglie e quelle di coloro che hanno parenti ancora in carcere.
Si ritiene che almeno 18 prigionieri palestinesi siano morti dal 7 ottobre.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

da qui

 

 

 

“Nessun palestinese è oggi al sicuro”. Francesca Albanese (Onu) sulla morte del dottor Albursh

“Sono estremamente allarmata dalla notizia che il dottor Adnan Albursh, noto chirurgo dell’ospedale di Alshifa, è morto mentre era detenuto dalle forze israeliane nella prigione militare di Ofer”. Lo scrive su X la relatrice Onu sui Territori palestinesi Francesca Albanese.

“Mentre acquisisco ulteriori informazioni, ESORTO la comunità diplomatica a intervenire con MISURE CONCRETE per proteggere i palestinesi”, ha proseguito nel suo messaggio.

“Oggi nessun palestinese è al sicuro sotto l’occupazione israeliana.  Quante altre vite dovranno essere spezzate prima che gli Stati membri dell’ONU, soprattutto quelli che dimostrano un’autentica preoccupazione per i diritti umani a livello globale, agiscano per PROTEGGERE i palestinesi?”, ha concluso.

La relatrice Onu aveva anche commentato la repressione nelle università statunitense “Sono inorridita dalle azioni violente della polizia nelle università statunitensi che reprimono le proteste contro un genocidio in corso perpetrato da un paese straniero. Una realtà così distopica. Possano gli studenti e i docenti essere al sicuro. Che il genocidio finisca. Possano la giustizia e la ragione prevalere.”

da qui

 

 

 

Cpi e Israele: l’ordine internazionale “basato sulle regole” (Usa) viene giùGiacomo Gabellini

Nei giorni scorsi, l’emittente israeliana «Channel 13» ha riferito che il Consiglio di Sicurezza Nazionale si era riunito in diverse occasioni per dialogare «in previsione della possibilità che nei prossimi giorni vengano emessi mandati di arresto internazionali contro alti funzionari in Israele», ritenuti responsabili di diversi crimini di guerra perpetrati nell’ambito dell’Operazione Iron Swords contro la popolazione residente all’interno della Striscia di Gaza. I principali indiziati erano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il Capo di Stato Maggiore Hertzi Halevi. Nel corso degli incontri, sarebbero state approvate misure volte ad anticipare la potenziale iniziativa, compreso «il lancio di una campagna politica» a livello internazionale contro la Corte Penale Internazionale (Cpi), a cui Israele non aderisce. Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha dichiarato a «Channel 12» che l’emissione del mandato avrebbe rappresentato «un’ipocrisia assoluta», e annunciato che, «se necessario, eviteremo di lasciare il Paese» come forma di tutela. Il 26 aprile, Netanyahu ha invece pubblicato un post sul suo profilo Twitter/X in cui si legge che: «sotto la mia guida, Israele non accetterà mai alcun tentativo della Corte Penale dell’Aja di minare il suo diritto fondamentale di difendersi». Secondo il quotidiano «Maariv», il premier appariva «spaventato e insolitamente stressato» dal probabile pronunciamento della Cpi, e stava esercitando, sostiene la testata israeliana «Walla», una «incessante pressione telefonica» intesa a prevenirlo.

La campagna di “sensibilizzazione” portata avanti da Netanyahu era diretta soprattutto a mobilitare gli Stati Uniti, che pur non aderendo alla Cpi si sono rivelati particolarmente ricettivi alle sollecitazioni di Tel Aviv.

Interpellata sul punto, la Casa Bianca ha rifiutato di fornire chiarimenti in merito al contenuto dei colloqui telefonici avuti dal presidente Joe Biden con Netanyahu, ma ha tenuto a sottolineare che «la Corte Penale Internazionale non ha giurisdizione in questa situazione e non supportiamo la sua indagine». I membri del Congresso di affiliazione sia democratica che repubblicana si sono spinti oltre, avvertendo la Cpi che eventuali mandati di arresto nei confronti di politici, funzionari e militari israeliani avrebbero scatenato ritorsioni immediate da parte degli Stati Uniti. Stando a quanto rivelato dal sempre ben informato «Axios», i congressisti statunitensi sarebbero già impegnati nella stesura di un disegno di legge concepito dai senatori repubblicani Tom Cotton, Ted Cruz e Marco Rubio per consentire il sanzionamento dei funzionari della Cpi coinvolti nelle indagini sugli Stati Uniti e i loro alleati. Come spiega Cotton, «la Cpi non ha giurisdizione legittima sugli Stati Uniti o su qualsiasi Paese che non ne riconosca l’autorità. Questa legislazione respinge l’appeasement dell’amministrazione Biden nei confronti della Corte Penale Internazionale. Protegge anche i nostri militari, funzionari e alleati dagli attacchi politicamente motivati della Corte, come già accaduto nei confronti delle forze statunitensi in Afghanistan e degli sforzi sostenuti da Israele per difendersi dall’aggressione terroristica». Il provvedimento sconta il pieno appoggio dello speaker della Camera Mike Johnson (repubblicano), secondo cui l’ipotetica emissione di mandati di cattura – definiti «vergognosi e illegali» – contro personale israeliano configuravano un pericolo precedente. «Se non sfidata dall’amministrazione Biden, la Cpi potrebbe assumere un potere senza precedenti, sufficiente a spiccare mandati di arresto contro politici, diplomatici e militari statunitensi», ha evidenziato Johnson. Il quale ha aggiunto che «invece di prendere di mira Israele ingiustamente, la Corte Penale Internazionale dovrebbe portare avanti le accuse contro l’Iran e i suoi alleati sostenitori del terrorismo, incluso Hamas, per aver commesso orribili crimini di guerra», ed esortato il governo a «chiedere immediatamente e inequivocabilmente che la Cpi faccia un passo indietro, e ad impiegare qualsiasi strumento disponibile per prevenire un tale abominio».

La reazione dell’amministrazione Biden e del congresso alle sollecitazioni di Netanyahu consacra l’enorme capacità di condizionamento che Israele è in grado di esercitare sugli Stati Uniti, e palesa la tradizionale propensione di Washington a legittimare l’operato degli organismi internazionali soltanto nel caso in cui i loro pronunciamenti risultino confacenti agli interessi Usa. Qualora quanto deliberato venga ritenuto lesivo o non allineato agli obiettivi Usa, viceversa, istituzioni come le Nazioni Unite o la stessa Corte Penale Internazionale di cui gli Stati Uniti si sono serviti per fornire legittimazione morale alla propria egemonia planetaria diventano oggetto di pesanti attacchi da parte di Washington. È questa, in fine dei conti, l’essenza profonda del cosiddetto “ordine basato su regole” (rules based order) tirato incessantemente in ballo da politici e funzionari statunitensi.

da qui

 

 

Naomi Klein: “Abbiamo bisogno di un esodo dal sionismo”

Ho pensato a Mosè e alla sua rabbia quando scese dal monte e trovò gli Israeliti che adoravano un vitello d’oro.  L’ecofemminista che è in me è sempre stata a disagio riguardo a questa storia: che tipo di Dio è geloso degli animali? Che tipo di Dio vuole accumulare per sé tutta la sacralità della Terra?

Ma esiste un modo meno letterale di interpretare questa storia. Si tratta dei falsi idoli, della tendenza umana a venerare il profano e il luccicante, a guardare al piccolo e al materiale piuttosto che al grande e al trascendente.

Quello che voglio dirvi questa sera in questo rivoluzionario e storico Seder in the Street (è il nome della protesta pro Palestina che c’è stata a Brooklyn lo scorso 23 aprile, davanti all’abitazione di Chuck Schumer, il leader dei democratici al Senato. Durante la protesta – che prende il nome dal Seder, ossia la festa che dà inizio alle celebrazioni della Pasqua ebraica – sono state arrestate oltre 300 persone, proprio mentre il Congresso approvava il massiccio pacchetto di fondi che diversi include miliardi in assistenza militare a Israele, ndt) è che troppe persone tra di noi venerano ancora una volta un falso idolo. Ne restano estasiati. Ubriachi. Profanati da esso.

Quel falso idolo si chiama sionismo.

Il sionismo è un falso idolo che ha preso l’idea della terra promessa e l’ha trasformata in un atto di vendita di uno stato etnico militarista.

È un falso idolo che prende le nostre storie bibliche più profonde di giustizia ed emancipazione dalla schiavitù – inclusa la storia della Pasqua ebraica – e le trasforma in armi brutali impiegate per il furto coloniale di terre, in tabelle di marcia per la pulizia etnica e per il genocidio.

È un falso idolo che ha preso l’idea trascendente della terra promessa – una metafora della liberazione dell’essere umano che ha viaggiato attraverso molteplici fedi in ogni angolo di questo globo – e ha osato trasformarla in un atto di vendita di uno stato etnico militarista.

La versione di liberazione del sionismo politico è essa stessa profana.

Fin dall’inizio, ha implicato l’espulsione di massa dei palestinesi dalle loro case e dalle terre ancestrali della Nakba.

Fin dall’inizio è stata in conflitto con i sogni di liberazione. In un Seder vale la pena ricordare che questo include i sogni di liberazione e di autodeterminazione del popolo egiziano. Questo falso idolo del sionismo equipara la sicurezza israeliana alla dittatura egiziana e agli stati clienti.

Fin dall’inizio ha prodotto un brutto tipo di libertà che vedeva i bambini palestinesi non come esseri umani ma come minacce demografiche – proprio come il faraone nel Libro dell’Esodo temeva la crescente popolazione di israeliti, e quindi ordinò la morte dei loro figli.

Il sionismo ci ha portati al momento attuale del cataclisma ed è giunto il momento di dirlo chiaramente: ci ha da sempre condotti qui.

È un falso idolo che ha condotto fin troppe persone tra noi lungo un percorso profondamente immorale che li porta a giustificare la distruzione dei comandamenti fondamentali: non uccidere, non rubare, non desiderare la casa del tuo prossimo.

Noi, in queste strade da mesi e mesi, siamo l’esodo. L’esodo dal sionismo.

È un falso idolo che equipara la libertà ebraica alle bombe a grappolo che uccidono e mutilano i bambini palestinesi.

Il sionismo è un falso idolo che ha tradito ogni valore ebraico, compreso il valore che attribuiamo alla messa in discussione (una pratica incorporata nel Seder con le sue quattro domande poste dal bambino più piccolo), compreso l’amore che abbiamo come popolo per il testo e per l’istruzione.

Oggi questo falso idolo giustifica il bombardamento di ogni università di Gaza; la distruzione di innumerevoli scuole, archivi e tipografie; l’uccisione di centinaia di accademici, giornalisti e poeti – questo è ciò che i palestinesi chiamano “scolasticidio”, l’uccisione dei mezzi di istruzione.

Nel frattempo, in questa città, le università chiamano in causa la polizia di New York e si barricano contro la grave minaccia rappresentata dai propri studenti che osano porre loro domande basilari, del tipo: come potete affermare di credere davvero in qualcosa, men che meno in noi,mentre permettete, investite e collaborate con questo genocidio?

Per troppo tempo si è permesso che il falso idolo del sionismo crescesse incontrollato.

Allora stasera diciamo: finisce qui.

Il nostro giudaismo non può essere contenuto in uno stato etnico, poiché il nostro giudaismo è internazionalista per natura.

Il nostro giudaismo non può essere protetto dall’esercito infuriato di quello stato, perché tutto ciò che fa l’esercito è seminare dolore e raccogliere odio – anche contro di noi come ebrei.

Il nostro ebraismo non è minacciato da persone che alzano la voce in solidarietà della Palestina al di là di razze, etnie, abilità fisiche, identità di genere e generazioni.

Il nostro ebraismo è una di quelle voci e sa che in quel coro risiedono sia la nostra sicurezza che la nostra liberazione collettiva.

Il nostro giudaismo è il giudaismo del Seder pasquale: una cerimonia che prevede il raduno per condividere cibo e vino con i propri cari e con gli estranei, un rituale che è intrinsecamente tascabile, abbastanza leggero da poter essere portato sulle spalle, che non ha bisogno di niente se non di noi stessi: niente mura, niente tempio, niente rabbino, un ruolo per tutti, anche – soprattutto – per il bambino più piccolo. Il Seder è una tecnologia della diaspora, se mai ce n’è stata una, creata per il lutto collettivo, la contemplazione, l’interrogazione, il ricordo e il rilancio dello spirito rivoluzionario.

Quindi guardatevi intorno. Questo qui è il nostro giudaismo. Mentre le acque si alzano e le foreste bruciano e nulla è certo, preghiamo sull’altare della solidarietà e dell’aiuto reciproco, qualunque sia il costo.

Non abbiamo bisogno né vogliamo il falso idolo del sionismo. Vogliamo svincolarci dalprogetto che commette un genocidio in nostro nome. Svincolarci da un’ideologia che non ha alcun piano per la pace, se non accordi con i petro-stati teocratici e assassini della porta accanto, per vendere le tecnologie degli omicidi robotici al mondo.

Cerchiamo di liberare l’ebraismo da uno stato etnico che vuole che gli ebrei abbiano perennemente paura, che vuole che i nostri figli abbiano paura, che vuole farci credere che il mondo è contro di noi, cosicché corriamo verso la sua fortezza e sotto la sua cupola di ferro, o che quantomeno manteniamo il flusso di armi e donazioni.

Questo è il falso idolo.

E non è solo Netanyahu, è il mondo che ha creato e che lo ha creato – è il sionismo.

Cosa siamo noi? Noi, in queste strade da mesi e mesi, siamo l’esodo. L’esodo dal sionismo.

E ai Chuck Schumer di questo mondo non diciamo: “Lasciate andare la nostra gente”.

Diciamo: “Siamo già andati. E i vostri figli? Sono con noi adesso”.

 

Naomi Klein ha partecipato al Sader in the Street tenutosi a Brooklyn lo scorso 23 aprile: “Non abbiamo bisogno né vogliamo il falso idolo del sionismo. Vogliamo svincolarci dal progetto che commette un genocidio in nostro nome”. Articolo originale pubblicato su The Guardian il 24 aprile 2024; traduzione per Globalproject di Fiorella Zenobio.

da qui

 

 

Non distogliere lo sguardo da Gaza! (e dalla Cisgiordania)

“Pagine esteri” di oggi [23 aprile] ospita un appello a non distogliere lo sguardo da Gaza per l’estrema gravità delle condizioni in cui versa la massa della sua popolazione e per la continuazione dell’operazione-genocidio, firmato da Rana Abhari, che comincia in questo modo:

“Alla luce dei recenti attacchi di rappresaglia dell’Iran e di Israele, l’attenzione dei media si è ora spostata sulle preoccupazioni di una potenziale escalation regionale e sull’atteso pacchetto di aiuti della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. Di conseguenza, Gaza e la sua guerra sembrano essere passate in secondo piano.

“Ma non dovrebbero rimanervi a lungo. Mentre lo sguardo del mondo è stato distolto, il bilancio delle vittime da quando Israele ha colpito il consolato iraniano in Siria, tra i 50 e i 100 gazawi al giorno, non fa che sottolineare la gravità della situazione. Dall’attacco del 1° aprile, l’assalto israeliano a Gaza ha provocato: rivelazioni sul fatto che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno creato “zone di morte” a Gaza in cui chiunque può essere colpito; la morte di sette operatori umanitari internazionali, uccisi in un attacco mirato dell’esercito israeliano; una fossa comune, trovata dopo il ritiro israeliano dall’ospedale al-Shifa, che conteneva almeno quindici corpi dopo l’assedio di due settimane all’ospedale; la morte di almeno 13 persone dopo che un attacco ha preso di mira il campo profughi di Al-Maghazi, nel centro di Gaza; e la notizia che tutti i pozzi d’acqua di Gaza City hanno smesso di funzionare, secondo l’Ufficio dei media del governo di Gaza.”

Raccogliamo questo appello e lo rilanciamo integrandolo in un punto: Gaza è piena di fosse comuni e spesso non è possibile neppure identificare i cadaveri perché i corpi (non di rado ammanettati e denudati) sono ormai in avanzato stato di decomposizione – come scrive sul Manifesto di oggi Michele Giorgio. A Khan Yunis la più grande di queste fosse comuni conteneva 210 corpi di donne, giovani e anziani. La stessa penosa ricerca dei cadaveri è stata interrotta da nuove operazioni militari dell’esercito sionista, che si prepara – con l’autorizzazione di Washington, e il silenzio-assenso dell’UE – ad attaccare in forza Rafah, dove tuttora è rifugiato oltre un milione di palestinesi.

Non bisogna assolutamente distogliere lo sguardo da Gaza. Ma neppure dalla Cisgiordania, dove negli ultimi giorni ci sono state decine di morti (tra i combattenti della Resistenza e nella popolazione) nei villaggi vicino a Nablus e a Ramallah, a Tulkarem e nel campo profughi di Nur Shams. A fronte della totale, quasi secolare, impunità per coloni ed esercito sionisti, appare una mascherata di carnevale a fini elettorali la decisione, anzi anzi l’intenzione dichiarata, dell’amministrazione Biden di “sanzionare” il battaglione di ultra-ortodossi Netzah Yehuda – un’intenzione immediatamente attaccata come un’assurdità dal tandem Netanyahu-Gantz, più che mai uniti in questo. Ma come, obiettano, ci avete lasciato fare sinora ogni genere di massacri e di “violazioni dei diritti umani” (un’espressione che sta cominciando a diventare odiosa per molti, per noi lo è da sempre), e ora ve la volete prendere con questi quattro poverelli: cos’hanno fatto di male? Si sono onorevolmente dati da fare per macellare e torturare un po’ di “animali con sembianze umane”; e allora?

Non sono affatto delle mascherate di carnevale, invece, le forti proteste degli studenti e, in alcuni casi (alla Columbia, ad es.), anche dei docenti, nelle università degli Stati Uniti, dove si segnalano tra ieri e oggi scontri con la polizia e almeno 130 arresti nella sola New York. La solidarietà con Gaza si allarga tra i più giovani nel cuore dell’impero: ottima notizia. Anche in Italia qualche piccolo cedimento per effetto delle mobilitazioni si comincia ad avvertire nelle istituzioni accademiche come in qualche angolo del mondo delle imprese, ma il tempo stringe. Bisogna allargare ancora, intensificare e unificare questo movimento di solidarietà internazionale con la lotta di liberazione palestinese.

da qui

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *